domenica 16 novembre 2008

LA CASA di RECLUSIONE di SAN GIMIGNANO


di Luigi Morsello

SEI

Il 9 agosto 1975 due detenuti presero in ostaggio un intero turno di servizio, divenendo padroni dell’intero carcere di San Gimignano. Era un sabato.
Furono sequestrati tutti (eccetto le sentinelle sul muro di cinta) i componenti del turno di servizio, e cioè:
1) il maresciallo comandante Maresciallo Maggiore Francesco Pilloni;
2) l’app. GUAZZINI Mario, ufficio conti correnti e mensa agenti;
3) l’ag. TAMMARO Nicola, addetto al manutenzione del fabbricato e, per quel giorno, sostituto dell’agente addetto al magazzino e casellario detenuti;
4) l’ag. LAZZARI Andolfo;
5) l’ag. GALUPPI Franco, che due anni dopo sarà sequestrato nuovamente assieme all’app. DELLA CORTE Lucio e all’ag. SIRIANNI Pasquale;
6) l’ag. CASTIGLIONE Emilio;
7) l’app. Venanzio Franco, addetto alla cucina detenuti.
8) il brig. CARANGI Gabriele.
I sequestratori furono i detenuti Turrini Severino e Mistroni Renato.
Per quanto paradossale possa sembrare, di loro non si sapeva nulla. Infatti la ”cartella biografica” era corredata solo dalla posizione giuridica, che dava le notizie essenziali, relative agli anni di detenzione e alla posizione della sentenza, se irrevocabile o meno.
Era questa la conseguenza di una prassi costituitasi prima della riforma di quello stesso anno, il 1975.
L’art. 3 del R.D. 18 giugno 1931 n. 787 (ordinamento penitenziario) recitava:
Per ogni detenuto è compilata dal direttore la cartella biografica, in cui sono riassunte le annotazioni concernenti il detenuto, risultanti dai principali registri dello stabilimento (di pena, n.d.a.).
La cartella è conservata al fascicolo del detenuto ed è trasmessa allo stabilimento in cui il detenuto è trasferito.
La compilazione della cartella ha inizio con l’ingresso del detenuto nello stabilimento; è aggiornata ogni sei mesi o anche prima nel caso di trasferimento del detenuto
.”.
Le annotazioni relative ai reati erano quelle contenute negli ordini o mandati di arresto e di scarcerazione. Non solo. Le incombenze non erano proprie del Direttore del carcere, ma bensì dell’ufficio matricola detenuti.
Infine, quella era una casa di reclusione ordinaria in cui, secondo il vecchio ordinamento, erano detenuti condannati all’ergastolo e alla pena della reclusione o dell’arresto superiore a due anni (art. 26, 27).
Il brig. Carangi non fu preso in ostaggio ma si offrì spontaneamente di prendere il posto del comandante maresciallo Pilloni, colto da malori reiterati. Il suo gesto, volontario, contro il parere del direttore che era contrario a un simile gesto inutile e pericoloso, compiuto il giorno successivo 10 agosto 1975, fu del tutto inutile perché, com’era prevedibile, Pilloni non fu rilasciato.
Prima di procedere oltre riporto l’unico articolo di stampa che ho trovato oggi in Internet:
Il 9 agosto, nel carcere di San Gimignano, in provincia di Siena, due pericolosi banditi, Renato Mistroni e Severino Turrini, tengono sotto la minaccia delle armi, arrivate addirittura per posta, 8 agenti di custodia: vogliono giubbotti antiproiettili e tre auto per fuggire...altrimenti uccideremo un agente ogni ora!
Il Turrini non ha nulla da perdere. E' un criminale incallito! Evaso e riacciuffato nel '72, nel 1974 ritenta e, non riuscendovi, infierisce contro un Brigadiere uccidendolo. Le autorità sembrano cedere anche questa volta, e mentre il Turrini scende nel cortile per incontrare magistrati e giornalisti due tiratori scelti di p.s., riescono a localizzare Renato Mistroni e lo uccidono. Al rumore degli spari, Turrini prende in ostaggio giudici e giornalisti minacciando una strage, ma al rientro in carcere viene sopraffatto dagli agenti non più minacciati da Mistroni.
Quando la gente fuori dal carcere apprende l'accaduto, sfoga la tensione accumulata con un lungo applauso alle forze dell'ordine.”
. (Nicola Mascellaro – Cronaca di un anno-La Gazzetta del Mezzogiorno - 1975-Cronaca di un anno-5).
Però conviene raccontare la cronaca dei fatti.
Il sequestro, iniziato nel primo pomeriggio del giorno 9, ebbe fine nella tarda mattinata del giorno 11 agosto 1975.
Io scampai al sequestro per un puro caso. Ero in missione alla casa penale di Volterra, il cui direttore era in congedo straordinario per matrimonio. D’abitudine, quando tornavo dalla missione giornaliera, che durava solo il tempo necessario per il disbrigo degli affari ordinari, pranzavo e subito dopo mi recavo nell’ufficio del maresciallo comandante per occuparmi delle incombenze del giorno, ufficio che era situato all’interno della I^ sezione, immediatamente a ridosso della portineria.
Quel giorno, lo ripeto un sabato, decisi di riposarmi andandomene a letto. Nemmeno il tempo di poggiare la testa sul cuscino che fui chiamato dalla portineria: era urgente. Il portinaio era l’app. CIALENTE Marcantonio, il quale non volle dirmi nulla per telefono chiedendomi di andare in portineria, avrei visto con i miei occhi.
Naturalmente, mi affrettai a rivestirmi e andai, il portinaio era pallido e mi disse di guardare attraverso lo spioncino della 2^ porta blindata dalla portineria, che dava sull’atrio I^ sezione, quindi aprì e guardai.
Capii perché Cialente non volle dirmi nulla per telefono, non aveva parole bastevoli !
Ciò che vidi è indimenticabile.
Vidi il comandante Pilloni ed un detenuto puntargli una pistola alla tempia sinistra, era Turrini il quale iniziò ad urlare di aprire e farlo uscire, minacciando di sparare al maresciallo Pilloni.
Era da incubo. L’anno precedente nella casa penale di Alessandria si era verificato un sequestro finito in un bagno di sangue, le armi erano entrate in un pacco postale. Proprio quell’episodio motivò la ricerca da parte mia di una soluzione di sicurezza, in quanto da sempre i pacchi venivano portati all’interno del carcere, nel casellario giudiziale e magazzino vestiario dei detenuti dove venivano aperti in presenza del detenuto cui erano destinati: vecchia delinquenza, vecchia prassi. Ma la delinquenza era mutata, si rendeva necessario trovare una soluzione, che io avevo individuato in un ambientino interno alla portineria, bastava attrezzarlo con il necessario al deposito dei pacchi, fornire un varco elettromagnetico e, nell’attesa, i rivelatori di metalli manuali, praticare un foro nel muro divisorio col corridoio della I^ sezione, dotare questa apertura di un dispositivo che consentisse al detenuto di guardare dal corridoio suddetto l’interno del locale in cui il pacco veniva aperto, mediante un cancelletto incernierato, protetto da uno sportello in lamiera metallica tamburata: insomma un riproduzione in miniatura delle nuove porte delle celle detenuti.
Il pacco sarebbe stato controllato in sicurezza, la doppia copia di una nota di consegna al detenuto, del contenuto consentito del pacco, sarebbe stata stilata in presenza del detenuto destinatario che poi avrebbe ricevuto subito il tutto, previa firma della nota di consegna.
La sicurezza era garantita anche dal fatto che l’agente addetto al controllo dei pacchi veniva chiuso all’interno dell’ambientino, per cui aprendo la grata incernierata, di dimensioni bastevoli per il passaggio del pacco, il detenuto interessato non sarebbe potuto andare da nessuna parte qualora avesse tentato di introdursi all’interno del locale attraverso quell’apertura.
Era l’unico modo di garantire il controllo dei pacchi.
Non so dire perché ma questa procedura, ordinata da me verbalmente, non venne adottata subito e in modo continuativo, tant’è che decisi di fare un provvedimento scritto, un ordine di servizio da notificare a tutti gli interessati, che scrissi come sempre personalmente a macchina.
Certo non fu malafede né negligenza.
Incaricato della notifica era il responsabile della segreteria, il sig. Cappelli Mario, già brigadiere degli agenti di custodia transitato all’impiego civile, il quale adempì scrupolosamente il suo compito.
C’era tuttavia una falla, quasi impercettibile: l’ordine di servizio non fu notificato all’ag. Tammaro Nicola per cui il giorno 9 agosto 1975, in cui sostituiva il collega del casellario detenuti, non conosceva la nuova procedura, appena messa in funzione. D’altra parte, il lavoro della squadra muratori lo assorbiva completamente.
Il pacco, destinato a uno dei due fu portato all’interno, secondo la precedente procedura. Verrebbe fatto di chiedersi perché il portinaio non lo fermò in portineria, era un operatore molto scrupoloso ma anziano.
Non ho la risposta perché non me lo sono mai chiesto fino ad oggi e oggi non so dare una risposta. Pare inoltre che quel pacco stazionò diversi giorni, due - tre, in portineria.
Al casellario detenuti si presentarono i due detenuti assieme, la circostanza non destò nessun sospetto, accadeva spesso così in passato.
A distanza di molti anni Tammaro mi dette una risposta: erano lì, se anche, come pensò di fare, avesse cercato di mandarne via uno, lo avrebbero aggredito perché loro (erano amici e inseparabili) conoscevano il contenuto del pacco, sapevano che dentro c’erano tre pistole.
Insomma, Tammaro sperava di avere la situazione sotto controllo. Così non era. Non appena ebbe aperto il pacco, riempito trucioli di polistirolo, i due detenuti tuffarono le mani nel pacco e ne tirarono fuori le tre pistole, cariche.
Così ebbe inizio il dramma, che durò tre giorni.
Il primo a impattare fu Tammaro, che fu preso in ostaggio.
Scesero dal casellario, si impossessarono del carcere, prendendo in sequestro un primo nucleo di sette persone.
Dei due detenuti il solo Mistroni era agitatissimo, l’altro, Turrini, era calmo, sapeva di rischiare grosso. Non so dire se era vero che l’anno precedente aveva sequestrato e ucciso un brigadiere nostro, deceduto a causa delle sevizie cui lo aveva sottoposto. A distanza di tanti anni è impossibile stabilire la fondatezza di quanto affermava il cronista della Gazzetta del Mezzogiorno.
Tentarono subito di sfruttare l’effetto sorpresa, senza riuscirvi, prima col portinaio e poi con me.
Devo dire che a Siena, come ho già riferito in un altro capitolo, si era verificata un’evasione allo stesso modo, senza pistole ma con un coltello e il sequestro di un agente, del quale si fece scudo fino a uscire al carcere: il portinaio aprì e il detenuto evase.
Il direttore in missione ero io ma in quella data ero in ferie estive.
Non ero quindi del tutto impreparato. Feci chiudere lo spioncino, dal quale Pilloni mi implorava con gli occhi di aiutarlo, mi presi tempo per recuperare auto-controllo, riflettere, poi decisi che no, non si poteva aprire.
L’evasione in quel momento era già fallita.
Ma iniziava il sequestro, perché i due non si arrendevano, avevano tre pistole:
1) Colt semiautomatica cal. 45;
2) Beretta cal. 9;
3) Smith & Wesson cal. 38.
Il munizionamento era sufficiente. Solo la Colt era un pezzo da museo della II^ guerra mondiale, tant’è che dopo sparato il primo colpo si inceppò.
Il Pubblico Ministero era il dr. Virgilio ROMOLI, all’epoca sostituto procuratore della Repubblica a Siena con appena tre anni di servizio e oggi consigliere presso la Corte d’Appello di Firenze. A lui l’arduo compito di gestire la situazione, particolarmente arduo perché non c’erano vie d’uscita lecite.
I due sequestratori volevano una macchina, un salvacondotto (in pratica un ordine di scarcerazione) per uscire dal carcere, si sarebbero portato dietro un ostaggio che avrebbero rilasciato al tempo giusto, cioè una volta al sicuro.
Era un progetto folle.
Si asserragliarono nell’ufficio del maresciallo comandante, che come ho già detto era posto a ridosso della portineria. Era una stanza cieca, con una finestra sull’atrio I^ sezione e un'altra sulla portineria, protette da due robuste inferriate, ma era tutt’altro che di conforto: dalla seconda finestra si aveva un campo di tiro nella portineria, sia pure limitatissimo.
In seguito capii che quella debolezza strutturale era un’arma a doppio taglio, perché di lì si poteva sparare addosso a chi fosse all’interno dell’ufficio.
Il dott. Romoli (classe 1945) era un giovane e brillante magistrato.
Conservò sempre una calma e un autocontrollo eccezionali.
Fu il primo ad arrivare, via via gli altri di cui dirò in seguito.
Parlamentò, a lungo, con Turrini, che si faceva scudo del corpo del maresciallo Pilloni, più e più volte, tentando di convincerlo a desistere, ad arrendersi a deporre le armi.
Penso che alla fine ce l’avrebbe anche fatta, Turrini non era uno sciocco, ma si intromise l’altro, Mistroni, che sembrava una furia scatenata e che alla fine dopo averlo minacciato più volte, lo fece per davvero e sparò attraverso la finestra, anche se un momento in cui non c’era nessuno sotto tiro, centrando un armadio metallico posto nel corridoietto.
Intanto erano accorsi l’ispettore distrettuale dr. Guglielmo Nespoli, il comandante regionale degli agenti di custodia, maggiore Dante Aielli.
Ci rassegnammo a un lungo assedio.
In un primo momento fu utilizzato l’ufficio del direttore, per via dei collegamenti telefonici. Ricordo che la direzione era provvisoriamente allocata all’ultimo piano della caserma agenti e non vi erano altri locali idonei ad essere usati come centro di comando.
Accorsero in gran numero forze di polizia [Carabinieri e della Pubblica Sicurezza (poliziotti)] con i loro comandi in loco.
Furono dislocati due gruppi di tiratori scelti, di due persone ciascuno, per ogni arma (Polizia e Carabinieri), rispettivamente i carabinieri a casa dell’ex medico del carcere dott. Ceccarelli e la polizia su una terrazza a lato del medesimo edificio, con la consegna che avrebbero sparato solo se i due detenuti fossero inquadrati contemporaneamente. La distanza era di non più di 20-30 metri, non si poteva sbagliare, ma solo dopo l’ordine del comandante di tiro.
Era chiaro che i due sequestratori non avrebbero desistito dal loro intento di evadere. Era altrettanto chiaro che un’irruzione non era possibile, perché i due non erano localizzati in un unico ambiente, anzi il Turrini si spostava continuamente fra I^, II^ Sezione e lavorazioni, poste nei sotterranei.
A loro volta i sotterranei avevano due accessi, uno dalla II^ sezione, l’altro dal cortiletto di porta carraia.
L’unica soluzione era l’uso delle armi, ma era molto pericolosa, perché poteva accadere quello che era accaduto l’anno precedente alla casa penale di Alessandria. Lì i quattro detenuti sequestratori, fallito il tentativo di evasione, si asserragliarono nell’infermeria detenuti, l’ordine di irruzione comportò un pesantissimo bilancio di perdita di vite umane.
L’alternativa era tentare di farli arrendere per sfinimento.
La posizione del direttore del carcere era a dir poco paradossale, in quanto proprio il giorno 9 agosto 1975 fu pubblicata la legge 26 luglio1975 n. 354 (Supplemento alla G.U. del 9 agosto 1975 n. 221), il cui art. 41, ultimo comma recita:
Gli agenti in servizio nell'interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore.”, il che significa che oggi solo il direttore del carcere può autorizzare l’ingresso in carcere di appartenenti alle forze di polizia armati e di usare le armi contro i detenuti, anche dall’esterno del carcere.
Non solo. Il successivo art. 62, commi 1 e 2 recita:
1. Il magistrato di sorveglianza vigila sulla organizzazione degli istituti di prevenzione e di pena e prospetta al Ministro le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo.
2. Esercita, altresì, la vigilanza diretta ad assicurare che l'esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti.
”, il che significa che tecnicamente il Procuratore della Repubblica da quel giorno (9 agosto 1975) non aveva più alcuna funzione di vigilanza sulle carceri.
Permaneva però in regime di ‘prorogatio’ il precedente ordinamento, secondo il quale al giudice si sorveglianza (art. 4 R.D. 18.6.1931 n. 787) non era attribuita alcuna funzione, mentre l’uso delle armi era ed è tuttoggi disciplinato dal successivo art. 181 (evasione) ultimo comma, che recita:
I militari e gli agenti addetti alla traduzione o alla sorveglianza estera degli stabilimenti o alla custodia dei detenuti che lavorano all’aperto, sono autorizzati a far uso delle armi quando vi siano costretti dalla necessità di impedire l’evasione”. Ciò è possibile in quanto la legge n. 354/1975 non abrogava il R.D. n. 787/1931 nella sua interezza ma solo nei casi di incompatibilità con la nuova disciplina. Nella fattispecie il legislatore del 1975 non ha innovato.
Analogamente dispone tuttoggi il R.D. 30 dicembre 1937 n. 2584 (Regolamento per il Corpo degli agenti di custodia), il cui art. 169 (Uso legittimo delle armi) recita:
Oltre le ipotesi comuni di esercizio di un diritto o adempimento di un dovere di legittima difesa e di stato di necessità, prevedute negli artt. 51, 52 e 54 del codice penale, gli agenti possono fare uso delle armi nei seguenti casi:
1) nell'interno dello stabilimento quando vi siano costretti dalla necessità di sedare una rivolta di detenuti o respingere un'aggressione dall'esterno;
2) nei posti ove i detenuti lavorino all'aperto, oltre che nelle ipotesi di cui al n. 1, per impedire la fuga, previe tre intimazioni e lo sparo di un colpo in aria;
3) nel servizio di vigilanza esterna degli stabilimenti, previe tre intimazioni e lo sparo di un colpo in aria:
a) quando dall'esterno si tenti di penetrare nell'interno dello stabilimento o di turbare in qualsiasi modo l'ordine;
b) in caso di tentativo di fuga da parte dei detenuti, quando il fuggitivo si oppone al fermo con vie di fatto o con minaccia di violenza o, malgrado l'intimazione, non desista dal tentare l'evasione, e non vi siano altri mezzi efficaci ad impedirla. Se il fuggitivo non ricorre a vie di fatto o a minaccia di violenza, l'uso delle armi è vietato quando si tratti di un'evasione dai manicomi giudiziari o dai riformatori giudiziari.
”.
Anche il R.D. n. 2584/1937 sopravvive nelle parti in cui non contraddice la nuova disciplina di cui alla legge 15 dicembre 1990 n. 393, che istituisce il Corpo di Polizia penitenziaria, legge che non l’ha abrogata nella sua interezza (art. 42).
Questa era la situazione il 9 agosto 1975.
Naturalmente, il carcere era circondato dalle forze di polizia, carabinieri e pubblica sicurezza.
Il cardine del dispositivo di sicurezza era costituito da due gruppi di tiratori scelti di due elementi ciascuno, rispettivamente dei carabinieri e della pubblica sicurezza, comandati dal maresciallo Antonini, maresciallo dell’arma dei carabinieri.
La loro funzione era di intervenire in caso di stallo della situazione, uccidendo i due detenuti sequestratori o almeno rendendoli inoffensivi.
L’intervento doveva essere contemporaneo, i due detenuti dovevano essere inquadrati contemporaneamente nei mirini telescopici dei fucili e fermati, per evitare la reazione di uno o di entrambi a danno del personale sequestrato. Ogni gruppo di tiratori seguiva il proprio bersaglio.
Ho tentato di mettermi in contatto col dr. Romoli, che non ha risposto a un mio messaggio, volevo verificare la correttezza dei miei ricordi in alcuni momenti nodali. Mi devo quindi affidare solo alla mia memoria, ai miei ricordi.
È ovvio che non posso essere certissimo dell’esattezza di quanto sto raccontando, ma sono pronto alle eventuali correzioni qualora me ne dovessero pervenire dai protagonisti di questo dramma.
Il punto cruciale era che i due detenuti volevano a tutti i costi sottrarsi alla detenzione, volevano evadere e minacciavano di fare una strage se non fossero stati accontentati.
A complicare la situazione filtrò la notizia che il maresciallo Pilloni era stato colto da malore, un probabile infarto (il Pilloni gode ancora oggi ottima salute) e si chiedeva l’ingresso di un medico per visitarlo e sottoporlo alle cure necessarie.
La cosa puzzava d’imbroglio, i due volevano avere ‘moneta di scambio’ più forte per contrattare il rilascio dal carcere.
Il medico incaricato era il dott. Romano Cerri, da me assunto in sostituzione del precedente anziano medico, il dott. Ceccarelli, il quale abitava in un palazzetto di via S. Stefano che aveva finestre sul lato del carcere interno alla cittadina. Il dott. Ceccarelli era in ferie ma riuscirono non so come a entrare e lì si appostarono i tiratori scelti. Il dott. Cerri mi chiese consiglio ed io risposi che io al posto suo e non solo non sarei entrato, sarebbe stata una pazzia: non entrò e fece bene.
Però il Pilloni continuava a star male, era piuttosto avanti con gli anni, il malessere poteva essere pericoloso.
Qui accadde un fatto strano, al quale io ero contrario. Il brig. Carangi Gabriele si offrì di prendere il posto del maresciallo Pilloni, ebbe il consenso di farlo, forse ma non da me, entrò e vi restò, fu sequestrato anch’egli, il Pilloni non fu rilasciato.
Era prevedibile, ma il coraggio e la temerarietà sono delimitati da una linea sottile di demarcazione.
La tempistica esatta non è possibile ricostruirla, però ormai eravamo nel secondo giorno di sequestro, il 10 agosto. Dall’interno si veniva tempestati di messaggi di allarme, sempre relativi al Pilloni che pare passasse da una crisi all’altra.
E qui si verificò un altro fatto molto vicino alla follia: il medico che sostituiva il dott. Cerri durante le sue assenze dal servizio era il dott. Marco Manca, sardo, il quale, ostentando una sicurezza ed una padronanza (solo supposta) della situazione, a sua volta si offrì di entrare per curare il Pilloni, lo fece, dispose che il Pilloni, sardo anch’egli, fosse ricoverato in ospedale e, miracolosamente, il Pilloni fu rilasciato, il dott. Manca no.
La situazione divenne ancor più difficile. Adesso erano sotto sequestro otto militari e un civile, il dott. Manca.
Fu questo il momento psicologico di massima tensione, che fece temere per la vita degli ostaggi, memori – ripeto - di quanto era accaduto ad Alessandria l’anno precedente. Dopo un lungo e sofferto processo di maturazione il dr. Romoli addivenne alla determinazione di ordinare la scarcerazione dei due detenuti con un provvedimento formale scritto, che soppesò a lungo. Poi lo consegnò o fece consegnare al colonnello dei carabinieri accorso sul posto, che avrebbe dovuto notificarlo alla direzione del carcere, cioè a me per la esecuzione.
Il colonnello sembra si sia rifiutato di eseguirlo, certo è che a me non è stato consegnato nulla. Credo che abbia fatto anche altro, perché poco dopo arrivò a San Gimignano il dr. Giulio Catelani, sostituto procuratore generale, che avocò a se l’indagine per il sequestro: il dr. Romolì uscì di scena, il suo ordine di scarcerazione credo sia stato acquisito dal dr. Catelani, certo è che io l’ho visto solo in bozza e non firmato. Non ne ho saputo più nulla.
Il dr. Catelani, che io conoscevo da qualche anno, da quando venne a rappresentare il Procuratore generale ad una festa dell’Epifania per i figli degli agenti, era chiamato a Firenze ‘il commissario’, per la sua grinta investigativa. Si piazzò nell’ufficio del direttore (un bugigattolo, era provvisorio, in attesa della ricostruzione della direzione) e vi restò fin quando non si sentì un vociare di là dalla parete destra, chiese cos’era, gli dissi che erano con ogni probabilità i due detenuti, o almeno uno di essi, in quanto la parete confinava con l’ambiente in cui era stato portato il pacco, contenente le armi e aperto poi in presenza dei due detenuti, mi chiese se era un muro spesso non lo era (era solo una paretina), decise fulmineamente di spostarsi in un altro ambiente e siccome non ce n’erano, decise di stabilire la ‘centrale operativa’ nell’Hotel Cisterna, in piazza della Cisterna, restandovi fino all’epilogo della vicenda.
A me fu inibito di farvi accesso, va a capire perché !
Lì si consumarono decisioni che io potevo solo dedurre, soprattutto quella di decidere o per l’irruzione o per l’intervento dei tiratori scelti.
Ma non era finita lì.
Arrivò a San Gimignano anche il dr. Alessandro Margara, giudice istruttore nonché giudice di sorveglianza a Firenze assieme ad un suo collega di cui non conservo il nome. Margara godeva di grande prestigio e notevole ascendente sui detenuti, ma anche nel mondo accademico. Io lo conoscevo fin da quando assunsi servizio a Firenze, in carcere il personale, a cominciare dal direttore, lo vedevamo tutti come il fumo negli occhi: era un precursore e ce ne accorgemmo solo anni dopo. Era celibe, ma non lo restò per sempre, tutto dedicato al lavoro, non aveva paura di nulla, passava imperterrito in una barriera quasi tangibile di ostilità con grande disinvoltura e serenità. Era convinto, anche lui come il dott. Manca, di poter risolvere la situazione. Chiese di entrare a parlare coi detenuti, gli fu risposto di no. Per amor di verità, non lo chiese subito, cercò di assumere accurate notizie sulla situazione per formarsene un’idea personale.
La tensione fra il personale di custodia era altissima, l’ag. TAURONE Giovanni addetto allo spaccio agenti esplose pubblicamente dando in escandescenze, fate qualcosa - gridava - fate qualcosa. Non la passò liscia. In seguito fu trasferito a Volterra perché avrebbe dovuto conservare la calma.
Giulio Catelani e il maggiore Dante Aielli ragionavano così.
Ma i sequestratori non demordevano e decisero di mandare fuori l’app. Guazzini con il preciso compito di riferire il loro ultimatum. Io non ero presente, l’ho già detto, mi era inibito l’accesso ma credo che Guazzini abbia anche tentato di convincere Catelani e gli altri ad accettare la via d’uscita che i due detenuti volevano perseguire e già intrapresa dal dr. Romoli.
V’è una fotografia che inquadra Guazzini e me all’ingresso dell’hotel Cisterna, che si vede in alto. È bianco e nero, testimonia la tensione che traspare dal volto dell’app. Guazzini, il quale sta tornando in carcere, doveva tornare in carcere, gli era stato detto dai due detenuti che se non fosse rientrato avrebbero ammazzato un suo collega, a caso.
Guazzini non era uscito per sottrarsi, rientrò. Anche questo gesto, di grande coraggio, un coraggio meditato, non istintivo, gli fu fatto pagare caro.
Questi erano i distillati che il centro operativo di Catelani ed Aielli producevano: sospetti, incredibili e offensivi sospetti, Aielli me lo disse esplicitamente che il comportamento di Guazzini, che rientrava in carcere per essere nuovamente sequestrato, era sospetto.
Le mie proteste furono vane.
La confusione già era grande e complicata da tante tensioni e mali pensieri.
Ad aumentarla ci pensarono due magistrati, uno dei quali era Margara (dell’altro non ricordo il nome), e cinque giornalisti.
Io sapevo che ne era entrato qualcuno.
Entrarono in carcere attraverso Porta carraia e i Fondi.
Naturalmente, non tornarono indietro. Adesso i due rivoltosi avevano nelle mani otto agenti, il medico, due magistrati e cinque giornalisti.
Un bel bottino, vero ?
Immagino come esultavano i due detenuti, che credo non capissero che la morte si avvicinava a loro veloce e furtiva.
Decidendo di scrivere questa storia ho trovato il nome di due di essi, Riccardo Berti e Maurizio Boldrini.
Sono riuscito a mettermi in contatto anche con loro, chiedendo una testimonianza di oggi di quell’episodio. Sia loro che i due magistrati erano entrati senza il permesso dell’autorità amministrativa, cioè del Ministero di Grazia e Giustizia. Nella fattispecie io ero il rappresentante in loco dell’autorità amministrativa, della quale esercitavo la supplenza per causa di forza maggiore, in quanto l’ispettore distrettuale dr. Nespoli non aveva avocato a sé la gestione del sequestro: mica fesso lui !
Entrambi mi hanno risposto.
Riccardo Berti è oggi direttore dei canali Rai di pubblica utilità, per i servizi giornalistici di quell’episodio ricevette il premio “Il cronista dell’anno”, scriveva per La Nazione.
L’ho trovato in internet:
Dopo 30 anni, giornalista ritrova il tiratore scelto dei carabinieri che lo salvò. 06 marzo 2008.
Si sono incontrati dopo trent'anni. Lui: il tiratore scelto dei carabinieri che, all'ultimo istante, aveva deciso di non sparare. L'altro: l'inviato de ''La Nazione'' che, sicuramente, si era salvato la vita proprio grazie a quella scelta.
Protagonisti di questa storia: l'attuale direttore dei Canali di Pubblica Utilità della Rai, Riccardo Berti; e il maresciallo in pensione Matteo Sassano.
L'incontro è avvenuto, ieri a Roma, nella redazione de ''Il Carabiniere'', la rivista sulla quale Berti di recente ha ricordato quell'episodio spiegando però di non aver mai saputo il nome del carabiniere al quale probabilmente deve la sua salvezza. L'appello non è caduto nel vuoto: il maresciallo Matteo Sassano che oggi vive ad Asciano, vicino a Siena, ha letto l'articolo e ha contattato il direttore della rivista, il colonnello Roberto Riccardi, il quale ha organizzato l'incontro.
Un abbraccio, una stretta di mano e poi i tanti ricordi di quella terribile domenica del 10 agosto del 1975 quando i detenuti del carcere di San Gimignano, vicino a Siena, che il giorno prima avevano organizzato una sommossa avevano preso in ostaggio, tra gli altri, l'allora inviato del quotidiano fiorentino entrato nella prigione per parlamentare con loro.
Falliti tutti i tentativi per sbloccare la situazione a meta' pomeriggio era stato deciso di far entrare in azione i tiratori scelti per neutralizzare i due capi della rivolta: quello che teneva sotto il tiro della pistola l'inviato de ''La Nazione'' e quello che da una finestra puntava le armi - entrate chissà come nel carcere - contro gli altri ostaggi radunati nel cortile del carcere
. Fonte: Adnkronos.”.
Il suo profilo in Rai è il seguente:
Riccardo Berti, Direttore dei Canali Radio di Pubblica Utilità dall'agosto del 2002, proviene dalla carta stampata. Nato a Prato nel 1946, giornalista professionista dal 1970, è stato cronista, inviato speciale, caporedattore e vicedirettore, tra l'altro, dell'agenzia giornalista "Polipress" e del "Tempo" di Roma. Ha diretto tre quotidiani: "Il Piccolo" di Trieste, "La Nazione" di Firenze e "Il Giornale della Toscana", di cui è stato anche il fondatore.
La sua carriera, Berti l'ha cominciata come cronista nella "città degli stracci" (così Prato la definiva lo scrittore Curzio Malaparte) negli anni a cavallo tra il boom economico e le grandi tensioni sociali.
Trasferito a Firenze, come inviato speciale de "La Nazione" e de "Il Resto del Carlino" di Bologna, per molti anni, ha seguito i maggiori avvenimenti di cronaca italiana: dal terremoto in Friuli all'inondazione della riviera romagnola, dai più clamorosi delitti alle contestazioni studentesche; dai maggiori appuntamenti politici agli storici incontri internazionali.
Negli anni Settanta, sempre come inviato speciale, ha vissuto la "stagione del terrorismo" raccontando sulle pagine de "La Nazione" e de "Il Carlino" la cronaca di quelle tragiche giornate: dagli espropri proletari agli assalti delle Brigate Rosse, dai delitti di Prima Linea agli scontri di piazza. Proprio per questa sua intensa attività giornalistica e per i duri commenti scritti nei confronti dei terroristi, fin dalle loro prime apparizioni, il suo nome fu scoperto in un covo brigatista di Milano insieme con quelli di altri personaggi che dovevano essere uccisi, secondo la logica terroristica: "Colpisci uno per educarne cento".
Gli anni Settanta furono anche gli anni delle sommosse nelle carceri: Alessandria, Porto Azzurro, Volterra, Torino. E fu proprio nel penitenziario di San Gimignano, vicino a Siena, che Berti venne preso in ostaggio da un gruppo di rivoltosi con i quali stava parlamentando. La sommossa si concluse con una violenta sparatoria: uno dei detenuti che teneva Berti in ostaggio fu ucciso dai tiratori scelti dei carabinieri e della polizia appostati sui tetti dei palazzi davanti al carcere. Per questo episodio, Berti fu insignito del premio giornalistico "Il Cronista dell'anno".
Due figli - Matteo (giornalista anche lui) e Chiara (designer di moda) - Berti ha svolto anche attività di volontariato (nel servizio di pronto soccorso delle Misericordie), ha scritto un libro ("Quando suonava a fuoco") sulla storia dei vigili del fuoco, ha diretto un corso sperimentale di tecnica della comunicazione alla Scuola Marescialli e Brigadieri dei Carabinieri
.”
Una splendida carriera !
Tramite la sua segretaria mi ha fatto pervenire una letterina in cui dichiara di non avere foto o ritagli di giornali, consigliandomi di rivolgermi al maresciallo Sassano, con tanto di numeri telefonici e di cellulare: nulla su una sua rivisitazione dell’episodio, nonostante lo abbia sollecitato tramite la suddetta segretaria.
Ho contattato il Maresciallo Sassano, che mi ha detto di non avere un archivio fotografico, ma solo dei ritagli di giornale (Berti invece scrive che “il maresciallo Sassano ha un Suo archivio che Le potra’ essere utile”), mi ha promesso l’invio di fotocopia dei ritagli, sono tuttora in attesa.
Maurizio Boldrini vanta questo curriculum:
Il giornalismo.
Prima di diventare giornalista professionista, è stato giornalista pubblicista dal 1975 al 1979, dirigendo in quel periodo "Il Nuovo Corriere Senese" e collaborando alle redazioni toscane del "Paese Sera" e per "L'Unità"; dopo lo svolgimento del praticantato nella redazione fiorentina, è diventato giornalista professionista nell'anno 1980. Dopo l'esperienza fiorentina ha lavorato nella redazione romana de "l'Unità", continuando a collaborare ad altre testate e tornando poi alla redazione del "Nuovo Corriere Senese", nel frattempo diventato N.C. Ha collaborato con molte altre riviste e testate della carta stampata nazionale e locale (Manifesto, Carta, Monde diplomatique, La Voce del Campo, Viceversa, Palio- i giorni della festa) e con testate radiofoniche e televisive (Rai tre, Teleregione - di cui è stato anche direttore responsabile- e Canale Tre Toscana).
Nel 1978, dopo essere stato sequestrato dai rivoltosi del carcere di San Gimignano nel corso di un reportage giornalistico, ha vinto per gli articoli scritti in quella circostanza il Premio Senigallia, che l'Ordine Nazionale dei Giornalisti assegna ai migliori cronisti dell'anno.
Proprio in quanto giornalista e docente in queste discipline, si è battuto perché si affermasse un nuovo modo di accedere alla professione giornalistica; è stato, a questo scopo, tra i fondatori del Master interuniversitario toscano in giornalismo di cui è membro del suo consiglio direttivo.
Ha anche realizzato in collaborazione con l'ordine nazionale dei giornalisti e il gruppo stampa senese dei convegni sulla storia del giornalismo regionale senese; tra questi si segnala la partecipazione alla giornata di studio Il giornalismo a Siena dalle origini alla rete (ottobre 1999); la giornata di studio su Romano Bilenchi (novembre 1999) e il convegno di studio su I senesi nella storia del giornalismo (novembre 2003).
La politica.
Nei primi anni '60 costituisce con un gruppo di amici di Piancastagnaio (Mauro Buoni, Luciano Paradisi, Francesco Serafini, Gino Serafini,Vittorio Traversi) un circolo culturale, i Ghiozzi, di chiara ispirazione laica e progressista. Nel '67-'68 partecipa al grande movimento di protesta dei disoccupati amiatini, che si manifesta anche attraverso la tendopoli della Lizza e all'occupazione delle miniere.
Quel periodo è stato molto importante per la sua formazione politica e culturale, entra a contatto con la tradizione e la cultura del ribellismo amiatino e conosce l'opera del "profeta" Davide Lazzaretti. Argomento e tema che riprenderà spesso in articoli e scritture come il saggio in "Le Terre di Siena", proprio dal titolo Davide Lazzaretti. Il tempio giurisdavidico, e nella lunga intervista sul millenarismo con Ernesto Balducci.
Nel 1969 si iscrive al PCI, nel quale partito ricopre incarichi di direzione sia a livello locale che provinciale (responsabile della propaganda e della cultura nonché membro del comitato federale). Nei primi anni '70 comincia ad intrecciare l'attività politica con la professione giornalistica, divenendo prima corrispondente da Siena de "l'Unità" e successivamente condirettore (con Carlo Fini direttore) del "Nuovo Corriere Senese".
A metà degli anni '80 ha fatto parte del comitato regionale del PCI occupandosi di comunicazione e propaganda e contribuendo alla realizzazione di importanti eventi politici quali la Festa dell'Unità nazionale che si è tenuta a Tirrenia.
Si è occupato di aspetti relativi alla comunicazione politica in qualità di responsabile del settore Stampa e Propaganda del PCI dal 1984 al 1989 lavorando a Botteghe Oscure a fianco di Massimo D'Alema, Walter Veltroni e Vittorio Campione. Successivamente ha aderito prima al PDS e poi al partito dei DS.
” (Dal suo blog:
www.maurizioboldrini.it/giornalismo.html).
Oggi è direttore del dipartimento di scienza della comunicazione presso l’università di Siena.
Anche lui non ha nulla di specifico sull’episodio, però si è reso disponibile a incaricare delle ricerche un suo studente.
Sono tuttora in attesa di risultati.
Sono anche perplesso: ricevono dei premi per quei servizi giornalistici e non hanno conservato nulla ?
La vicenda sta per concludersi.
Il sequestro di due magistrati e cinque giornalisti, accaduto il lunedì 11 agosto 1975 in tarda mattinata, fece precipitare la situazione, per cui l’ordine di sparare fu dato pur non essendo uno dei due detenuti inquadrato nel mirino telescopico in modo stabile.
I tiratori scelti non potevano di propria iniziativa sparare o decidere di non sparare, ma solo su comando del direttore di tiro, il maresciallo Antonini. Inoltre, io ricordo che più volte l’ordine di sparare non fu dato perché i bersagli erano due, erano armati, dovevano essere neutralizzati contemporaneamente e non erano contemporaneamente e stabilmente nella linea di tiro.
Mi si perdoni il linguaggio crudo, che non mi appartiene ma vuole rendere la mentalità degli specialisti.
Risultato, Mistroni fu ucciso e morì sul colpo, Turrini no, non fu nemmeno ferito.
Qui accadde l’imprevedibile (ma sono parzialmente mie illazioni): Turrini, che al momento degli spari era a ridosso della porta carraia, all’interno dell’ingresso dei sotterranei (“I Fondi”) uscì fuori tiro, stava andando con i sequestrati dell’ultima ora verso la II^ sezione (l’unica agibile dopo la rivolta dell’agosto 1974), collegata tramite una rampa di scale, gli spari vi furono quando Turrini era sui primi gradini della scala in fondo al corridoio ed i proiettili andarono semplicemente a spasso nel corridoio. Però prese paura, temeva, non a torto, di essere ucciso anche lui, per cui arrivato in II^ sezione si ‘lasciò’ disarmare da un agente, l’ag. CASTIGLIONE Emilio.
Castiglione dichiarò di essere saltato addosso al Turrini, che non oppose resistenza.
Lo proposi per una promozione per meriti speciali e fu promosso appuntato.
Proposi anche l’app. Guazzini e il brig. Carangi per una promozione per meriti speciale: non furono promossi.
L’ag. Tammaro Nicola fu anch’egli trasferito a Volterra, pur essendo chiaramente incolpevole, andando a far compagnia all’agente Taurone, la cui unica colpa fu di avere invocato aiuto per i propri colleghi sequestrati: peccato mortale, duramente sanzionato !
Entrambi fecero poi rientro a San Gimignano, prima Taurone, in un secondo momento Tammaro.
Qualche tempo dopo al dott. Manca fu concessa la medaglia d’oro al valor civile, con una cerimonia sobria nello studio del sindaco Pierluigi Marruci, presenti il Prefetto e il Questore di Siena, il maresciallo Bartalini, il grande maresciallo Bartalini che comandava la stazione Carabinieri di San Gimignano ed io.
Lo volli chiedere, la feci la domanda, sia al dott. Manca che al brig. Carangi, mi risposero no, non l’avrebbero rifatto.
Il senno di poi.
(continua)

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Buongiorno, ho letto. Sono sconvolta.
Ho conosciuto il Turrini 10 anni fa. Purtroppo era un mio vicino di casa. Ho frequentato la sua casa. Perchè si pensa ancora che certi delinquenti possano redimersi? E' DNA!
Posso dedurre che mi è andata molto bene.
m

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Ti è andata sicuramente bene. Ad altre ragazze, imprudenti, è andata decisamente male e a qualcuna peggio.
Ciò che hai letto e tant'altro (UN VITA - 40anni - trascorsa a dirigere carceri) la puoi leggere in un libro di prossima uscita, che è stato da me presentato a questo link: http://ilgiornalieri.blogspot.com/2010/01/la-mia-vita-dentro.html
La prima tiratura, speriamo non l'unica, è molto limitata, io mi affretterei a ordinarlo alla libreria di tua fiducia.
Se ti va, mi puoi scrivere alla mia mail che troverai nel mio profilo di questo blog.
Continua a frequentarlo, il mio blog!

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Naturalmente, pensare che quella tipologia di detenuti possa essere riabilitata e riconsegnata alla società in grado di rispettare le regole di civile convivenza e guadagnarsi onestamente da vivere è pura follia.

Elide Cialente ha detto...

http://cioccolatoamaro.blogspot.com/2010/10/il-peso-di-una-noce.html

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

@ Caos Calmo: le risponderò sul suo blog.