giovedì 16 ottobre 2008

La Casa di Reclusione per il lavoro all'aperto di Gorgona Isola


di Luigi Morsello

TRE

Sono stati tempi di intenso lavoro, molto più che in altre circostanze, altri istituti o servizi penitenziari, per l’ottima ragione che in quei tre giorni la settimana di missione eravamo lontani dalle famiglie, non c’era altro da fare se non lavorare. Per giunta, sia a me che a Parisi il lavoro piaceva ed il lavorare anche.
Avremmo fatto qualsiasi altro lavoro con la stessa applicazione, la stessa intensità, entrambi ci comportavamo come se lavorassimo “in proprio” e non da pubblici dipendenti.
Non eravamo un esempio isolato nell’amministrazione penitenziaria, ma se ve n’erano altri non sono a mia conoscenza. So di Ugo Pastena, già funzionario di ragioneria, poi direttivo, poi dirigenziale che è arrivato a reggere l’ispettorato distrettuale della Campania e poi l’ufficio centrale del personale, una bella carriera ma a Napoli e a Roma non aveva orari. Citare l’ispettore distrettuale Leo de Santis è scontato, è stato ‘lo mio maestro e donno’, con qualche astuzia, di cui fui per brevissimo tempo vittima.
Chiaro che quando ci concedevamo qualche pausa, indispensabile per non ammattire (ma un po’ matto io lo sono sempre stato), allora accadevano cose strepitose.
Bene, io sapevo nuotare, Parisi no. Quando io mi avventuravo (maschera e pinne) fuori dal porticciolo, verso cala scirocco, lungo la scogliera, ma non da solo (con me c’era Armocida, ottimo nuotatore e sub) il panorama subacqueo era incantevole. Io però ero prudente e non mi volevo allontanare più tanto (un po’ matto si, ma senza esagerare). Erano escursioni marine piacevoli. Una sola volta mi spaventai, quando Armocida mi portò laddove c’erano le murene, una di esse mi si parò davanti, uscendo dalla tana nella roccia, spalancando e chiudendo la bocca irta di denti aguzzi, con aria minacciosa: scappai letteralmente via, senza dar retta al comandante Armocida che se non le si stuzzicava non erano pericolose.
Non ne volli più sapere.
Uno spettacolo era vedere nuotare al largo le leccie, si vedevano prima un banco di aguglie fuggire via disperatamente, con salti brevi e rapidissimi fuori dall’acqua, poi una - due leccie che li inseguivano.
Più volte abbiamo visto i delfini nuotare armoniosamente, in assoluta tranquillità.
Qualche volta il primo anno ci avventuravamo a circumnavigare l’isola con il barcone di salvataggio, ma altro non si poteva fare. Avevamo acquistato 500 metri di rete da pesca che alla prima burrasca si aggrovigliò agli ancoraggi e si lacerò in più punti, ma si riusciva ancora a pescare qualcosa.
Di tanto in tanto comparivano al largo delle boe di polistirolo più grandi di quelle, più vicine alla costa, che segnalavano le nasse per la pesca delle aragoste. Poi vedevamo uno, due motoscafi velocissimi che si fermavano a ridosso di queste boe più grandi e lontane, sostando un pochino per poi allentarsi a tutta velocità dalla parte opposta dalla quale erano venuti. Si sostava in isola che erano trafficanti di stupefacenti che usano questo accorgimento per non farsi catturare dalla GdF, di notte i carichi venivano agganciati alle boe, di giorno i mezzi navali veloci di cui sopra (più veloci, si diceva, di quelli della GdF) recuperavano i carichi.
Ma noi stavamo solo a guardare, anche se l’app. Boccardi rosicava non riuscendo a darsi pace.
Non era infrequente che a cena si bevesse qualche bicchiere di troppo, seguito da cognac o whisky: allora non si tornava a lavorare !
Il resto era lavoro, lavoro, lavoro per noi, per il personale di custodia accasermato noia a gogò.
Intanto i lavori di ricostruzione procedevano, alacremente.
Il gruppo elettrogeno a un dato momento decise che era il tempo di morire e si fermò: s’era rotto l’albero motore ! Un bell’affare, eravamo senza elettricità, rimanevano solo due piccoli gruppi elettrogeni, coi quali ci ingegnammo a rifornire le linee indispensabili, ma anch’essi abbisognavano di raffreddarsi, erano troppo piccoli.
A dire il vero, io e l’ing. Novelli avevamo progettato di costruire una nuova centrale (la vecchia non era sufficiente), proprio dove sorge oggi. Ma i lavori non erano ancora iniziati. Io, poi, avevo fatto la gara per acquistare i gruppi elettrogeni (che sono utilizzati, credo, oggi) necessari: un gruppo principale da 500 chilovoltampere e due ausiliari da 250 chilovoltampere, che avrebbero fornito, come accade oggi, elettricità a tutte le utenze dell’epoca e a quelle future, prevedibili e non.
La gara era stata vinta dalle FIAT AIFO, la fornitura era in corso quando mi fu tolto l’incarico di missione. Occorreva tamponare l’emergenza e l’unica era di acquistare un nuovo albero motore, costo nove milioni di lire dell’epoca, infischiandocene della contabilità di stato, eravamo in emergenza !
Così riavemmo energia elettrica dalle ore 8 alle 24.
In isola sgorgava acqua potabile batteriologicamente pura, zero nelle analisi ! Anche qui il problema: c’era una sola motopompa diesel, malandata anch’essa, quando si fermava niente acqua potabile.
In quell’isola ho imparato ad avere più di una soluzione di riserva, come per i gruppi elettrogeni; in questo caso la decisione fu di acquistare una motopompa nuova Lamborghini e due elettropompe da 380 volt, di riserva, una delle motopompa e l’altra di entrambe.
Intanto iniziavano i lavori della sezione speciale in elementi prefabbricati voluta dal gen. Dalla Chiesa. I materiali venivano portati da pontoni galleggianti, a spese della ditta appaltatrice, ovviamente. Lo scarico avveniva sul molo, mentre gli autocarri della ditta li prelevavano subito per portarli in cantiere.
Accadeva, però, che non riuscissero a reggere lo scarico dal pontone o che non vi fosse più posto in cantiere e quando ciò accadeva gli elementi prefabbricati in c.a. restavano sul molo. Più di una volta accadeva che non trovassero posto sul molo (era un porticciolo, l’ho detto) e allora quelli che non ci stavano non venivano portati indietro per essere riportati col prossimo carico, erano scaricati nell’acqua di mare.
La cosa sembrava normale, ma non lo era, come dirò in appresso.
Sul finire della prima estate, a sorpresa, arrivò la consegna di una ‘pilotina’, una imbarcazione in vetroresina semi-cabinata con motore AIF da 180 CV, in grado di raggiungere la velocità di 20 nodi, pari a circa 27 Km/h: una bella velocità. Sarebbe dovuta servire per la sorveglianza del perimetro dell’isola.
C’era un ma, la dovevamo ritirare noi a Livorno, dal cantiere navale che le costruiva. Trattandosi di un mezzo pubblico, di proprietà dello stato, occorrevano un capo-barca ed un mozzo per poterla guidare da Livorno a Gorgona. Ma prima ancora, bisognava andarci a Livorno. Con il traghetto della TOREMAR si doveva star fuori da Gorgona dal venerdì al martedì successivo. Qualcuno si ingegnò a chiedere soccorso ad un amico livornese, che aveva un motoscafo di sua proprietà.
Il giorno stabilito all’ora stabilita questo motoscafo non arrivava, tuttavia da casa sua si assicurava che era partito. Quella mattina c’era sul mare foschia e si ipotizzava che si fosse perso, veniva però obbiettato che aveva la bussola, non poteva perdersi. Si pensò allora ad un guasto, ma venne l’obbiezione che aveva la radio a canali fissi. E ancora, avrà anche la radio guasta.
Ci eravamo già rassegnati a rinviare, quando il motoscafo arrivò, la spiegazione fu che per la nebbia non aveva intercettato Gorgona. Sul momento non ci capii niente, disse che aveva fatto avanti e indietro fino ad avvistare l’isola.
Insomma, adesso era lì e partimmo, non senza avere chiesto se avesse carburante sufficiente ed ebbi risposta positiva.
A bordo c’eravamo io, Parisi, Armocida, Boccardi, il capo-barca, il mozzo e lo sciagurato proprietario del motoscafo: sette persone, fra le quali Parisi non sapeva nuotare.
L’avventura era già iniziata, ma non lo sapevamo. Il giorno precedente c’era stato mare grosso, il timore era che si potesse nuovamente ingrossare il mare. Però al momento era tranquillo, il motoscafo procedeva, dopo un certo tempo il capo-barca disse che eravamo in mezzo al canale, a metà strada fra Gorgona e Livorno.
Fu a questo punto che i miei timori presero corpo, fin da subito la situazione non mi convinceva: uno che per trovare Gorgona nella nebbia fa avanti e indietro era strano anche per un profano come me.
Bene, a metà canale i due motori iniziarono a tossicchiare e si spensero. Dopo un po’ di barcamenarsi, guardare nel vano motori, riavviare, marciare per uno - due minuti e fermarsi arrivò il verdetto del capo-barca (quello che doveva guidare la pilotina sul viaggio di ritorno: era finito il carburante ! Accidenti a lui, glielo avevo anche chiesto ! La spiegazione fu che non aveva fatto il pieno, che aveva consumato più carburante di quello che credeva, che aveva meno carburante di quanto segnava l’indicatore di livello, che era guasto !
Ma dove stavamo andando a motore spento ? Nel canale la corrente era forte e l’imbarcazione si muoveva. Verso la Corsica fu la risposta ! Accidenti ! E se si ingrossava di nuovo il mare ?
Viene calata in mare l’ancora galleggiante, ma non bastava !
Perché non chiamava soccorsi via radio ? Non funzionava !
Eravamo sicuri che andavamo verso la Corsica ? No, perché la bussola non funzionava bene, non aveva fatto i giri di bussola per tararla prima di prendere il mare.
Eravamo lì sette fessi in mezzo al mare, il meno preoccupato era Parisi che non sapeva nuotare !
C’erano un po’ di bevande ed acqua in ghiacciaia ma finirono in fretta. Intanto si armeggiava con la radio, venne captato un radioamatore che sentiva il nostro segnale, ma sparì prima di capire se aveva capito che eravamo in difficoltà e dove.
Sette fessi naufraghi in mezzo al mare. Intanto il tempo passava, si avvistavano all’orizzonte le imbarcazioni dei pescatori, ma troppo lontano, si tentò di lanciare i razzi di segnalazione ma erano scaduti, si innalzavano per pochi metri e si inabissavano subito sfrigolando: come potevano capire che chiedevamo soccorso ? E poi non ce n’erano nemmeno molti per cui ordinai di non sprecarli, sperando che una imbarcazione passasse abbastanza vicino e ne vedesse uno, ma non accadde.
Non sapevamo che all’imbrunire una motovedetta della Capitaneria di porto di Livorno faceva il giro di tutti i pescherecci per accertarsi che fosse tutto in ordine. Quando la avvistammo, furono lanciati gli ultimi razzi, sempre senza successo, le parolacce si sprecavano, i toscani sono famosi per questo.
Quando avevamo perso anche l’ultima speranza e in me si agitavano pensieri nerissimi, la motovedetta girò la prua verso di noi: ci avevano visti ! Ma non i nostri razzi, ma un riflesso di luce da un oblò del motoscafo.
Quando ci raggiunse io e Parisi salimmo a bordo, non volevamo restare un secondo di più, il motoscafo fu preso a rimorchio.
Finisce qui l’avventura, ci offrirono una fetta di anguria fresca, non ne ho mai dimenticato il sapore.
Al ritorno, con la pilotina nuova di zecca e il serbatoio pieno, dissi una scemenza: “pari avanti tutta” !
Filammo verso Gorgona a 20 nodi l’ora !
Arrivammo con la sirena che azionai personalmente in vista dell’isola dove le luci si erano accese. Non era una sbruffonata, ci eravamo dimenticati di avvertire che stavamo tornando, era quasi buio e a Gorgona erano preoccupati, le nostre famiglie erano preoccupate.
La persona anziana (nell'immagine a bordo della pilotina) non partecipò al viaggio di ritiro, venne dopo in isola, era mio suocero, venne a trovarci quell'estate e gli feci fare un girettino.
L'altra immagine è il traghetto della TOREMAR.

(continua)

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