domenica 12 ottobre 2008

La Casa di Reclusione per il lavoro all'aperto di Gorgona Isola

Luigi Morsello

DUE

L’estate del 1977 trascorse tutta a riordinare, riorganizzare, capire cosa fare e come. Va detto che le ferie estive, un po’ stupidamente, non le trascorremmo a Gorgona, ma l’anno successivo ci eravamo fatti furbi.
La lentezza dei lavori di ricostruzione era dovuta alle difficoltà di rifornimento dei materiali da costruzione: sabbia, cemento, mattoni, tutto doveva arrivare dalla terraferma. Tutto era affidato alla portata della “Nonno Beppe (nella foto in alto da sinistra: Parisi, Morsello, Angelucci), che era di due tonnellate appena, ed alle condizioni di navigabilità del mare.
Non andava bene, non poteva durare.
Intanto io mi occupavo delle gare necessarie per acquistare tali materiali, non c’era INTERNET né il FAX, la Olivetti aveva appena iniziato ad elaborare delle macchine via cavo telefonico, mediante il sistema delle schede perforate, ma a Gorgona non c’erano, le urgenze si soddisfacevano mediante fonogramma (testi dettati tramite telefono, il telefono utilizzava un ponte radio), la posta viaggiava assieme al traghetto, due volte la settimana, il martedì e il venerdì, mare permettendo. Qualche volta la “Nonno Beppe” recapitava la corrispondenza recapitata presso l’agenzia del comm. Ardisson.
Bisognava compensare la lentezza e la scarsissima frequenza degli accessi con la quantità dei rifornimenti. Mi venne detto che il comm. Ardisson, proprietario della “Nonno Beppe” e dell’agenzia della società di navigazione Toremar, non gradiva altri mezzi di trasporto ed era vero.
Allora decisi di muovermi personalmente. A Livorno c’è la NERI S.p.A., allora la seconda società in Europa di rimorchiatori d’alto mare, che noleggiava anche dei pontoni galleggianti della portata di 200 tonnellate di carico. Presi appuntamento, nella più assoluta riservatezza, parlai con l’amministratore, uno dei fratelli Neri che accettò, chiesi un preventivo di spesa che confermasse il costo di ogni viaggio (rimorchiatore e pontone galleggiante), arrivò compilato in modo insufficiente, lo rimandi indietro con le correzioni da fare e non lo rividi mai più !
Il comm. Ardisson l’aveva saputo, non so come, dovetti quindi trattare con lui il nolo di cui sopra. Ricordo ancora il sorriso sornione col quale Ardisson mi accolse nel suo ufficio, mi disse: “Ha provato a fregarmi, vero ? ” Si, era vero, ma non ci provai più. Divenimmo quasi amici, certamente c’era rispetto reciproco, lui anziano ed astuto uomo d’affari, un uomo elegante di una eleganza classica, un gentiluomo ma anche un lupo; io un giovane direttore, infaticabile, pieno di iniziative, onesto (ci provò senza riuscirci e mi disse sorpreso che era la prima volta in vita sua, io gli risposi che c’era sempre una prima volta, prendendomi una piccola rivincita) e un tantino ingenuo, forse troppo ingenuo. Non avevo capito come andavano le cose e anche quando, anni dopo, l’ho capito, non l’ho mai accettato.
L’isola era tutta demaniale, eccetto la zona del porticciolo, che era privata, abitata dai nativi residui della Gorgona, tutte persone anziane. Allora erano una cinquantina, oggi ho sentito che ne è rimasta una sola.
C’era un ristorantino che era un vero gioiello di accoglienza, di cordialità, di qualità della cucina. Si praticava la pesca delle aragoste, con nasse calate nei punti strategici. Lì ho gustato, per la prima volta, l’aragosta. Finita la missione non ne ho più voluto sapere.
Quando c’era mare grosso, nei periodi topici si ammassavano nel porticciolo pascetti, piccolissimi, bianchi, che chiamavano “bianchetti”: eccellenti sia in umido che in frittata con uova.
Uno degli ospiti fissi era l’amministratore delegato dell’epoca della Piaggio, un anziano signore arcigno, ospite della zona libera dell’isola, che veniva per la pesca della leccia, un pesce predatore costiero che poteva raggiungere i 20 kg. di peso, alcuni esemplare raggiungo i due metri di lunghezza e i 50 chili di peso.
Quel signore, che veniva con la propria imbarcazione, adatta per questo tipo di pesca, prima catturava le aguglie, quindi le utilizzava come esche vive per agganciarle agli ami, si chiama pesca al traino.
La seconda leccia pescata significava invito a cena per tutti quelli che potevano esservi inviatati, in quel ristorantino. Una vera goduria.
Intanto, assieme all’ing. Giancarlo Novelli, titolare della società omonima, si progettavano i lavori da fare, sia di ricostruzione che di nuova costruzione, fra i quali la nuova centrale elettrica.
La prima volta che arrivò il pontone galleggiante trainato da un rimorchiatore fu per me uno spettacolo che non volli perdere: 200 tonnellate di materiale scaricato con la gru di dotazione del pontone, un vero spettacolo, finalmente si faceva sul serio !
Una volta sabbia, un’altra cemento (la CEMENTIR di Livorno), un’altra mattoni sodi in bancali, poi forati, ed ancora stucco in polvere, ecc.
Non si faceva a tempo a scaricare che ne arrivavo un altro carico. L’ing. Novelli, che fino a un giorno prima si lamentava per la scarsità di materiali da costruzione, ebbene iniziò a lamentarsi che era troppo il materiale scaricato e non faceva in tempo a trasportarlo in cantiere.
Insomma, si ha sempre qualcosa di cui lamentarsi.
Io e Parisi riordinammo tutto, era ora.
La mia è stata sempre una vita di lavoro, di non meno di dodici ore al giorno in media. Lì a Gorgona la media salì e di parecchio.
Il personale di custodia, non solo le c.d. “cariche speciali”, strabiliava per quanto si lavorava, non capiva però gradiva.
Non c’era altro da fare, specie d’inverno !
D’estate poi l’isola era un splendore ancora maggiore. Ma i bagni di mare, pur splendidi (a 10 metri già c’era un fondale non inferiore ai 20 metri che rapidamente sprofondava in profondità per cui l’acqua di mare aveva una colorazione di blu intenso: era profondo davvero) erano solo un interludio.
La prima estate la mia famiglia venne per una diecina di giorni, la seconda ed ultima estate ci restarono due mesi.
Almeno questo !
Ma io mi strappavo a fatica dal lavoro.
Al carcere di S. Gimignano, del quale ero e rimanevo titolare, era stata assegnata una macchina di servizio, dopo molte pressioni da parte mia. Si trattava di una FIAT 1100 D usata, ceduta dal carcere di Genova. Era in cattive condizioni, la feci sistemare ma non era affidabile (infatti qualche tempo dopo si fuse il motore, che feci sostituire con uno nuovo, visto che non c’era altro da fare).
Quello era l’automezzo col quale io andavo in missione in Toscana. Le macchine blindate erano di là da venire, le prime furono Alfa Romeo modificate, poi finalmente furono progettate appositamente.
Generalmente c’era solo l’autista militare, entrambi eravamo armati, l’autista pistola automatica Beretta cal. 9 mod. 40 d’ordinanza e M.A.B. (Moschetto Automatico Beretta) con caricatore da 40 colpi gemellato artigianalmente con un secondo caricatore, io una pistola semiautomatica Bernardelli cal. 7,65 modello 60 con caricatore da sei colpi + uno in canna.
Sparare sapevo, ma, per fortuna, non ho mai dovuto farlo.
Il M.A.B. lo tenevo io sulle gambe, pronto all’uso, era un'arma militare, io militare non lo era ma c'era lo stato di necessità.
Quando il martedì mattina andavamo a Gorgona, a bordo c’era un agente di scorta (non autorizzata, ma che se ne fregava) oltre l’autista, passavamo da Firenze per prendere a bordo Parisi, quindi raggiungevano livorno con l’autostrada Firenze-Mare. Dopo la partenza del traghetto, la macchina di servizio tornava a S. Gimignano e ritornava a Livorno il venerdì pomeriggio per fare il percorso inverso.
L’unico non armato era Parisi.
Che dire, sapevamo che era inutile avere con sé delle armi, ma l’averle con noi ci confortava e ci dava un sia pure ingannevole senso di protezione.
Ma non c’è mai stato un conflitto a fuoco, perché eravamo imprevedibili, poco importanti ma armati. Insomma, non ne valevamo la pena.
E Gorgona: lavorare, lavorare e lavorare. Per tre giorni consecutivi ed anche oltre, quando il mare troppo mosso impediva le operazioni di barchettaggio e restavamo in isola. Ma non aspettavamo il venerdì successivo, perchè quasi sempre, col mare calmatosi, arrivava al “Nonno Beppe”, che in giornata tornava a Livorno e noi pure. Mi sono rimaste alcune fotografie di una di quelle volte, sono i bianco e nero e, giova ripeterlo, vi siamo noi tre: io al centro, Parisi alla mia destra ed Angelucci alla mia sinistra.
Ma quando non ne potevamo più di lavorare si faceva altro.
Intanto occupavamo, io e Parisi, l’alloggio del direttore, poi avevamo un cuoco detenuto molto bravo. Non c’era riscaldamento, ma avevamo delle stufette, elettriche.
Il maresciallo comandante si chiamava Evaristo Armocida, la moglie era una nativa di Gorgona, aveva anch’egli l’alloggio di servizio.
Degli altri operatori ricordo il nome solo dell’app. Donato Boccardi, era addetto alla M.O.F. (Manutenzione Ordinaria del Fabbricato), un pugliese alto, asciutto, muscoloso. Misi a sua disposizione tutto quanto gli serviva per fare il suo lavoro, non stava nella pelle dalla contentezza, all’inizio quasi non ci credeva.
Insomma, erano persone perbene con le quali si stava bene in compagnia.
Il maresciallo comandante era anche il delegato della capitaneria di porto di Livorno ad esercitare le funzioni di sorveglianza delle disposizioni marittime, ivi compreso il divieto di avvicinamento all’isola al quà dei 500 metri dalla costa, divieto che non poteva in alcun modo far rispettare.
Non c’era un mezzo adeguato per raggiungere le imbarcazioni da diporto, che quanto vedevano sopraggiungere la barchetta di legno levavano le ancore e se ne andavano via indisturbate.
Anche quando feci sostituire la barchetta con una scialuppa di salvataggio in alluminio pesante, inaffondabile, fornita dalla società Ardisson, la situazione cambiò, perché era inaffondabile ma non veloce.
Il personale masticava amaro quando gettavano le ancore in cala maestra e si divertivano alla grande, musica, champagne, nuotate, seni al vento. E mi assillava, ma che ci potevo fare ?
Sono passati tanti anni, ciò che sto per raccontare oggi ieri non l’avrei detto. Dissi all’app. Boccardi di avvertirmi quando fosse venuta in cala maestra (nella foto a fianco) la prima imbarcazione da diporto, di venire da me passando prima dall’armeria a prelevare un fucile moschetto mod. 91/38 (modello 1891, modificato nel 1938), cal. 6,5, caricamento manuale con due caricatori pieni di cinque colpi ognuno. Così fece, andammo in jeep fino al ciglio di cala maestra (sotto c’era uno strapiombo di 100-150 metri), lo yacht era lì ancorato a farsi beffe dei divieti (oggi però è peggio, quelle era quisquilie). Innestai il caricatore, armai il moschetto, presi la mira (facilissima) sul costone di fronte, ben in alto ed iniziai a sparare, cinque colpi in rapida successione. Non c’era nessun pericolo, neanche di rimbalzo ma l’effetto fu sorprendente. Prima che innestassi l’altro caricatore l’imbarcazione sta fuggendo a tutto motore !
Non avevano tutti i torti, perché a Pianosa gli agenti avevano sparato contro un malcapitato che non aveva rispettato il limite di 500 metri, forse non ne sapeva niente, e restò ucciso. Gli agenti avevano sparato ad altezza d’uomo: incredibile !
Ma lì c’era la diramazione Agrippa con detenuti terroristi irriducibili. Qualche anno dopo li avrei conosciuti lì, a Pianosa.
Per questo motivo se l’erano data a gambe levate, non potendo sapere che non correvano alcun pericolo. Inoltre, il rimbombo degli spari nella cala era terrificante.
Per quell’estate non si accostò più nessuno a meno di 500 metri ed oltre i 500 metri.
L’anno successivo riprese la solfa, ma avevamo altri mezzi, ne dirò dopo.
Quella prima estate constatai quanto fosse facile pescare pesce di eccellente qualità, bastava aspettare un giorno di burrasca, il pesce si ricoverava all’interno del porticciolo, affamatissimo ed abboccava letteralmente a qualunque cosa. Accadeva raramente, ma quando accadeva chiunque poteva fare una pesca miracolosa. La prima volta mi chiamarono in ufficio ed accorsi, a pranzo mangiammo pesce, ivi compreso i bianchetti.
Ma con al rete si pescavano anche triglie di scoglio eccezionali.
Non sono mai stato un cacciatore, avevo un porto d’armi, ma per difesa personale, non ho mai posseduto un fucile da caccia, ma in isola il personale graduato che viveva lì ce l’avevano, in particolare il comandante, accanito cacciatore e pescatore. Di selvaggina stanziale c’erano solo dei conigli selvatici di piccola taglia, furbissimi. C’era la selvaggina di passo, gli uccelli migratori, non ricordo più quali, che passavano su Gorgona e talvolta si posavano per riposarsi. Ero molto riluttante, ma una volta mi feci convincere e mi accodai. Una vera delusione per i cacciatori, una fortuna per gli uccelli migratori: non fecero nemmeno un centro, volavano troppo alto. Non volli più andarci. Si, avrei potuto proibirlo, ma come si fa con gente che vive sigillata in isola. Io tornavo in continente ogni settimana, loro no.
C’è però un episodio che voglio raccontare, riguarda i conigli selvatici che avevano le tane su tre terrazzamenti abbandonati degradanti dall'alto verso il basso, come tutti gli altri.
Nessuno riusciva a prenderli, sparandogli ovviamente e si rodevano il fegato. La cosa mi divertiva non poco e partivano gli sfottò e i contro-sfottò, mi fu lanciata la sfida, di riuscire a prenderli io, visto che io li sfottevo accusandoli di incapacità e di vanterie. Non ci pensavo minimamente a farlo, però un giorno accadde qualcosa.
Devo premettere che di tanto in tanto, per dar libero sfogo allo stress lavorativo chiamavo il comandante, andavamo in tre, io lui e la sua doppietta in cima all’isola e lì mi divertivo a sparacchiare a qualche bersaglio inanimato.
Un pomeriggio il comandante di presentò in ufficio dicendomi che era stato un po’ a giro ed aveva visto i conigli davanti a tutte e tre le tane, ma era sottovento, i conigli l’avevano sentito e si erano rintanati nonostante ogni sua precauzione. La sua delusione mi divertiva e gli dissi di tornarci assieme, anche se lui sosteneva che era inutile perché in questi casi non uscivano più dalle tane. Io replicai che avremmo portato dei bersagli, come al solito. È corretto aggiungere che le cartucce le facevo acquistare io a Livorno a mie spese.
Effettivamente, i conigli non erano in vista. Dopo avere sparecchiato, chiacchierando il comandante disse che voleva ritornare alle tane.
Roba da non crederci uno era davanti alla tana più in alto, noi stavamo scendendo ed eravamo sottovento. E qui accadde l’imprevedibile, il comandante volle che sparassi io, io mi rifiutavo perché poi mi avrebbero sfottuto alla grande, non sapevo sparare col fucile da caccia, ma insistette. Mentre ciò accadeva il coniglio se ne stava lì, era un bersaglio fisso, non sentiva né il nostro odore ne il suono: strano !
Mi decisi, imbracciai la doppietta, sparai due colpi contemporaneamente (che gran cacciatore che ero: una schiappa!) e il povero coniglio era morto. Il comandante era contentissimo, io ero incerto. Ma continuammo a scendere ed un altro coniglio era davanti la tana più in basso, immobile, un altro bersaglio fisso perfetto, a meno di 20 metri come il precedente. Stavolta (avevo ancora io la doppietta ricaricata) agii d’istinto e sparai una seconda volta due colpi in rapida successione, anche il secondo coniglio era morto, il comandante felicissimo lui per me !
Credevo che la storia fosse finita, continuammo a scendere verso l’ultimo terrazzamento e, incredibile, anche il terzo ed ultimo coniglio era lì, dissi al comandante “Ma questi si vogliono suicidare” e gli porsi la doppietta (era sua), non la volle e mi disse di sparare ancora io, mi schernii ma niente non volle intendere ragioni e allora sparai per la terza volta, un solo colpo ed anche il terzo coniglio era moto stecchito.
Sarebbe stata l’ultima volta che io avrei sparato ad un animale almeno così pensavo io. Intanto, mentre rientravamo, il comandate pregustava la sorpresa e il rosicamento dei cacciatori veri, come fu, fioccarono le accuse di ‘fortuna del principiante’, ed era vero. E ragionavamo su questa singolarità, che fossero diventati improvvisamente quei poveri conigli privi di odorato, udito e vista. Magari fu solo effetto del sottovento stabile per odorato e udito e della luce del tramonto per la vista.
Sono ancora oggi rammaricato, ma vi sono circostanze di tempo e di logo in cui può accadere nuovamente, come accadde qualche anno dopo, in un altro carcere similare, nel cuore della Lombardia, che oggi non c’è più, è stato fagocitato dalla Grande Malpensa.
Il giorno successivo cena per tutti a base di coniglio (un pezzetto erano di piccola taglia). Tempi irripetibili. Mentre il terrorismo impazzava. E noi continuavamo a lavorare come matti.
(continua)

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