Gli anni 1974-1975 furono funestati da notevoli disordini. Il 10 maggio 1974 nella casa penale di Alessandria c’era stata unA rivolta, con sequestro di operatori penitenziari, soffocata nel sangue, nel corso della quale i rivoltosi, armati di pistole fatte entrare nel carcere, si asserragliarono nell'infermeria detenuti. Moriranno sei persone, 14 i feriti; i morti: 2 detenuti, due agenti di custodia, il medico del carcere e una assistente sociale.
A febbraio 1974 c’era stata una prima rivolta nel carcere sangimignanese, nel corso della quale i detenuti riuscirono facilmente a salire sui tetti, rivolta che però durò poco perché quell’inverno fu durissimo e faceva un freddo polare.
Avevano sbagliato le previsioni, ma ci riprovarono subito lo stesso anno ad agosto.
Imparammo che le moka potevano essere utilizzate anche per un altro uso, le chiamammo ’moka esplosive".
Ero in ferie quando fui richiamato in sede dal P.M. di Poggibonsi che aveva, vigente ancora il vecchio ordinamento giudiziario, la sorveglianza sulle carceri, poi affidata al magistrato di sorveglianza, divenendo un incarico esclusivo e non più collegato con quello di Giudice Istruttore: il carcere era in rivolta, nuovamente, i detenuti erano sui tetti.
Questa volta era estate, non c’era ‘il Generale Inverno’ che sconfisse anche Napoleone Bonaparte e Adolf Hitler.
Mi chiesi e chiesi a che scopo, ero lontano 800 e passa chilometri, non avrei potuto fare nulla che altri non avrebbero potuto fare al posto mio, e cioè il P.M. e l’ispettore distrettuale ‘pro tempore’, ma rientrai.
Ovviamente la rivolta era già finita, era durata due giorni, i detenuti erano saliti sui tetti, avevano buttato giù una marea di tegole e coppi, ampie superfici dei tetti erano impraticabili.
Cosa volevano ? La riforma dell’ordinamento penitenziario ! Si rendevano conto che così non l’avrebbero affrettata ? No, non se ne rendevano conto. Avranno capito che queste manifestazioni collettive di ribellione e di violenza sulle cose avrebbero potuto pregiudicare il corretto iter parlamentare di approvazione della legge di riforma ? No, non lo hanno capito nemmeno dopo.
Infatti la legge 26 luglio 1975 n. 354 uscì mortificata dalle aule parlamentari. In particolare, non fu approvata la norma del permesso premiale, contemplata oggi nell’art. 30 ter, inserito dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663, la famosa “legge Gozzini”, oggi gravemente a rischio con l’attuale governo di centro-destra.
Sarebbe a dire che quelle rivolte (ve ne furono in numerosi carceri all’epoca) fecero slittare tutta una serie di migliorie legislative di ben undici anni ! La legge Gozzini introdusse il permesso premiale ma anche importanti modifiche alle misure alternative alla detenzione e misure di controllo dei detenuti più pericolosi mediante il regime di sorveglianza particolare (art. 14 bis ordinamento penitenziario).
Ma erano scatenati, i ritardi della legge di riforma erano troppi, un iter legislativo iniziato 15 anni prima [nel 1960 che venne presentato il primo progetto di legge di riforma penitenziaria. Il disegno di legge (n. 2393 ) venne presentato dal Guardasigilli Gonnella alla Camera], concretizzato per ultimo nel progetto di riforma del 1971, dopo un intervento di Reale (disegno di legge Reale n. 1516). Nel 1968 Gonnella era nuovamente Ministro della giustizia, e si rielaborò il precedente progetto di legge e lo si presentò al Senato. Furono, però, necessari due anni perché la legge venisse discussa in commissione giustizia del Senato, e da questo approvata.
Perché l'esame di un disegno di legge non così differente dai precedenti, richiese un lasso di tempo così lungo? Probabilmente non si considerava la riforma "urgente"; per i detentori del potere, forse, tutto funzionava molto bene così come le carceri, e tutto il sistema penitenziario, erano organizzati. Ma in realtà, al di fuori di questa visione burocratica la riforma era tutt'altro che un atto da rimandare. La situazione che andava creandosi nelle carceri italiane a cavallo tra gli anni '60 e gli anni '70, era sintomo proprio della necessità di riforma.
Erano gli anni delle contestazioni studentesche, del rifiuto di ogni istituzione totalizzante, l'opinione pubblica era più attenta, le sinistre cominciavano a riconoscere l'importanza del problema penitenziario. All'interno degli stabilimenti di pena l'influsso di questa situazione "esterna" era forte, ovunque scoppiavano sommosse e rivolte, i detenuti cominciavano a presentare delle richieste (o meglio, rivendicazioni). Nonostante tutto questo il disegno di legge non fu oggetto di rapida approvazione, e non vi si apportarono sostanziali modificazioni. Mancava una generale considerazione della complessità delle problematiche poste dal sistema penitenziario, anche se le sinistre si facevano portatrici di diverse richieste di "modernità" della legge. Nel corso dei lavori si sentirono, ancora una volta, relazioni e informazioni di appartenenti all'amministrazione. L'inserimento delle misure alternative alla detenzione venne attaccata dalla Democrazia Cristiana, in quanto veniva vista come sintomo di lassismo. Si ebbero quindi delle innovazioni che però andarono ad inserirsi in un campo fortemente tradizionale e conservatore; l'organizzazione amministrativa rimase pressoché invariata.
Nel corso della VI legislatura si ripartì dalla Commissione giustizia del Senato; era l'anno 1973. Il progetto predisposto dalla sottocommissione nominata dal ricordato ramo parlamentare, conteneva delle norme che dimostrano un serio impegno di voler incidere profondamente sulla situazione carceraria. Questo era forse dato anche dal fatto che durante questa legislatura il Ministro della giustizia Zagari era un uomo di sinistra, il quale si fece promotore di principi quali la inopportunità e inutilità di un'applicazione illimitata della pena detentiva (questa avrebbe dovuto essere riservata ad autori di reati di particolare gravità, o a soggetti che presentano una pericolosità notevole), nonché la necessità di un collegamento tra carcere e società "libera".
Gli elementi maggiormente significativi del disegno di legge approntato dalla citata sottocommissione, riguardavano un ampliamento degli istituti già previsti durante la precedente legislatura (semilibertà, liberazione anticipata, permessi, licenze), nonché la introduzione dell'affidamento in prova al servizio sociale. Sostanzialmente, per ciò che attiene agli elementi più innovativi, il progetto di legge venne approvato dal Senato.
Era adesso il turno della Camera. Molti deputati dichiararono la necessità di procedere rapidamente all'approvazione della legge di riforma, ma vi fu chi, come l'on. Padula (DC), si schierò nettamente contro ad un tale atteggiamento, manifestando forti perplessità proprio nei confronti degli "ampi" poteri attribuiti dal disegno legge al Magistrato di sorveglianza. Da questo momento in poi i lavori di fronte alla Camera furono caratterizzati da una netta inversione di tendenza. Si neutralizzarono, quasi completamente, gli avanzamenti ottenuti in Senato, la maggioranza stessa si schierò contro i principi più innovativi della legge di riforma. Per portare solo degli esempi degli interventi modificativi operati davanti alla Camera, basta ricordare l'introduzione dell'osservazione in istituto per un periodo di tre mesi prima di poter concedere l'affidamento in prova al servizio sociale, la soppressione dell'ipotesi di concessione di permessi per il mantenimento, da parte dei detenuti, di relazioni umane, la previsione di reati ostativi per la concessione delle misure alternative alla detenzione (che "scamparono" ad una proposta di stralcio dalla legge), l'istituzione delle Sezioni di sorveglianza, organi collegiali (di cui si dirà specificatamente più oltre) competenti in materia di concessione delle misure alternative alla detenzione sottraendo tale competenza all'organo monocratico.
Al Senato non rimase che approvare il testo di legge predisposto dalla Camera, anche se profondamente modificato, per evitare ulteriori ritardi nella emanazione di una legge di riforma quanto mai necessaria. Questo ramo del Parlamento si rese conto, forse, che la situazione delle carceri era ormai insostenibile, che i detenuti da troppo tempo reclamavano un sostanziale mutamento, e che le numerose rivolte verificatesi in quegli anni nelle carceri italiane non sarebbero finite se non con l'approvazione della legge. Quanto poi la legge fosse effettivamente voluta, sia nella sua redazione, che, poi, nella sua applicazione, lo vedremo oltre. (Benedetta Manoelli – La riforma dell’ordinamento penitenziario – L’altro diritto).
Torniamo alla rivolta del 1974. il comandante reggente era il brig. Cappelli Mario, il direttore supplente era il rag. Fiorella Luigi, a capo dei servizi di ragioneria di quel carcere, nel quale era detenuto un tizio (nessuno ne ricorda il nome) chimico di professione, capace di realizzare da elementi innocui una miscela esplosiva.
Lo fece anche in quella circostanza, utilizzandosi le caffettiere Moka.
I detenuti reclamavano per l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, così mi fu riferito. Il P.M. di turno era il pretore di Poggibonsi dr. Cavoto, che fu prelevato dal brig. Cappelli con la macchina di servizio.
Parlare coi detenuti sui tetti si poteva solo dal chiostro (ricordo che il carcere era un ex convento), il dr. Cavoto vi fece accesso, autorizzando l’ingresso di agenti armati di M.A.B. (Moschetto Automatico Beretta, un mitra). Dopo qualche minuto di ‘conversazione’ cominciarono a piovere dai tetti ordigni esplosivi, le ‘caffettiere moka’, che esplodevano con grande rumore e notevole pericolo. Uno di essi esplose a pochi passi dal dr. Cavoto, che, spaventato a morte e incazzato nero, ordinò agli agenti di sparare in aria.
Non l’avesse mai fatto ! Inziarono a sparare sì, ma direttamente sui tetti, e non si fermarono più se non dopo avere esaurito in pratica tutte le riserve si cartucce cal. 9 lungo dell’armeria ! Infatti spararono anche con le pistole d’ordinanza. Il più indiavolo degli agenti fu l’ag. SCOLLATO Giovanni, calabrese.
Non vi furono né morti né feriti solo perché i detenuti furono solleciti a rifugiarsi nel sotto tetto, dal quale iniziarono a lanciare tegole e coppi.
Poi la rivolta finì il giorno successivo. Quando io feci rientro a San Gimignano era in corso un trasferimento massiccio di detenuti, resosi necessario per il fatto che tutta la III^ sezione divenne inagibile e lo restò per due - tre anni, fin quando il Genio Civile di Siena non rifece i tetti, rinforzando il solaio con una soletta di cemento armato.
Restava agibile solo la II^ sezione e l’infermeria detenuti, ricavata da un lato della III^, che non era stato interessato dalla devastazione operata dai detenuti rivoltosi.
Ho citato il brig. Cappelli Mario, toscano, un ottimo sottufficiale, alto slanciato, una divisa sempre in perfetto ordine, col quale corsi una brutta avventura l’anno precedente. L’ag. Castiglione Emilio, in servizio alla III^ sezione chiamò il brig. Cappelli, vice comandante, che chiamò me. Due detenuti della III^ sezione avevano divelto le gambe di un tavolino, che erano in mano loro un’arma impropria ma efficace, in quanto erano due quadrelli di legno di faggio evaporato grossolanamente lavorato in una lavorazione carceraria: due clave !
Quando facemmo accesso alla sezione, ce li trovammo proprio davanti, mulinavano le due ‘clave’ sotto i nostri occhi e quelli, imperturbabili, dell’ag. Castiglione. Le picchiavano contro la vetrata dell’ingresso infermeria detenuti, i cui vetri erano in realtà lastre di plexiglass trasparente infrangibile di mm. 3 di spessore.
Che cosa volevano ? Essere trasferiti ad altro carcere (San Gimignano era troppo controllato rispetto alla media degli altri carceri dell’epoca).
Occorse molto sangue freddo da parte di entrambi, ma non lo perdemmo entrambi. Io mi avvicinai a uno dei due, che sembrava essere il capo, Cappelli all’altro. Mi avvicinai moltissimo, volendolo poteva spaccarmi la testa con una randellata. Cappelli lasciò parlare me. Questa apparente mancanza di timore produsse l’effetto di calmarli, mi dissero che volevano essere trasferiti in un altro carcere toscano, uno qualsiasi, perché a San Gimignano non resistevano. Certo, come motivazione era deboluccia, ma tant’è, in quel momento non era importante capire perché ma evitare problemi maggiori, danni alle persone e alle cose non ve n’erano stati, tranne quel tavolino sfasciato per impadronirsi delle gambe e farne un’arma temibile.
Li feci trasferire e finì lì.
Però quell’episodio dimostrò come sgabelli e tavolini fatti nelle manifatture carcerarie erano potenzialmente molto pericolosi. Chiesi all’app. Miscia di produrre un prototipo usando solo compensati, Miscia lo fece, era anche esteticamente confortante, lo sottoposi al rag. Montesanti ed ebbe successo (non poteva non averlo, era infinitamente meno pericoloso del materiale fin lì prodotto ed utilizzato.
Fu adottato come materiale da arredamento standard in dotazione e lo è ancora oggi.
Onore al merito ? Ma quando mai !
Il mio proposito con questo capitolo era di esaurire l’argomento rivolte nel carcere di San Gimignano, ma non ci sono riuscito, lo farò nel prossimo capitolo.
Dopo il 1974 vi furono tre rivolte, tutte con sequestro di ostaggi, cioè di personale dipendente.
Ma prima di parlare in dettaglio delle due del 1977 (a quella del 1975 dedicherò, come detto, un capitolo specifico) voglio descrivere quello che divenne un comportamento standard dei detenuti in quel carcere, nonostante tutto quanto di positivo che si era fatto e si continuò a fare in quel carcere.
Quindi, descriviamo prima le iniziative positive.
Dell’officina falegnami ho già detto, aggiungo che la produzione era soprattutto di mobili da ufficio standard di tipo svedese e cioè in laminato plastico montato su telai metallici da destinare agli uffici e servizi minori del Ministero di Grazia e Giustizia (oggi solo ministero della giustizia), ma anche pregevoli manufatti artigianali in legni nobili (pino di Svezia per infissi, noce nazionale e straniero, palissandro, frassino per mobili).
Fu la prima che volli far sorgere, ma avevo in animo di realizzare anche una Officina sarti, sulla scorta di quanto c’era nella casa penale di Firenze. Sapevo di poter contare sull’appoggio del rag. Montesanti, ma non c’era in loco nessun detenuto mestierante sarto, quindi era bloccato.
La situazione si sbloccò quando fu assegnato a San Gimignano l’ag. MEO Raffaele, abruzzese, che se ne stette lì buono buono, senza far trapelare che era stato in Germania a lavorare in un sartoria industriale, specializzandosi nella confezione delle giacche. Era ed è rimasto una persona dai modi bruschi e spicci, ma di grande ingegno e molto sincera. Però il ‘segreto’ non durò a lungo. Un giorno l’app. Guazzini Mario mi fece sapere quali erano le capacità professionali di Meo, lo chiamai, e si mostrò interessato ma non accettò subito.
Quando mi diede il suo consenso mi disse che lui voleva fare una sartoria capace di accettare le commesse di lavoro dell’amministrazione penitenziaria soprattutto relative alla produzione di divise per il personale degli Agenti di custodia, e di voler utilizzare le commesse di abiti marroni per detenuti, estivi di tela ed invernali di panno, per insegnare ai lavoranti il mestiere.
Ovviamente gli dissi di presentarmi un elenco di macchine occorrenti per tipo e per numero, bastevoli per far nascere l'Officina sarti ed un progettino in cui spiegava come intendeva realizzare la ‘catena di montaggio’. Sì, proprio così, la catena di montaggio, che lui aveva imparato in Germania come si fa.
Il risultato finale fu il seguente:
- n. 31 posti di lavoro a massimo regime;
- n. 35 macchine elettriche per cucire di tipo industriale;
- n. 1 macchina elettrica occhiellatrice;
- n. 1 macchina elettrica per cucitura a zig-zag;
- n. 4 macchine elettriche tagli e cuci;
- n. 2 macchine elettriche taglierine;
- n. 2 macchine elettriche imbastitrici;
- n. 2 tavoli per taglio;
- n. 2 tavoli da stiro industriali
- arredamenti per i posti di lavoro.
L’officina sarti operava su modelli standard con sagome predefinite per ogni taglia, a partire dalla 44, introdotta per la prima volta, fino alla taglia 58 ed oltre.
Venivano anche confezionate divise su misura per fuori taglia.
Una volta venne confezionato un camicione per un detenuto gravemente obeso, privo di indumenti idonei. Si trovava nel carcere di Reggio Emilia.
Utilizzammo allo scopo la IV^ sezione già adibita ad infermeria detenuti e che all’atto del mio ingresso alla direzione del carcere di San Gimignano era abbandonata ormai da tempo per mancanza di personale.
Venne varato un concorso per un posto di operaio specializzato sarto, che consentì a Meo di transitare all’impiego civile. Successivamente Meo venne promosso capo d’arte sarto, il massimo grado per gli operai dello Stato.
L’officina sarti fu un successo, produceva le migliori divise di cordellino e di panno, fin quando fu in attività.
Quando fu aperto il nuovo carcere in località Ranza, tutte le macchine vennero traslocate e messe in un magazzino del nuovo carcere, sottostante la cucina detenuti, dal pavimento della quale gocciolava acqua dalle linee acqua e vapore.
Risultato: tutto il materiale si arrugginì, venne messo fuori uso, venduto come materiale ferroso e praticamente buttato.
Ciò accadde nonostante il nuovo carcere prevedesse locali per lavorazioni che non vennero mai attivate.
Addirittura, tutte le macchine della falegnameria del vecchio carcere restarono lì e immagino che siano ancora lì a testimonianza di come iniziative pregevoli e degne di merito e menzione, che procuravano lavoro per i detenuti tenendoli impegnati e agendo da fattore risocializzante di rara efficace, anzi il più efficace in assoluto, possono finire a ramengo col solo fatto di cambio del direttore del carcere.
È ovvio che colpe e responsabilità sono da ascrivere per prima all’amministrazione penitenziaria, centrale e periferica, che ha omesso i necessari controlli atti ad impedire il danno derivante dalla perdita non solo di attività lavorativa ma anche di strumenti di lavoro e non ha attivato iniziative atte ad assicurare che il lavoro di tali laboratori non venisse mai a mancare.
Si preferì, invece, affidare le commesse in appalto a società private, decidendo (decisione scellerata) di appaltare per intero le divise del corpo degli agenti di custodia, poi divenuto corpo di polizia penitenziaria.
Per tutto il resto del corredo nulla quaestio, ma queste eccellenze dovevano essere non solo mantenute ma addirittura incoraggiate, invece furono abbandonate, del tutto.
Ciò è imperdonabile.
Prima di parlare dei sequestri di agenti avvenuti nel 1977, vanno date alcune altre informazioni.
La prima riguarda le sommosse per così dire ‘minori’, sempre nel carcere di San Gimignano, che, lo ricordo, fu l’ultimo dei carceri toscani a lasciare di giorno le porte delle celle aperte, eccetto quelle i cui occupanti erano al lavoro, quelle venivano tenute chiuse onde evitare furti. Solo di notte era tutto chiuso, dalle ore 24,00 alle 8,00 del giorno successivo.
Le sommosse minori avevano queste caratteristiche.
Iniziavano con ‘rumors’ che pervenivano alla custodia, che riferiva alla direzione, che allertava tutto il personale, alle ore 16,00 le celle venivano chiuse per la conta dei detenuti ed il cambio del turno di servizio, ma questa volta non venivano più riaperte. Conseguenza: proteste, i detenuti che buttavano fuori della cella, attraverso il cancelletto di sicurezza (la porta blindata non veniva chiusa), ogni genere di cose, rifiuti, generi alimentari, cibo copriva il pavimento del corridoio centrale delle due sezioni di detriti, ci si camminava letteralmente sopra. Allora si cercava di individuare i promotori che venivano trasferiti a tamburo battente. Non sempre le notizie erano veritiere, nel qual caso io rimediavo ‘a posteriori’, facendo ritornare il detenuto ingiustamente trasferito. Erano l’unico strumento per tentare di ridurre il numero delle sommesse prevendole ed era adottato in tutta l’Italia carceraria. C’era un’aliquota di detenuti perennemente in trasferimento per motivi di sicurezza.
Non avemmo altro strumento nemmeno dopo il varo dell’ordinamento penitenziario nel 1975, privo com’era dei permessi premiali (infausta scelta del legislatore).
Poi questo sistema fu abbandonato, dopo l’era Dalla Chiesa, nel corso della quale io mi affrettai a far tenere nuovamente le celle sempre chiuse. Fu abbandonato perché c’erano altri benefici accessibili, anche se non c’erano ancora i permessi premiali, per cui i facinorosi si trovarono un po’ isolati.
Per capire quale sistema escogitarono devo spiegare che i portoncini in legno del ventennio fascista erano ormai logori e inservibili. A San Gimignano c’era (e c’è tuttora) una ditta di lavorati metallici, LA MODERNINFISSI s.r.l., alla quale mi rivolsi per studiare come sostituire quegli infissi in legno con altri in metallo. Dissi che secondo me i nuovi portoncini dovevano essere un monoblocco di ferro, sul cui telaio montare i cancelletti di sicurezza (che nel vecchio sistema erano a sé, montati direttamente sul muro) e la porta tamburata.
I titolari si chiamavano Migliorini Balilla e Salvestrini Salvo, entrambi morti, il primo uno specialista anzianotto del ferro battuto, il secondo lo specialista della lavorazione del metallo presso-piegato (piegato con una pressa), la loro ditta era dotata delle macchine necessarie, soprattutto una pressa per piegare i metalli.
Elaborarono un primo modello (si rivolsero a un architetto originario di San Gimignano) che fornirono al carcere di san Gimignano ed altri, poi fu necessario un secondo modello, coperto da brevetto di invenzione industriale, molto elegante che hanno fornito a molti carceri della penisola, nonostante una feroce concorrenza. Lavorano bene e seriamente, addirittura brevettarono un tipo di serratura di sicurezza, con chiave in fusione di acciaio indistruttibile. I concorrenti, furbi, fornivano invece chiavi in ottone di rapido logoramento, che si rompevano facilmente e dovevano essere continuamente acquistate.
Il cancelletto aveva una sfinestratura per consentire di passare il cibo senza aprire la cella, la porta tamburata aveva una sfinestratura per controllare l’interno della cella senza aprire per nulla.
Ebbene, uno dei detenuti della cella interessata veniva costretto (o collaborava, ma ai fini pratici era ininfluente, come dirò dopo) a uscire dalla cella con un pretesto, a passare il braccio destro attraverso i due spioncini al compagno all’interno della cella (di norma restava da solo in cella, senza coinvolgere altri detenuti), il quale gli legava il braccio al radiatore (l’impianto di riscaldamento non esisteva e fu fatto fare da me, i radiatori erano tutti a lato dell’ingresso all’interno cella), bloccandolo. Poi iniziava la pantomima: il detenuto che animava la protesta, commettendo reato di sequestro di persona (il compagno col braccio legato al radiatore) o, al limite, quello di simulazione di reato, si faceva trovare seminudo, si agitava come un ossesso, minacciava di darsi fuoco con un flacone di alcool (come se lo procuravano ?) o di dar fuoco ai materassi o di far esplodere i ricambi dei fornelletti tipo camping gaz, tenuti legittimamente in cella.
La cella era bloccata da un ostacolo umano, non vi si poteva entrare in nessun modo, di necessità virtù bisognava cedere, il che non era difficile perché chi si era ribellato voleva al solito solo essere trasferito da San Gimignano, troppo controllato.
Fui costretto a far ostruire la sfinestratura del portoncino con una grata metallica e i sequestri ebbero termine, ma ci vollero alcuni mesi.
Intanto i due sottufficiali ‘storici’, Cappelli Mario e Perozziello Matteo, erano transitati all’impiego civile, Perozziello con le funzioni di contabile di cassa e del materiale (mancavano i ragionieri), che conservò (abitava a San Gimignano dove si era sposato) anche quando fu assegnato un secondo ragioniere, Cappelli con le funzioni di segretario prima e successivamente all’ufficio stipendi e della contabilità del materiale.
Cappelli poi mi dette la soddisfazione di attivare il primo programma computerizzato di gestione degli stipendi e delle mercedi detenuti, con i primi computer messi a disposizione dalla Olivetti, i gloriosi MD 80. In questo modo il carcere di San Gimignasno fu il primo in assoluto ad utilizzare computer e programmi di gestione.
Fu necessario acquistare una stampante ad aghi e rivolgersi ad un programmatore per i due programmi (stipendi e mercedi). Va detto che all’epoca ogni carcere provvedeva manualmente a entrambe le operazioni. Incredibile vero ? E chissà quanti errori furono commessi, mai rilevati !
Quando fu pronta la prima stampata degli stipendi Cappelli, come da consegna, prima di avviare la stampa mi chiamò e ci incantammo vedere quella macchina stampante, era rumorosa ma ritmica, il braccio che infaticabilmente percorreva il rullo di stampa su cui scorreva carta specifica ad alimentazione continua, con i bordi perforati agganciati alle due ruote dentate di trascinamento.
Quella sensazione fisica del lavoro oggi è scomparsa, nei P.C. appare una clessidra, il tutto avviene in silenzio. Non dico che non ci sia gusto, ma quel gusto, della sensazione materiale del lavoro, era diverso.
Bene, dopo avere bloccato anche lo stratagemma del braccio infiltrato nella sfinestratura del portoncino blindato non restava altro da fare che sequestrare gli agenti.
Erano gli interessati a doversi cautelare tenendo gli occhi ben aperti.
Il giorno 23 giugno 1977, un giovedì, ero in servizio di missione a Gorgona quando fui informato che a San Gimignano un agente era stato sequestrato da un detenuto, l’ispettore distrettuale dr. Guglielmo Nespoli era sul posto e reclamava il mio rientro con ogni mezzo, segno che la cosa era seria. Inoltre, San Gimignano era rimasta ferita dal sequestro del 1975 di cui dirò, lo ripeto di nuovo. in un altro capitolo.
Per mare non si poteva, non avevamo mezzi, la nave della Toremar passava il giorno successivo, la capitaneria di porto e la guardia di finanza per il mare mosso non potevano mandare propri mezzi. L’unico era un elicottero, sul quale non avevo mai volato, ma il vento non consigliava di alzare quello delle Fiamme Gialle di stanza a Pisa. Ero bloccato. Però nel primo pomeriggio calò il vento e l’elicottero arrivò. Sulla sommità dell’isola era predisposta una rampa di atterraggio-decollo. Io ero lì ad aspettare, con un vento ancora forte che prendeva d’infilata la pista e che costrinse il pilota, veramente bravo, ad atterrare controvento scendendo dal lato opposto a quello da cui era venuto, in modo da atterrare lentamente in contrasto del vento. Ballava discretamente ed io ero non poco preoccupato. Appena atterrò, il tempo necessario per salire a bordo, imbracarmi con cinture di sicurezza e partì, non c’era tempo da perdere, il rischio era che l’elicottero restasse bloccato lì.
Quando l’elicottero, che fermo sulla piazzola era un po’ al riparo dal vento, si sollevò per prendere la rotta, prese in pieno il vento che lo sollevò di una cinquantina di metri, poi il pilota riprese il controllo. Ma c’era un altro problema: mi voleva portare a Pisa e non ci fu verso, non c’era una pista dia atterraggio a San Gimignano. A Pisa vennero a prendermi con la macchina di servizio, ma quando arrivai finalmente a destinazione il sequestro, com’era prevedibile era finito, non c’era altro da fare, il detenuto voleva essere trasferito e fu trasferito.
Era stato sequestrato l’agente infermiere, entrato in cella per praticare la terapia e lì fu bloccato. La definizione di ‘agente infermiere’ non tragga in inganno, non era affatto un infermiere, né professionale e nemmeno generico, era un agente anzianotto che distribuiva i farmaci ed assisteva il medico tenendo in ordine infermeria a farmacia, anche dal punto di vista amministrativo.
Si chiamava PESCIAROLI Renzo, era un appuntato, oggi scomparso.
Il sequestratore ero un zingaro di etnìa slava, si chiamava ZAGOMIR PETROVIC, un soggetto pericolosissimo di cui poco o nulla si sapeva, fisicamente molto forte.
Questo individuo legò Pesciaroli al suo letto in cella, mani e gambe, picchiandolo selvaggiamente sulle tibie con una spranga di ferro divelta dal suo stesso letto e ferendolo leggermente con una coltellata al fianco destro.
Pesciaroli uscì molto provato da quella terribile esperienza, dalla quale non si riprese mai del tutto. Non aveva avuto fratture, solo ferite superficiali, segno che il Petrovic sapeva come fare a procurare solo dolore ma non danni gravi.
Ventiquattrore dopo, avevamo appena tirato il fiato, er a casa mia nell’alloggio di servizio nuovo, quando mi informarono che era in atto un secondo sequestro di personale, questa volta gli agenti erano tre: l’app. Lucio Della Corte, l’ag. Sirianni e l’ag. Galuppi Franco.
Era il 25 giugno 1977, sabato sera. L’episodio si risolse la domenica sera successiva, il timore era che le violenze innescata dal quel troglodita di Petrovic si ripetessero, ma non accadde. C’era un detenuto che faceva da tramite, del quale mi fidavo, gli dissi di riferire che se solo avessi avuto il sospetto di violenze contro i miei agenti, avrei autorizzato l’ingresso di miei uomini armati (il nuovo ordinamento dava questa prerogativa esclusiva al direttore) per sbloccare la situazione e che avrei comandato uomini dal grilletto facile. Il dr. Nespoli mi sentì mentre lo dicevo e non ebbe nulla da eccepire, il pericolo era concreto perché il personale non ne poteva più, letteralmente.
Un po’ di parlamentare, ebbero garanzie, che furono rispettate, gli agenti furono rilasciati, non era stato questa volta torto loro un capello, ma erano molto scossi e provati.
Tuttavia, nessuno entrò in malattia, allora non c’era bisogno di un ministro Brunetta. Però ne portarono le ferite psicologiche a lungo.
(continua)


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