mercoledì 29 ottobre 2008

L'Islam oltre le parole del Corano. Così si cura il fondamentalismo


IL CORRIERE DELLA SERA

di ABDELWAHAB MEDDEB

L' Islam non sta bene. In realtà, è malato. Mi è capitato di diagnosticare la sua malattia in una serie di quattro libri scritti dopo il trauma prodotto dagli attentati criminali dell'11 settembre 2001. È una malattia che si riassume nell'uso della violenza in nome di Dio. È su questo punto che dobbiamo interrogarci, per sapere se si tratta di una fatalità propria all'Islam o se abbiamo a che fare con una struttura che circola all'interno delle costruzioni religiose.

Fin d'ora, occorre riconoscere che la violenza generata dalla fede non è una caratteristica dell'Islam. Si esprime in maniera virulenta anche nelle religioni venute dal sub-continente indiano, che lo stereotipo associa alla spiritualità compiutasi nel miracolo della non violenza. Questa predisposizione alla violenza si manifesta quindi persino al di fuori della sfera dei monoteismi il cui conflitto interno, inutile ricordarlo, è fratricida. Se consideriamo la sfera dei monoteismi, c'è da osservare che la guerra condotta in nome del Signore fu biblica prima d'essere coranica. Basti pensare al massacro ordinato da Mosè in collera, quando scopre la regressione del suo popolo al paganesimo. Dopo l'episodio del Vitello d'Oro, i Leviti uccisero tremila persone in un giorno, su ordine del loro profeta pontefice (Es 32,28). Giosuè, come successore del fondatore, non fu da meno. Per convincervi, vi invito a rileggere il passaggio sul massacro che egli fece eseguire dopo l'assedio di Gerico, in cui né gli uomini né le donne né i giovani né i vecchi e nemmeno le bestie furono preservati( Gs 6,21). Al giorno d'oggi, esistono fra gli ebrei alcuni fanatici che interpretano letteralmente la Bibbia e che vogliono universalizzare e attualizzare quello che loro chiamano il «giudizio di Amaleq», in riferimento al capo degli Amaleciti: tribù che gli ebrei dovettero combattere perché impediva loro di giungere alla Terra Promessa (Es 17, 8-15). Così, per quanto riguarda la violenza, il profeta dell'Islam discende direttamente dalla legge mosaica. Il famoso «verso della spada» (Corano IX,5), che ordina di uccidere i pagani, e quello detto «della guerra» (Corano IX, 29), che chiama a una lotta a morte contro ebrei e cristiani, hanno consonanza biblica. E sono questi versi a nutrire il fanatismo assassino degli integralisti islamici.

Se l'esercizio della violenza divina sembra in coerenza con i Testi Rivelati, è bene fare una distinzione per gradi fra Giudaismo e Islam. Il secondo universalizza il primo. Infatti il Giudaismo conduce la guerra del Signore per la sola Terra d'Israele, mentre l'Islam ha il mondo come orizzonte di conquista. La jihad, ottimizzata dagli integralisti, non è un'invenzione loro. È stata il motore dell'espansione islamica. Cito come testimone un cronista cinese del X secolo (Ou-yang Hsui) che aveva constatato come le truppe musulmane si gettassero nel pieno della battaglia alla ricerca del martirio dopo essere state galvanizzate dal loro capo, il quale prometteva il paradiso a chi moriva combattendo sulla strada di Dio. Vero è che il testo evangelico prende le distanze da questa violenza. Quel che sorprende è il ricorso dei cristiani alla grande violenza attraverso la storia. In questo fenomeno scorgiamo un tradimento del loro testo. Certo, Sant'Agostino ha teorizzato la guerra giusta per difendere le conquiste della civiltà contro le invasioni barbariche. Ma non si trattava di una chiamata alla guerra in nome della fede. Il dottore di Ippona doveva legittimare questa esortazione, pur sapendo che non corrispondeva allo spirito evangelico. Tuttavia, il cristianesimo ha impiegato circa mille anni, con le Crociate, a cristallizzare una nozione equivalente alla jihad. Ricorro a queste rievocazioni non per attenuare il male che affligge l'Islam, ma per mostrare che il Testo fondatore può essere oltrepassato, se non superato.

Se il cristianesimo non ha onorato il pacifismo del proprio testo evangelico, l'Islam può trovare i mezzi di neutralizzare le disposizioni che, nel testo coranico, invitano alla guerra. È a questo che miriamo insistendo in particolare sulla questione del contesto in cui fu emesso e ricevuto il testo. Questa neutralizzazione attraverso il ritorno al contesto è assolutamente necessaria, non solo per quanto riguarda il problema della violenza, ma anche per i molteplici anacronismi antropologici che trascina con sé il diritto emanante dallo spirito e dalla lettera del testo fondatore (penso alla sharia che il Corano ispira). Quanto alla violenza, bisognerà evidentemente agire sugli Stati di genesi islamica per indurli a prendere coscienza che hanno il dovere di neutralizzare la nozione di guerra santa, di jihad, poiché essa è in flagrante contraddizione con la loro partecipazione al concerto delle nazioni, al cammino verso l'utopia kantiana della «pace perpetua», che resta nello spirito del secolo, malgrado il persistere delle guerre e degli effetti egemonici dei potenti e malgrado la loro emulazione per acquisire la forza che li porterà a governare il mondo. Del resto, la diversità umana di questi tempi si manifesta persino in questa pretesa all'egemonia universale attraverso la forza delle armi o del denaro. Non si percepisce forse tale ambizione nell'emergere di Cina, India, Stati petroliferi arabi al fianco di Europa e America? È imperativo intervenire presso gli Stati islamici affinché aprano gli occhi su un mondo e un secolo che cambiano.

Per quanto riguarda l'identità religiosa, l'Islam continua a vedere i cristiani come fossero ancora i protagonisti medievali del Cristianesimo. Da tempo invece i concetti di nazione e di popolo hanno ridotto il riferimento alla religione. Ora che la scommessa dello Stato sembra post-nazionale, il ruolo determinante della religione si allontana ancora di più. In Europa, per esempio, esso può essere ammesso solo se accostato alla nozione primaria e prioritaria di cittadino. Questa nozione di cittadino porta con sé l'assimilazione di un altro diritto costruito al di fuori delle prescrizioni religiose, che appartengono a un'altra epoca. Insomma, quel che viene chiesto all'Islam per guarire, per uscire dalla maledizione, è di costruirsi un sito post-islamico che possa essere contemporaneo ai siti in cui sono insediati ebrei e cristiani. È necessario per non turbare il concerto delle nazioni. Ma, per il momento, gli Stati islamici - in particolare l'Arabia Saudita - si accontentano di mettere in guardia i propri cittadini stimolandoli a integrare un Islam del giusto mezzo, destinato a distinguerli da chi, fra i loro correligionari, vive la propria fede secondo un'interpretazione estrema, massimalista. Questi Stati fondano il proprio appello teologicamente, assimilando i massimalisti islamici a coloro che adottano la nozione di ghulw, l'eccesso che il Corano vieta quando raccomanda alla «Gente del Libro» la moderazione nell'interpretare il proprio dogma (Corano IV, 171; V, 77). È un passo lodevole, ma davvero insufficiente, timido, soprattutto per la presenza dell'Islam in Europa. Per tale presenza, abbiamo i mezzi di rendere operativo il sito post-islamico, incitando i cittadini musulmani d'Europa a vivere nella libera coscienza secondo lo spirito del diritto positivo e della Carta dei Diritti dell'uomo, abolendo qualsiasi riferimento alla sharia. Così, come musulmani della libera scelta, potranno praticare un culto spiritualizzato che sapranno alimentare attingendo alla mistica - ricchissimo capitale del sufismo - prodotta dalla loro tradizione religiosa.

(traduzione di Daniela Maggioni)
27 ottobre 2008

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