lunedì 29 dicembre 2008

Calvario democratico

L'ESPRESSO
PIERO IGNAZI

Per un nuovo inizio del Pd serviva un gesto forte: l'offerta di dimissioni da parte di Veltroni

Di nuovi inizi sono lastricate le strade del declino. Il Partito democratico vi si è incamminato con passo leggero e irresponsabile. Non sembra rendersi conto della gravità della situazione. Tra la manifestazione del 25 ottobre e la vittoria elettorale in Trentino (peraltro assai poco valorizzata e immediatamente dimenticata in tutti i commenti) il Pd ha vissuto una fase di rilancio. Una boccata di ossigeno per un partito messo alle strette dalla pessima gestione della sconfitta elettorale: provincialismo, rancori interni e fragilità nervosa si erano fusi a creare un impasto micidiale di svalorizzazione del risultato ottenuto e di sfiducia nella leadership. Come se il patrimonio di un terzo dei voti fosse una misera cosa e, in Italia o in Europa, la sinistra avesse sempre veleggiato ben al di sopra di questa cifra. Tutto ciò ha prodotto l'ingabbiamento progressivo del segretario in una rete di delegittimazione. Ruolo dal quale Walter Veltroni non è riuscito a uscire nemmeno con la grande manifestazione di Roma. Un discorso piatto di fronte a una folla entusiasta e un'azione politica senza fantasia né rigore nelle settimane successive, fino al travaso di bile prodotto, com'era destino, dall'epatologo Riccardo Villari. E infine la mazzata degli arresti a raffica.

Invocare la moralità dei 'compagni di un tempo' come qualcuno ha fatto con riflesso pavloviano non ha molto senso per il semplice fatto che il Pd non è la continuazione del Pci-Pds-Ds, ma un partito in cui sono confluiti esponenti della Margherita i cui percorsi politici, al di là del nocciolo duro degli ex Ppi, sono stati i più fantasiosi, senza una adeguata socializzazione politica all'interno di un partito strutturato. Del resto, all'epoca veniva teorizzato che la Margherita non dovesse essere altro che un traghetto verso il grande partito dell'Ulivo e quindi verifica di curriculum e selezione interna erano viste come quisquilie o, peggio, forche caudine da vecchio partito. Senza un partito forte, i cacicchi prosperano.

"L'amalgama non è riuscito", ha sentenziato Massimo D'Alema alla prima vera direzione del partito dove, finalmente, si è incominciato a discutere (riconoscendo che quello è 'il luogo' della politica democrat). Bella scoperta quella di D'Alema, come se potesse riuscire la maionese con lo strutto al posto dell'olio. Gli ingredienti del Pd non si sono 'contaminati' in una nuova cultura politica come i più ottimisti auspicavano, recitando un atto di fede più che articolando una riflessione. Perché non si dà nuova identità senza un progetto politico-ideale forte, alto, evocativo e, soprattutto, senza sostegno convinto da parte del gruppo dirigente. Sono queste le due irrinunciabili condizioni per effettuare cambiamenti veri e farli accettare sia ai vecchi militanti che ai nuovi adepti. Queste condizioni continuano a mancare drammaticamente nel Pd.

C'è però anche un'altra strada per imporre il rinnovamento. Il cambio radicale della classe dirigente. L'Spd di Willy Brandt, il Ps di François Mitterrand e il Labour di Tony Blair dimostrano che i 'nuovi inizi' necessitano di leadership collettive rinnovate in profondità, non di un uomo solo al comando.

Per il Pd non si tratta tanto di una questione generazionale - e quello dei giovani è ormai uno stucchevole leit-motiv ad usum bamboccioni - quanto piuttosto del rapporto centro-periferia. La forza del Pd, soprattutto nella componente ex diessina, sta proprio nel governo delle città, delle provincie e delle regioni. La qualità politica di tanti dirigenti locali - ed è ridicolo pensare che dieci inchieste annullino migliaia di buone amministrazioni - è più che sufficiente per ritemprare un partito sfibrato, esausto. Solo coloro che hanno dimostrato esperienza e capacità a contatto con le realtà locali, affrontando i problemi quotidiani della vita dei cittadini, e allo stesso tempo sono estranei ai 'giochi romani', possono produrre (probabilmente) un migliore amalgama e (certamente) una migliore gestione politica.

Il nuovo inizio evocato da Veltroni sembra invece ridursi a un pio desiderio, fatto per consolare e illudere, reso credibile da una unità emergenziale. Invece, solo un gesto drammatico, eroico, come l'offerta delle sue dimissioni avrebbe rimesso tutto in gioco: per un vero nuovo inizio. Adesso si dovrà aspettare il risultato delle europee per rifare gli stessi discorsi, e magari attuare ciò che non è stato fatto adesso. La crisi di identità e di convinzione, all'interno come all'esterno del partito, non si risolve aspettando. Ma iniziando davvero.

(24 dicembre 2008)

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Giudizio totalmente negativo su Veltroni, il PD e gli attuali maggiorenti del partito.
Sono d'accordo.