venerdì 10 ottobre 2008

La Casa di Reclusione per il lavoro all'aperto di Gorgona Isola

di Luigi Morsello

UNO

Correva l’anno 1977.
Si era nel cuore del "decennio degli anni di piombo", ma non lo sapevamo, quel che sapevamo era che l’orizzonte appariva cupo e non c’erano cenni di schiarite. Il terrorismo impazzava, seminando morti fra le forze dell’ordine, i magistrati, i giornalisti, i sindacalisti.
Nessuno di noi si sentiva al sicuro e nemmeno ragionevolmente al riparo. Non sapevamo quali erano le strategie criminali che presiedevano agli attentati, prima alle cose, poi le gambizzazioni, quindi le uccisioni. Le BR e i gruppi terroristici nati da costole delle BR sembravano invincibili, inafferrabili, una minaccia incombente che poteva materializzarsi ad ogni angolo di strada, uscendo di casa, prendendo un mezzo pubblico.
Molti di noi pubblici dipendenti e (modesti) servitori dello Stato si sarebbero sentiti più tranquilli se si fosse saputo che un attentato terroristico richiedeva una pianificazione meticolosa, e fin qui ci si poteva arrivare da soli, ma anche una serie di controlli e di accertamenti che richiedevano come elemento fondamentale il non apparire, il non farsi notare. Quando queste condizioni non erano realizzabili l’”inchiesta” veniva abbandonata o messa in sonno.
Altra condizione da soddisfare era la relativa facilità di colpire l’obiettivo, che però era un essere umano, per cui avere una scorta già complicava le cose. Non che questo fermasse i terroristi (il sequestro di Aldo Moro ne è un esempio clamoroso), ma certo si preferivano obiettivi non protetti o non molto protetti.
Inoltre, ma non era essenziale, occorreva essere o rappresentare un simbolo dello Stato che volevano abbattere. Meno protetto era, meglio era.
Anche ad averlo saputo, avendo avuto queste consapevolezze, nemmeno saremmo stati molto meno preoccupati perché era fatale che subentrasse una paranoia, più o meno grave, che faceva intravedere il pericolo dappertutto.
C’era, paradossalmente, un solo lato positivo, quello di fare, di fronte alla minaccia di morte, quadrato, per cui si era stabilita una solidarietà fra il personale in servizio nelle carceri, sconosciuta prima del decennio degli anni di piombo e scomparsa gradualmente dopo l’estinzione del fenomeno terroristico, almeno di quella forma di terrorismo massiccia, che, per fortuna, non seppe interpretare gli orientamenti della classe operaia (l’illusione che fossero gli operai tutti dei potenziali terroristi comportò il passaggio dal gesto simbolico dei primi tempi al gesto terroristico grave ed infine alle uccisioni, determinandosi così il rigetto o, addirittura, la impenetrabilità delle classi operaie), altrimenti sarebbe stata guerra civile.
Il sistema penitenziario, nella sua articolazione in Direzione Generale per gli istituti di prevenzione e pena (oggi Dipartimento), era funestato dalle continue evasioni, una media di una evasione al giorno. Le carceri erano vetuste, sorpassate, ridotte ad un vero colabrodo. La mentalità era del tutto inadeguata ad interpretare i nuovi fenomeni criminosi e a guardare gli attori di questi fenomeni con il realismo e l’attenzione che meritavano.
Ne fu una prova eclatante l’evasione di Renato Curcio (l'ideologo delle BR) dal carcere piemontese di Casale Monferrato (oggi soppresso), con modalità di strabiliante facilità. I ‘liberatori’ si limitarono a bussare al portone d’ingresso del carcere, a prendere in ostaggio il portinaio, entrando armi in pugno all’interno del carcere ed uscendone fuori assieme al loro ideologo-capo.
Il carcere di Casale Monferrtato era ‘ictu oculi’ un carcere per piccoli delinquenti non facenti parte di nessuna organizzazione criminale: un carcere del passato.
Il ‘Ministero’ vi assegnò Renato Curcio !
Per contenere in condizioni di sicurezza i terroristi, di sinistra e di destra, che erano in sempre maggior numero arrestati, fu deciso di costruire a Gorgona un padiglione prefabbricato da 100 posti, incarico affidato a trattativa privata ad una società romana, costo un miliardo e 360 milioni di lire.
Tale decisione era stata fortemente sollecitata da Carlo Alberto Dalla Chiesa, famosissimo e compianto generale dell’Arma dei Carabinieri, il quale aveva creato a Torino una struttura antiterrorismo, che non tardò a dare i suoi frutti, che di successo in successo furono tali e tanti da proporre il problema della loro detenzione in carceri sicure, un miraggio per l’epoca.
Le carceri italiane erano state oggetto di sostanziosi restauri e nuove costruzioni nel ventennio del regime fascista, che non poteva tollerare prigioni impresentabili all’opinione pubblica italiana a mondiale per cui, assieme al varo del codice Rocco e del nuovo Regolamento Penitenziario del 1931 (giudicato all’epoca il più avanzato al mondo ed era vero), fu varato un programma di edilizia penitenziaria, realizzato con ottimi risultati. Gli ingegneri e gli architetti del ventennio fascista erano veramente bravi.
Gorgona Isola era classificata dal regolamento del 1931 uno stabilimento di pena speciale denominato “Casa di lavoro all’aperto” ed era classificata dal regolamento di contabilità carceraria del 1920, tuttora vigente nonostante sia stato ampiamente superato con la legge di contabilità generale dello Stato del 1934, come ‘Azienda agricola’.
Poi gli eventi della II^ guerra mondiale, la distruzione dell’Italia operata dagli eserciti alleati lungo tutta la dorsale della penisola, la necessità della ricostruzione dopo aver dovuto mendicare aiuti agli U.S.A. (Alcide De Gasperi effettuò appositamente la storica visita del 1947), aiuti che generosamente furono concessi (lo stesso anno fu varato un piano al fine di favorire la ricostruzione dell’Europa, denominato “Piano Marshall” dal nome del segretario di Stato statunitense che lo ideò) comportarono l'individuazione di una scala di priorità e le carceri non erano al primo posto.
Ne conseguì un abbandono ed un lungo declino che cessarono solo con l’aggressione del terrorismo e nemmeno immediatamente. I riflessi della politica e della burocrazia non sono mai stati rapidi e, talvolta, appaiono solo rapidi senza esserlo in operazioni di mera facciata.
Infatti, nei riguardi del terrorismo le istituzioni repubblicane, del tutto impreparate, furono lentissime a reagire. L’impressione era che i governanti dell’epoca fossero rimasti paralizzati dallo stupore per l’enormità di quanto stava iniziando ad accadere e accadeva realmente: l’attacco frontale al cuore dello Stato !
Va detto che i responsabili delle carceri del tempo non erano colpevoli per l’abbandono (anzi, sembrava predicassero al deserto), perché era la classe politica al governo che non dedicava quasi nessuna attenzione alle strutture penitenziarie, e quindi le risorse necessarie anche per la sola manutenzione ordinaria degli edifici carcerari.
La conseguenza fu un inesorabile declino delle strutture durato almeno fino agli inizi del 1970, per oltre 25 anni dopo la fine della II^ guerra mondiale.
Di contro però la delinquenza comune si faceva sempre più ardita e fantasiosa, le evasioni iniziarono a moltiplicarsi, approfittandosi anche di strutture concepite per un altro tipo di delinquenza, quella del vestiario uniforme (casacca a strisce e del numero di matricola sul petto). L’unica novità introdotta fu l’abolizione del vestiario a strisce, sostituito con abiti di un indefinibile colore marrone, e del numero di matricola sul petto, i detenuti iniziarono ad essere chiamati per nome e cognome e non più col solo numero di matricola (l’anno era 1951). Ai detenuti doveva essere dato del Lei nei rapporti con funzionari e personale di custodia. Tutto qui.
Gorgona non era sfuggita a questo declino, le strutture cadevano a pezzi, il processo di fatiscenza era accelerato dall’ambiente marino.
Gorgona è quasi uno scoglio in mezzo al mar Tirreno, a 37 km. dalla costa da Livorno, un isolotto di appena 2 kmq. di superficie (220 ha), gli spruzzi d’acqua marina durante le burrasche invernali arrivano dappertutto, attaccando qualsiasi struttura costruita dall’uomo, in particolare il materiale ferroso, che reagiva l’acqua marina innescando una reazione chimica (idrossido di ferro) il cui prodotto era una triplicazione del volume del materiale ferroso; conseguenza: tutte le strutture in c.a. inesorabilmente si spaccavano dall'interno.
La inadeguatezza e talvolta la totale mancanza di manutenzione determinò una inarrestabile fatiscenza degli edifici, specie quelli destinati alla detenzione, che furono uno dopo l’altro abbandonati perchè divenuti insicuri e sotto pericolo di crolli.
Anche le strutture destinate all’agricoltura, ed alla connessa attività zootecnica, declinarono inesorabilmente.
I terrazzamenti realizzati per sfruttare la poca superficie coltivabile disponibile, ivi compreso un vitigno che resisteva al clima ostile (si produceva un vinello di non eccelsa qualità), furono via via abbandonati e diventarono regno di una razza di conigli selvatici di piccole dimensioni (effetto della consanguineità e dell’insorgere degli inevitabili caratteri recessivi).
Soprattutto le strutture in muratura destinate alla detenzione divennero via via pericolanti e furono svuotate.
L’intenzione era di abbandonare l’isola, in cui ormai si trovavano pochi detenuti (10-12 all’incirca), se ciò non accadde fu per la celebre lentezza dell’apparato burocratico statale (oggi largamente superato dall’abbinamento lentezza-inefficienza) e fu una fortuna, se solo si pone mente a cos’è oggi la Gorgona, come la pubblica opinione non dovrebbe ignorare.
Fatto sta che agli inizi degli anni ‘70 e seguenti fu deciso il recupero delle vecchie strutture, con un programma edilizio che fu oculatamente studiato alla bisogna.
Le sezioni, ormai inagibili e parzialmente crollate, dovevano essere integralmente ricostruite, rispettando volumetria e impatto ambientale.
Si trattava di ricostruzione, non di restauro conservativo, molto difficile e costoso per lo stato dei fabbricati (si ricordi l’effetto dell’acqua di mare).
Si decise, per contenere i costi, di intervenire con una impresa edilizia romana che forniva la mano d’opera specializzata, mentre i materiali da costruzione (sabbia, mattoni, cemento, e quant’altro) sarebbero stati forniti dall’amministrazione penitenziaria.
I lavori poi erano pagati con un prezziario che, tenendo conto della prestazione della sola mano d’opera, ricalcava in pieno le voci dei lavori eseguiti, sulla base però, come si è detto, della sola mano d’opera.
Il carcere all’inizio degli anni ‘70 non aveva un direttore fisso (scarseggiavano anche i direttori) ed era retta da un funzionario dei minorenni in missione per alcuni giorni la settimana. Ci si servì del direttore distrettuale minorile. Era una persona per bene, già avanti negli anni, sofferente di asma, pieno solo di disillusione, che se pure ci avesse creduto mai al proprio lavoro, allora non ci credeva più. Si chiamava Dionino Martusciello, che ovviamente io ho conosciuto, un persona simpatica, alla mano, che non si sforzava più di tanto, credo per lo stato di salute e per l’età già avanzata.
Per il trasporto dei materiale ci si serviva di una barca di legno, che portava fino a due tonnellate di materiale, chiamata “Nonno Beppe”, fornita di un motore diesel, di proprietà del fornitore della ditta appaltatrice della fornitura di generi alimentari per i detenuti, il cui titolare si chiamava Arno Ardisson, che era anche titolare dell’agenzia di navigazione di Livorno della società Toremar, che ancora oggi effettua il servizio di navigazione fra le isole dell’arcipelago toscano.
Il comm. Arno Ardisson, un uomo anch’egli già avanti negli anni, che si era fatto da sé partendo dal lavoro di mozzo di bordo, era stato presidente della Camera di Commercio di Livorno e sindaco del comune di Porto Azzurro dal 1960 al 1975, era una persona elegante, misurata nei toni, molto cortese, che ascoltava molto volentieri, ascoltava molto, parlava poco. Insomma sapeva il fatto suo.
Del carcere della Gorgona si interessò il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, al quale servivano strutture sicure per ‘ingabbiarvi’ i terroristi catturati. Egli fece una ricognizione nelle isole dell’arcipelago toscano, individuò due carceri potenzialmente utili, Pianosa e Gorgona.
A Pianosa, un’isola piatta di circa 12 kmq., individuò una sezione, la c.d. “diramazione Agrippa”, che venne immediatamente utilizzata e della quale parlerò non in questo momento, e la Gorgona.
Perché la Gorgona ? Perché aveva sulla sua sommità uno spiazzo in leggera su cui poteva essere costruito un padiglione da utilizzare sempre per tenere in gabbia i terroristi arrestati. Insomma, una “sezione speciale”.
Dalla Chiesa notò che i lavori già in corso languivano, il direttore in missione non era sufficientemente energico per le sue esigenze e per il suo temperamento oggi noto a tutti ma anche allora già famoso, per cui giudicò quel direttore in missione non sufficientemente idoneo e ne chiese la sostituzione con uno più giovane ed energico.
La scelta cadde su me. Ero direttore della casa di Reclusione di S. Gimignano, un’altro carcere malandato come tanti, che era stato funestato in breve arco di tempo da due evasioni clamorose, di più detenuti. Per sostituire quel direttore, che nel frattempo era stato allontanato, [la reggenza era stata data (allora era possibile) al ragioniere], fui individuato io. All’epoca avevo il grado di vice direttore, ma ebbi le funzioni di direttore fin dal 10 gennaio 1970 ed ero in servizio dal luglio 1967.
Non stavo lì a far nulla, era un carcere impegnativo, che non era affatto tranquillo, ma non c’era, credo, nessun altro disposto ad esporsi in quel periodo; lo ricordo, si trattava di quello che fu poi denominato “decennio degli anni di piombo”.
Quindi toccò a me e sarebbe successo altre volte.
Accettai l’"invito" ma posi come condizioni di avere un gruppo di lavoro di tre persone, fra le quali un valido funzionario di ragioneria, dal quale avevo imparato i rudimenti del servizio contabile; ben pochi direttori lo avevano fatto in passato e lo avrebbero fatto in futuro: il rag. Luigi Parisi, degli Istituti Penitenziari di Firenze, mia prima sede di servizio, in sottordine, direttamente dal concorso a vice direttore aggiunto in prova.
L’arrivo in isola fu movimentato. Conservo fortunosamente una fotografia: quello con gli occhiali da sole sono io, alle mie spalle un graduato ed alle sue spalle il rag. Parisi.
La nave-traghetto a causa del suo alto pescaggio non entrava nel porticciolo dell’isola, si fermava in rada, gettava l’ancora ed aspettava. Dal porticciolo partiva un barcone di legno a motore, che sia accostava alla fiancata interna della nave, con il portellone già aperto, quindi si scendeva sul barcone che rientrava nel porticciolo.
Quando tirava vento di grecale o di maestrale il mare era agitato, le operazioni di barchettaggio non si potevano effettuare e la nave-traghetto tirava dritto. In tal caso non si partiva nemmeno da Livorno (noi missionari, non la nave), mentre se si era già in isola, vi si restava in attesa della prossima corsa. La nave effettuava due corse settimanale, il martedì di andata, il venerdì di ritorno e faceva il giro delle isole: Gorgona, Capraia, Porto Azzurro, Pianosa.
La prima impressione fu di un’isola incontaminata, bellissima.
La mano dell’uomo era stata sapiente, l’amministrazione carceraria aveva realizzato strutture nel suo genere belle, pur nello stato di decadenza in cui si trovavano.
Saggio sarebbe stato tentare un restauro conservativo, di cui la Toscana è famosa, ma l’amministrazione penitenziaria non era governata da toscani, pur essendovi al vertice dei magistrati ruoli ruolo con funzioni amministrative di grande valore.
Il Direttore Generale era Giuseppe Altavista, il capo della Segreteria era Girolamo Minervini. Non hanno bisogno di particolari presentazioni, bastando dire che il primo morì d’infarto alla fine dell’anno 1979 ed il secondo fu ucciso, con in tasca già l’incarico di sostituire il primo voluto dal Presidente del Consiglio Cossiga, il 18 marzo 1980 dalle BR: si stava recando al lavoro, da solo, senza scorta, su un autobus cittadino. Il terrorista che lo uccise continuò a sparare ferendo anche tre passeggeri.
Girolamo Minervini, pugliese di Molfetta, mi aveva in grande considerazione.
In isola c’era da poco tempo un giovane funzionario di ragioneria, oggi scomparso per un male incurabile, si chiamava Biagio Angelucci, originario di Casanova di Carinola, era stato sbattuto lì quale sede di prima nomina, una sede disagiata, accadeva a chi non aveva santi protettori.
Una notevole somiglianza con un bravo attore cinematografico, celibe, si presentava con barba incolta e capelli lunghi, giocherellava con il flauto dolce, molto intelligente, inizialmente poco collaborativo, poi, dopo un mio rabbuffo piuttosto duro, volenteroso e capace.
Invece noi due (io e Parisi) lavoravamo dalla mattina presto fin quasi alla mezzanotte, con le sole pause per pranzo e cena. Poi a mezzanotte smettevamo, non solo perchè evidentemente stanchi, ma sopratutto perché veniva spento l’unico gruppo elettrogeno disponibile, asmatico e vecchio. Era un gruppo elettrogeno francese, marca Poyaud, casa produttrice ancora oggi esistente, raffreddato ad acqua. Ci sarebbe voluto un gruppo elettrogeno raffreddato ad aria, in isola c’era una sorgente di acqua potabile purissima, ma lontana. Allora si pensò, pensiero sciagurato, di utilizzare l’acqua marina. Risultato: le camere di raffreddamento irrimediabilmente intasate da calcare, surriscaldamento del motore a scoppio, necessità di pause di raffreddamento, l’ultima a mezzanotte e per tutta la notte.
Insomma, si stava al buio, con la luce delle candele. Non restava altro da fare che dormire. Questa vita io e Parisi la conducevamo dal martedì al venerdì di ogni settimana, il tempo di andata e ritorno del traghetto della Toremar.
Angelucci era il contabile di cassa e del materiale, Parisi si preoccupava della gestione delle funzioni di ragioniere capo, io ero direttore, funzionario delegato e tutto fare.
Al nostro primo arrivo vi fu una sorpresa amarissima: il totale disordine della gestione contabile. Non c’era un solo registro, fascicolo, pratica che fossero in ordine e completi. Fu necessario impiantare tutto ‘ex novo’. A dire il vero, in quasi tutte le carceri era così, S. Gimignano compresa, almeno prima che ne assumessi la direzione. Ma lì era davvero da Guinness dei primati !
I lavori di ricostruzione erano già iniziati, la scelta sciagurata di ricostruire anziché restaurare era ormai irreversibile, però la volumetria degli edifici preesistenti era stata rispettata, almeno questo.
La missione durò dall’estate del 1977 a quella del 1978, poi terminò bruscamente: avevo pestato i piedi a qualcuno. Ne dirò dopo.


(continua)

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

I tuoi nitidi ricordi , interessanti perchè ci riportano ad anni che la storia recente ha etichettato come "anni di piombo", ci fanno anche riflettere che, ahimé, la gestione di tutte le strutture pubbliche, dalle più alle meno importanti, ha sempre sofferto dell'insipienza e della tracotanza della classe politica che, incapace di comprendere le reali esigenze del paese, ha trascurato gli interventi più necessari e misconosciuto quei funzionari di valore che avrebbero potuto migliorare di molto la gestione del settore pubblico se solo avessero ricevuto ascolto e sostegno.
Rossana