7/12/2008
LUCIA ANNUNZIATA
E se fosse proprio Di Pietro il leader che gli elettori del Pd vorrebbero? Domanda provocatoria, ma necessaria per provare a uscire dalla ripetitività della discussione interna al Pd. Al voto in Abruzzo il Pd (in tutte le sue componenti) ha risposto con la lettura di sempre - il dualismo Veltroni-D’Alema, il nuovo contro il vecchio, la necessità di fare piazza pulita della vecchia guardia - e con lo stesso dilemma dell’ultimo anno: rompere o no con Di Pietro? Se è tutto quello che il centro sinistra riesce a dire sul proprio declino, ha davanti una sola possibile conclusione: la rottura. Fra Pd e Di Pietro, e\o dentro il Pd fra dalemiani e veltroniani, ma anche fra ex popolari ed ex Ds, e fra rutelliani ed ex popolari. Una spaccatura in un organismo così fragile scuoterebbe come un terremoto tutti gli equilibri che ora rimangono a stento in piedi.
La vittoria di Di Pietro in Abruzzo, parte di una veloce crescita del suo partito, andrebbe forse guardata non solo come una «reazione» a qualcosa che il Pd non fa, ma anche come un’indicazione su quello che la base vorrebbe che facesse. L’ex magistrato sta costruendo la sua base nazionale su un paio di temi, non di più, che hanno molta risonanza nel Paese: la giustizia e la critica alla classe dirigente. È difficile non guardare a queste due questioni (Abruzzo docet) intrecciate. L’astensionismo - il dato maggiore del voto di due giorni fa, ma che di fatto dissangua il centro sinistra da tempo - cos’altro è se non un voto di sfiducia nel Pd proprio a causa della questione morale? In fondo, un identico giudizio d’inadeguatezza etica ha fatto crollare il consenso ai partiti della sinistra estrema quando i loro rappresentanti erano al governo.
Se questo è il senso dell’astensionismo, evidentemente Di Pietro è l’unico politico che, direttamente e indirettamente, appare circondato da approvazione. Perché l’unico di tutta la classe dirigente considerato al di sopra di ogni questione «morale»: sia colpa giudiziaria o responsabilità di consociativismo politico o anche solo di eccessiva integrazione nel sistema.
Il fenomeno Di Pietro appare così, in questa luce, come l’unico vero erede di quella rivolta che mesi fa venne chiamata l’antipolitica. Si disse allora che il fenomeno era contro tutta la classe politica, ma nella sostanza si è rivelato quasi esclusivamente scagliato contro il centro sinistra. Quelle critiche costituivano una richiesta di coerenza in particolare alle forze politiche che della questione morale avevano fatto una bandiera, un loro segno di «diversità». In questo senso, l’antipolitica, morta nelle sue forme più folkloristiche, non solo non è mai finita ma si è ben radicata nella coscienza profonda della sinistra, diventando richiesta più complessa. Al di là dell’attacco alle furbizie della casta e dell’omaggio alle procure, in quella protesta si è riversata e sedimentata tutta la domanda di ristabilire una vera giustizia sociale. Giustizia richiesta in varie forme: dal rispetto dei deboli nelle questioni economiche all’affermazione di meritocrazia sociale contro i privilegi dei pochi, alla riscoperta dello spirito di servizio da parte della politica.
Contro l’antipolitica s’infranse il governo Prodi. Grazie allo scontento della base Pd ha avuto la sua rivincita Berlusconi, e per rispondere al malessere espresso da quel movimento è nato il «rinnovamento» di Veltroni. Ma l’aspetto drammatico delle vicende di oggi è che nulla di quello che il Pd ha fatto appare ancora sufficiente a recuperare la fiducia della base. Di questo si fa forte Di Pietro: della sua fedeltà ai magistrati, dei suoi modi e apparenze da leader totalmente fuori dalle modalità della classe dirigente, con la sua parlata grezza, le semplificazioni, i pronunciamenti senza mediazioni. E a questo deve stare attento il Pd: l’ex magistrato è un leader che il popolo della sinistra può condividere o meno, ma che capisce meglio di quanto capisca tutti loro.
Più che litigare su come liberarsene (o su come liberarsi dei propri nemici con la scusa di Di Pietro), i dirigenti del Partito democratico farebbero bene a chiarire innazitutto a se stessi cosa intendono fare sui temi che Di Pietro rappresenta. Ad esempio, ci sono pochi dubbi che sulla giustizia l’elettorato Pd appare molto più intransigente dei suoi leaders. È un problema reale di differenza: ma in ogni caso è molto meglio che il centro sinistra dica immediatamente un sì o un no alla riforma, senza manovre per prendere tempo, come la commissione di 60 giorni. Lo stesso vale per la questione morale: il Pd può difendere i suoi dirigenti o può aprire bocca e sostituire chi vuole, ma non restare nel limbo dell’indecisione. Nell’ormai molto attesa riunione di venerdì in cui la direzione del Pd dovrebbe affrontare un «chiarimento», basterebbe forse fare chiarezza su questi due punti.
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