mercoledì 26 novembre 2008

IL MALE OSCURO - LE INGIUSTIZIE SUBITE - CHI NON C'E' PIU'


(pistola Walter p. 38)

di Luigi Morsello

TRE

Prima di continuare nella narrazione specifica di questo capitolo, mi pare opportuno spiegare perché fui trasferito da Alessandria nuovamente al carcere “Bellaria” di Lonate Pozzolo.
Il 30 giugno 1983 di prima mattina andai, come sempre in direzione, era un giovedì e l’unica cosa che lo faceva diverso dagli altri era che quel giovedì mia moglie compiva gli anni.
Il tempo guarisce, dicono, ogni male, fisico e dell’anima.
Può darsi ma quel giovedì è stato difficile e duro da digerire, ci sono voluti molti anni e non so se è stato del tutto metabolizzato.
Cos’ebbe quel giovedì di diverso dagli altri precedenti ?
Nulla, salvo che quel giovedì mattina gli agenti della casa penale Don Soria di Alessandria si ammutinarono contro il loro direttore, cioè contro me !
L’ipotesi di reato era: rivolta (art.174 c.p.m.p.: “Sono puniti con la reclusione militare da tre a quindici anni i militari, che, riuniti in numero di quattro o più:
1. mentre sono in servizio armato, rifiutano, omettono o ritardano di obbedire a un ordine di un loro superiore;
2. prendono arbitrariamente le armi e rifiutano, omettono o ritardano di obbedire all'ordine di deporle, intimato da un loro superiore;
3. abbandonandosi a eccessi o ad atti violenti, rifiutano, omettono o ritardano di obbedire alla intimazione di disperdersi o di rientrare nell'ordine, fatta da un loro superiore.”
La pena per chi ha promosso, organizzato o diretto la rivolta è della reclusione militare non inferiore a quindici anni. La condanna importa la rimozione.”
L’alloggio di servizio era interno al muro di cinta, ma aveva un ingresso esterno su piazza Don Soria, a venti metri dall’ingresso del carcere, dal cui portone di accedeva ad un atrio ampio, oltre il quale si accedeva alla portineria vera e propria e, a latere, tramite due rampe di scale agli uffici della direzione, che era unica con quella della casa circondariale, che però trovava ospitalità in un edificio autonomo e distante nella seconda strada parallela al lato destro del frontone d’ingresso della casa penale.
Bussai, mi aprì l’agente di servizio, che mi disse che io non potevo entrare, non potevo entrare perché non mi volevano più come direttore:
una enormità !
C’era in carcere tensione, ma non avevo subodorato quanto accadde, tutto era stato organizzato nella più assoluta segretezza.
Occorre descrivere, brevemente, qual’era la distribuzione di quel carcere. Era di tipo cubicolare, ogni cubicolo un detenuto, ogni cubicolo senza finestra, senza porta e con solo un cancello che lo chiudeva. I cubicoli erano posti su due livelli, come se ne vedono in vecchie fotografie di vecchie strutture. I posti erano n. 204, non modificabili. Erano tutti destinati a detenuti in esecuzione di pena di lunga durata.
Non insisto nella descrizione di quello che era all’origine una vecchia struttura conventuale.
Prima di arrivare alla sezione detentiva v’erano due edifici a un solo piano, il terreno, i cui accessi si fronteggiavano nella rotonda, da cui si dipartivano anche le celle di isolamento (un ramo minore).
Un edificio era chiamato “Sezione Speciale” e ospitava i detenuti terroristi c.d. “pentiti”, l’altro, identico, era chiamato “Sezione ristrutturata” e ospitava i detenuti terroristi c.d. “dissociati”.
La differenza fra le due tipologie, com’è noto, era che i primi collaboravano denunciando i propri compagni, gli altri si erano autoaccusati dei reati commessi senza chiamare in causa altri compagni.
Nella sezione speciale convivevano pacificamente anche due terroristi di destra.
La più parte erano stati arrestati dal Nucleo speciale antiterrorismo costruito dal gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, che nel 1981 non lo comandava più, in quanto aveva prima assunto nel 1977 l’incarico di coordinatore dei servizi di sicurezza delle carceri, poi il 9 agosto 1978 ottenne poteri speciali per diretta determinazione governativa e fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, sorta di reparto operativo speciale alle dirette dipendenze del ministro dell'interno (Virginio Rognoni, che sarebbe restato tale sino a dopo la morte di Dalla Chiesa), creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate rosse ed alla ricerca degli assassini di Aldo Moro. Diventato comandante della divisione Pastrengo di Milano nel 1979, alla fine dell’anno 1981 era stato promosso vice comandante generale dell’Arma dei carabinieri, il massimo grado raggiungibile all’epoca da un carabiniere.
Insomma, il 90% dei terroristi in carcere ad Alessandria era stato arrestato dai carabinieri, che ne gestivano i contatti processuali con i giudici istruttori di Torino. Il comandante del nucleo operativo era uno dei 10 ufficiali selezionati dal gen. Dalla Chiesa, era un sardo, non ne ricordo il nome.
Il restante 10 % (sono percentuali approssimative) era stato tratto in arresto dalla Polizia. Di loro si occupava la questura di Alessandria, tramite il capo dell’UCIGOS e il capo di gabinetto del questore, commissari Carlo Gravina e Giuseppe Maddalena (quest’ultimo poi promosso questore).
Si trattava di due abilissimi funzionari, il secondo, napoletano, anticonformista, il padre magistrato, un fratello terrorista in carcere a Cuneo (ma lui affermava di no) sposato senza figli, era incaricato dei contatti, era un profondo conoscitore del fenomeno terroristico. Quando seppe da me che non ero in grado di leggere la corrispondenza dei terroristi per la necessaria e autorizzata censura, non ebbe difficoltà ad accollarsi tale compito. Era irrituale, ma diversamente in quelle lettere poteva passare di tutto.
I carabinieri di Torino invece facevano tenere i contatti a un tal brig. Marcellino, siciliano, mellifluo, subdolo, vagamente minaccioso che preferiva i contatti coi propri colleghi agenti di custodia. Invece i contatti coi terroristi erano tenuti da vari marescialli delegati e che io non ricordo di aver mai conosciuto. Ricordo però che usavano portare con sé bottiglie di whiskey per agevolare i colloqui, senza preoccuparsi di chiedere nulla a nessuna, fin quando la circostanza fu oggetto di un rapporto del personale per cui dovetti proibire questa consuetudine.
Ecco, in questo quadro era inevitabile che le frizioni fra carabinieri e polizia si scaricassero anche su di me, mi venne a trovare questo maggiore sardo nuovo comandante del N.S.A. (anni dopo lo ritrovai al comando gruppo di carabinieri di Monza (io ero in missione in quel piccolo carcere), mi volle incontrare: voleva sapere solo come stavo, come mi trovavo ! Ero di nuovo a Lonate Pozzolo, non poteva non saperlo: mi sono chiesto il perché di questo colloquio.
Bene, anzi no, male, perché la situazione era aggravata dal fatto che nella sezione ristrutturata c’erano Roberto Sandalo e Marco Donat Cattin, che scardinarono la struttura terroristica (erano terroristi dissociati attivi, un funambolismo lessicale di cui si comprende la motivazione) mentre in quella speciale c’erano Patrizio Peci (il “colonnello”) e il prof. Enrico Fenzi (di un anno più giovane di me) arrestato assieme a Mario Moretti. Erano le figure di spicco, io non ne ricordo altri.
Sulla sezione speciale ricordo un particolare, che non ho mai rivelato prima d’ora. Il comandante regionale degli agenti di custodia in Torino, il capitano Giosuè Camilleri veniva spesso a verificare, con risultati modesti, come si vedrà in seguito.
Era un ufficiale dell’esercito prestato agli agenti di custodia.
La sua destinazione erano le due sezioni occupate dai terroristi.
Occorre dire che quando andavo in missione a Gorgona Isola avevo acquistato una pistola semiautomatica Walter p. 38 special cal. 7.65 “parabellum”, che aveva sostituito la Bernardelli alleggerita cal. 7.65, oltre a possedere un’arma a tamburo cal. 38 speciale Smith & Wesson, canna da 4”.
Uscivo sempre armato, quando salivo in direzione anche, come volevo che facessero gli agenti ivi addetti ed avevo voluto nella precedente sede di San Gimignano: paranoia ? Può darsi, ma a Milano le B.R. assaltarono addirittura l’ispettorato distrettuale dell’amministrazione penitenziaria, sequestrando tutti, senza far del male a nessuno, era solo una dimostrazione di forza. Era il 22 aprile 1976.
Bene, si presentò il cap. Camilleri, io ero in direzione, scesi senza pensarci, lo accompagnai nella sezione speciale dove volle parlare con Peci, eravamo appena arrivati e mi resi conto di avere con me nella fondina alla cintola la P. 38 di famigerata notorietà ! Sette colpi nel caricatore più uno in canna, ad Alessandria, dove c’era stato nel 1974 il sequestro con sei morti e 14 feriti !
Il colloquio con Peci era appena iniziato, dissi che mi allontanavo un attimo, tornai in ufficio, poi scesi di nuovo e depositai l’arma in portineria: non era accaduto nulla !
Tornai in sezione per assistere a uno strabiliante episodio.
Patrizio Peci, guardando con un sorrisetto sornione il capitano Camilleri, gli fece una confidenza, gli disse che lui, Camilleri, era uno dei bersagli a Torino e avevano anche fatto l’indagine su di lui (la fecero anche a me a San Gimignano, la colonna toscana delle B.R.).
A Torino c’erano state delle uccisioni, Camilleri impallidì visibilmente (un chiaro episodio di paura retrospettiva), poi Peci aggiunse che decisero di non farne nulla perché il “bersaglio” era troppo imprevedibile ed era rischioso continuare per timore di essere scoperti.
La situazione si imbrogliò quando il maresciallo comandante (di cui non ricordo il nome) andò in pensione, era un galantuomo, un gentiluomo, intelligente, nel 1974 c’era ed aveva un ricordo terribile di quella vicenda.
Lo sostituì (la colpa fu mia) un sottufficiale pugliese, del quale ricordo solo il cognome, Semerano. Un uomo grezzo, illetterato, infido.
Come feci a fidarmi ? Semplice: era già calato su di me per la prima volta il “male oscuro”, non avevo più discernimento, ma anche me ne fosse rimasto e mi fossi opposto, sarebbe stato del tutto inutile, perché era diventato il punto di riferimento della famiglia Carlo Donat Cattin (ministro del lavoro del governo Andreotti IV fino al 25 novembre 1978, anno in cui fu costretto a lasciare l’incarico e fu sostituito con Romano Prodi): il figlio Marco, appartenente a Prima Linea, arrestato nel febbraio 1981, era in carcere ad Alessandria.
I contatti con Marco erano tenuti dalla madre Amelia, il padre non s’è mai visto in carcere. Un giorno, uscito subito dopo pranzo per andare in questura, sorpresi il brig. Semerano a colloquio con l’on. Donat Cattin ridicolmente allo scoperto.
Il personale, appurai dopo, sapeva, io no.
Forse fu questo il motivo per il quale diedi parere favorevole, dopo la vicenda dell’evasione di Guido da San Gimignano ero o mi sentivo privo di ogni difesa.
Certo, non piaceva ai carabinieri di Torino la mia indocilità, sopratutto dopo che fui costretto una sera, in cui i detenuti della “sezione ristrutturata” non volevano rientrare in cella alle ore 24 (avevano ottenuto, debitamente autorizzati da Roma, di coltivare un pezzetto di terra, una striscia recintata nel cortile antistante e assieme a ortaggi, aromi ed altro coltivavano pure alcune piantine di marijuana), a minacciare il ricorso alla forza, in questo modo: sordi alle minacce (figuriamoci se si spaventavano per le sole parole), disposi che un nucleo di venti agenti comandati da un sottufficiale venisse equipaggiato in tenuta da sommossa, compresi lacrimogeni, pronti ad intervenire. Quando furono pronti scesi dalla direzione e ordinai al riluttante maresciallo Semeraro di dare un primo ultimatum di dieci minuti, trascorsi i quali un secondo di altri dieci minuti e infine un terzo, sempre di dieci minuti.
Credo che i detenuti fossero stati informati che facevo sul serio (non ero più depresso), però le cose andarono tanto per le lunghe che minacciai il Semerano di denuncia al tribunale militare per “rifiuto di obbedienza” (art. 226 codice penale militare di pace: ” Chiunque, appartenendo al personale di alcuno degli stabilimenti indicati nell'articolo 243, rifiuta, omette o ritarda di obbedire a un ordine, inerente al servizio o alla disciplina, di un superiore nella gerarchia tecnica o amministrativa dello stabilimento, ovvero di chi rappresenta l'autorità militare preposta alla sorveglianza disciplinare dello stabilimento, è punito con la reclusione militare fino a otto mesi.”).
Allora e solo allora la situazione si sbloccò, bastò al Semerano dire ai detenuti: “ragazzi, non c’è niente da fare, adesso entriamo”.
Dimenticavo di dire che era la notte del 31 dicembre 1982. tornai a casa, feci gli auguri alla mia famiglia, ritornai in carcere per brindare con gli agenti, davanti la porta della “sezione ristrutturata”: facemmo un po’ di baldoria !
Non è ancora possibile riprendere il discorso di ciò che si verificò il 30 giugno 1983.
Vanno riferiti due episodi sintomatici del lassismo che si era instaurato.
Il primo risale al sequestro con morti del 1974, nel quale ebbe una figura di spicco il detenuto Tebaldo Martinengo Cesaresco, il quale, mi fu riferito, impedì con un accorgimento al P.M. di Alessandria dell’epoca, di entrare nell’infermeria detenuti per parlamentare: sarebbe rimasto sequestrato. Di ciò quel P.M., divenuto Procuratore della Repubblica ad Alessandria, gli fu molto grato e l’interessato si faceva scudo di tale gratitudine per fare, discretamente è vero, il proprio comodo.
Essendo scrivano dell’infermeria detenuti, condizionava il lavoro dei medici, era un abbraccio psicologico discreto, garbato, elegante ma soffocante. Martinengo era di origini nobiliari: era un conte bresciano, condannato all’ergastolo per il c.d. “delitto dei due laghi”. Era finito in carcere nel 1967 per l’uccisione, unitamente ad un complice, di un anziano filatetico per sottrargli una collezione di francobolli di valore.
Dopo averlo fatto avvertire, inutilmente, dal medico del carcere dott. Fakri Assadi di origine palestinese, dopo averlo diffidato pure io di non fare interventi di natura sanitaria, fui costretto a farlo trasferire.
Questa storia ha un corollario: svariati procedimenti penali a mio carico per i motivi più vari, tutti, meno uno, conclusi con sentenza istruttoria di proscioglimento, quell’unico con processo di primo e secondo grado, ancora una volta di proscioglimento.
Avevo, forse, toccato un nervo sensibile.
Per completare il quadro del dissesto della disciplina, riferisco un aneddoto dal sapore boccaccesco. Riguarda la “sezione ristrutturata”, ma non escludo che si verificasse anche nella “sezione speciale” (lì probabilmente furono più furbi).
Nessuno riferì mai nulla, interi turni di servizio coinvolti, non emerse mai che di servizio al controllo colloqui c’era quasi sempre la stessa unità.
Non si saprebbe saputo nulla se la detenuta Giuseppina Viriglio, della sezione femminile della casa circondariale di Alessandria, che veniva portata a colloquio col suo compagno Marco Donat Cattin quattro volte al mese, previa autorizzazione del giudice istruttore competente per entrambi,
non fosse rimasta incinta !
Facile capire come e dove era accaduto: nella sala colloqui della “sezione ristrutturata” e dove senno’ ?
Adesso viene (si fa per dire) il bello.
I colloqui erano concessi in due giorni la settimana, scoprii che uno era dedicato alle famiglie, l’altro alle mogli, amanti, conviventi. Anche la Viriglio faceva colloqui in quel giorno specifico, chiese di abortire, fu individuato il giorno del concepimento (era uno di quei giorni riservati al sesso), l’agente confessò ma tirò in ballo tutti, perché tutti, tranne me, sapevano.
Dov’è il bello ? Eccolo: fui sottoposto a procedimento disciplinare, il cons. Giuseppe Falcone sosteneva che il G.I., competente per tutti e due, aveva autorizzato solo la Viriglio a fare colloqui con Marco Donat Cattin, ma non quest’ultimo a fare colloqui con la Viriglio.
Incredibile, anche per il G.I., che si affrettò a fare un’ interpretazione autentica del suo provvedimento ed il procedimento disciplinare fu archiviato.

(continua)

(Carlo Donat Cattin)

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