giovedì 27 novembre 2008

Il minimo necessario

LA STAMPA
27/11/2008
MARIO DEAGLIO


Quanto meno l’Europa ha smesso di impiccarsi con le proprie mani: il sofferto riconoscimento da parte della Commissione Europea che il Patto di Stabilità deve essere trattato in maniera «elastica», come previsto dai trattati europei, rappresenta una vittoria.

Una vittoria necessariamente parziale - ed è bene che sia così - dei «politici» sui «grandi burocrati» di Bruxelles. Naturalmente nessuno vuole tornare alla finanza allegra ma sarebbe irrazionale, per questa paura, togliere l’ossigeno alle imprese e alle famiglie. Il che è tanto più difficile da sopportare in quanto, in quasi tutti i Paesi, contemporaneamente si mettono a disposizione somme assai grandi per il salvataggio delle banche, ammesso che ne abbiano realmente bisogno.

Gli storici del futuro si chiederanno come mai abbiamo aspettato tanto, perché un insieme di persone indubbiamente intelligenti siano rimaste così a lungo schiave di tabù assurdi (il rapporto deficit/pil sempre inferiore, qualsiasi cosa accada, al tre per cento e il rapporto debito/pil inferiore al sessanta per cento) e continuino, probabilmente senza rendersene ben conto, a scherzare con il fuoco della recessione. E intanto tutti continuiamo a domandarci come mai, in una situazione che peggiora a vista d’occhio, la Banca Centrale Europea, avendo finalmente riconosciuto l’esigenza di un taglio dei tassi, non senta il bisogno di convocare una riunione d’urgenza e aspetti tranquillamente una quindicina di giorni per rispettare la data in calendario. Il rispetto del protocollo, insomma, pare irresponsabilmente più importante della gravità della crisi. Con le decisioni di ieri, l’Unione Europea ha fatto il minimo indispensabile, il che è al tempo stesso un sollievo e un cruccio. Dietro alla soddisfazione giustificata, ma anche alla retorica di facciata, del presidente Barroso ci sono i contrasti irrisolti tra Francia e Germania, mentre il Regno Unito continua ad andare per conto proprio, c’è la debolezza di molti Paesi dell’Europa Orientale, emersa clamorosamente nelle ultime settimane, c’è l’incertezza di Italia e Spagna. Di fatto, pur nella fragile cornice di un accettabile disegno di fondo, ciascun Paese andrà per la sua strada e non si può proprio dire che le politiche di «rilancio», che in realtà sono politiche di contenimento della crisi, risulteranno davvero strettamente coordinate tra un Paese e l’altro.

Quasi nessun Paese, con la possibile eccezione della Francia, sembra aver inteso la gravità della situazione industriale che sta venendo in luce in queste settimane. Gli europei possono ancora evitare il collasso della domanda interna dei beni di consumo nel periodo natalizio e post-natalizio, iniettando - meglio se con una modifica permanente degli scaglioni e non con un’erogazione una tantum - una cospicua quantità di denaro liquido nelle buste paga di quei lavoratori dipendenti e nei bilanci di quei lavoratori autonomi che si trovano a bassi livello di reddito.

In questo senso, il «consumate, consumate» del presidente del Consiglio non centra il problema; un’affermazione così generale, così lontana dalla realtà dei conti familiari, fa sì che i milioni di italiani con redditi insufficienti, o diventati tali negli ultimi sei mesi, abbiano ragione di offendersi. Ciò che gli italiani dovrebbero fare è invece qualcosa di più specifico, ossia non rinunciare, per un irrazionale senso di paura e non per difficoltà oggettive, a consumi già previsti nei bilanci familiari.

A molti governi, compreso quello italiano, non sembra poi del tutto chiara la distinzione tra sostegno immediato della domanda, basato su sconti fiscali, e sostegno a più lungo termine dell’offerta, basato su investimenti in infrastrutture il cui effetto congiunturale si vedrà come minimo tra sei-diciotto mesi. Le due misure hanno logiche e ambiti diversi: se si vuole attenuare l’ondata negativa e la domanda va sostenuta prima che possano partire i cantieri, se mai partiranno.

Infine, la social card. Come molte altre volte, va dato atto al ministro Tremonti di aver inventato uno strumento brillante e - se davvero non ci saranno intoppi tecnici - sicuramente efficace nel suo ambito limitato per stabilire una piccola rete aggiuntiva di sicurezza per le condizioni più dolorose di povertà. La social card, però, spezza l’unità dei cittadini, li distingue in individui di classe A e di classe B. Si era combattuto a lungo perché avessero tutti pari dignità, il che significa che a nessuno la povertà doveva essere attaccata addosso come un marchio; questa era la base ideale, sicuramente sofferta, sicuramente difficile da realizzare, dello Stato sociale. La social card rischia invece di diventare precisamente un marchio, sinonimo di perdita di dignità e oggetto di vergogna. «Due scellini alla settimana sono il prezzo di un’anima» recitava una nenia inglese degli anni della Grande Depressione, alludendo al magro sussidio di disoccupazione su cui campava una parte importante della popolazione britannica; i due scellini di allora rischiano di trasformarsi nei quaranta euro al mese della social card.

mario.deaglio@unito.it

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