martedì 16 dicembre 2008

Il fascista gli sparò e lui si finse morto

LA REPUBBLICA
di GIORGIO BOCCA


Abbiamo avuto fra noi, a Repubblica, un principe, un vero principe alto e bello, un Caracciolo di nome Carlo. Per uno arrivato come me dalle valli del Cuneese, dalle città di pietra con le vie a curva per evitare il vento gelido di tramontana, con i bastioni e le case fortezza, il principe Carlo era la grazia e la nobiltà, per lui naturali, per noi allobrogi qualità invidiate e impossibili. Stupiva in lui la capacità di rimanere se stesso, gran signore, in mezzo alla volgarità della gente che in un mestiere come quello di editore di giornali si incontra ad ogni passo.

Ricordo una sera romana che mi invitò in una villa sull'Appia antica in cui era convalescente. La cena squisita era stata preparata da un suo cuoco egiziano. Carlo aspettava una visita che arrivò dopo cena. Un romano della Garbatella, corpulento, facondo, fascista del tipo aggressivo e festoso, che subito cominciò a rievocare il Testone, il Duce, a sproposito: con due come noi di cui ignorava i gusti politici. Io mi feci più piccolo al riparo della poltrona e guardai Carlo, il principe, per vedere come un principe si comportava di fronte a quella rumorosa irruzione di volgarità. Il principe sorrideva, da una sua divertita lontananza, e ogni tanto mi faceva un gesto come a dire: vedi come è divertente la vita; vedi che tipi si incontrano se si è un editore e bisogna trovare uno che pensa a farti la pubblicità nei cinematografi e sui tram; vedi noi due partigiani che ridiamo ascoltando questo bestione. Se lo mettessi a tacere me ne farei un nemico. Meglio ascoltarlo e sorridere.

Con gli ex partigiani non si parla della guerra partigiana, la si dà per intesa e per presente finché avremo vita e memoria. Della guerra partigiana di Carlo ho saputo da un libro di Nello Ajello. Carlo, lui, fece il partigiano in val Cannobina, una valle laterale dell'Ossola, dalle parti del lago Maggiore. Il grande partigiano dell'Ossola era Moscatelli. Carlo era invece con Frassati e Arca, due ufficiali monarchici. Le memorie partigiane di Carlo sono nel suo stile di vita, di uomo che non drammatizza, che in qualche modo sa di essere fortunato e privilegiato. "Ho subito un solo interrogatorio nel corso del quale un fascista, dopo avermi malmenato, ha tirato fuori la rivoltella e mi ha sparato. Io ho avuto per un istante la sensazione di essere stato colpito. Comunque ho finto di essere morto. Stavo con gli occhi chiusi. Lui mi diede un ultimo calcio e se ne andò".

Come editore, ho conosciuto Caracciolo quando Scalfari mi chiese di tenere una rubrica sull'Espresso. Mi invitò nelle sue case di Roma e nella villa di campagna a Capalbio quando cominciò la nostra avventura con Repubblica. Quando Repubblica uscì, la linea politica era genericamente quella del partito socialista di De Martino. I comunisti non ci erano ostili ma non ci prendevano sul serio. Giancarlo Pajetta ci chiamava quelli "della repubblichina" per dire che avremmo fatto la stessa fine di quelli di Salò. Ma Caracciolo e Scalfari erano uomini di grandi qualità editoriali, capirono che l'area liberalsocialista non era abbastanza grande e disponibile per un giornale nuovo e quando, dopo un anno, il giornale arrivò alle centomila copie e divenne un organo prezioso per la politica, i rapporti col Pci divennero sempre più amichevoli. Allora non ero d'accordo sulla nuova linea.

Continuavo a pensare da giellista, da liberalsocialista e non nascondevo il mio disappunto con i due editori Caracciolo e Scalfari. E di nuovo conobbi le qualità diplomatiche, per non dire semplicemente umane, di Carlo. Mi ascoltava e mi rassicurava, mi faceva semplicemente capire che di lui potevo fidarmi, che la rotta politica del giornale non sarebbe mai uscita dalla via maestra della democrazia, dell'antifascismo. Questo patto tra amici che si fidano non è venuto mai meno, anzi in me, nonostante la grande crescita del giornale e i mutamenti di proprietà, l'idea che i nostri veri editori fossero Carlo e Eugenio e non altri non è mai cambiata.

Questo forte convincimento resisteva al fatto presente e innegabile che la proprietà del giornale era per metà della Mondadori e che era stato Giorgio Mondadori a firmarmi il contratto di assunzione. Anche quando Piero Ottone, allora uomo Mondadori, entrò nel Consiglio di amministrazione, non pensai che avesse veramente il comando, pensai che i miei editori restavano Caracciolo e Scalfari. Credevamo, e lo abbiamo creduto per molti anni, di essere una sorta di cooperativa autonoma con quei due editori che ci eravamo liberamente scelti. Non capimmo neppure che era lo stesso successo di Repubblica, la sua crescita impetuosa, il suo gigantismo, a portarci al redde rationem proprietario.

Eppure è andata proprio così la grande avventura editoriale di Repubblica, la nascita di un quotidiano diverso destinato a segnare il corso del giornalismo italiano è stata vissuta da noi come una storia di amicizia e di fedeltà in cui il principe restava come il garante indiscutibile, come il personaggio chiave, sicuro della sua nobiltà, della sua signorilità. Il nostro fraterno protettore.

(16 dicembre 2008)

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