di MASSIMO GIANNINI
IL SALUTO di fine anno che Giorgio Napolitano ha rivolto alle Alte Cariche della Repubblica, questa volta, è molto più della rituale "predica inutile" al ceto politico.
Il Capo dello Stato detta alla maggioranza e all'opposizione il suo decalogo per la riforma della giustizia. Per la prima volta non parla solo del metodo, ma entra anche nel merito. Indica puntigliosamente non solo i principi generali, ma anche i correttivi particolari da apportare alla giurisdizione, e persino alla Costituzione.
La discesa in campo del presidente della Repubblica, con quello che potremmo definire un vero e proprio "Lodo Napolitano", dà la misura della gravità del momento. La questione morale sta assumendo i contorni di uno sconquasso istituzionale. Tra il fragore delle inchieste che travolgono le amministrazioni locali di mezza Italia, e il tintinnio di manette che risuona da Napoli a Potenza, si materializza il peggiore degli incubi. Un'altra Tangentopoli, confusa e molecolare. E un'altra Mani Pulite, diffusa e muscolare.
Il Capo dello Stato, nell'irritualità del suo intervento, si muove sull'onda di questa emergenza. Con tutte le giustificazioni, ma anche tutti i pericoli del caso. Forse per la prima volta, nella "dottrina" del Quirinale, al pur richiamato "diritto dei cittadini" ad una giustizia giusta e al pur riconfermato valore dell'"efficienza di uno Stato fondato sull'imperio della legge", il Capo dello Stato risponde con una "piattaforma programmatica" che sembra rispondere ad altre priorità.
Non è affatto scontato sentire il presidente della Repubblica che, all'indomani della "retata" disposta dalla Procura di Napoli contro imprenditori e assessori della giunta Iervolino, sottolinea "con urgenza" i problemi "di equilibrio istituzionale nei rapporti tra politica e magistratura", e invoca "misure di riforma volte a scongiurare eccessi di discrezionalità, rischi di arbitrio e conflitti interni" nell'esercizio della funzione giudiziaria, "a cominciare dalla funzione inquirente e requirente".
Non è affatto scontato sentire il presidente della Repubblica che, all'indomani dallo scontro fratricida tra le procure di Salerno e Catanzaro sul caso De Magistris, chiede misure di riforma "che riguardino anche la migliore individuazione e il più corretto assolvimento dei compiti assegnati al Csm dalla Carta costituzionale". Che rafforzino il "richiamo" ai rigorosi criteri di comportamento, "come quelli relativi al riconoscimento effettivo dei poteri spettanti ai capi degli uffici". Che ripristinino quei "limiti da osservare - e troppo spesso violati - nella motivazione dei provvedimenti giudiziari", o più semplicemente quelli attinenti a "un costume di serenità, riservatezza ed equilibrio", da non sacrificare mai "per missioni improprie" o per "smanie di protagonismo".
Non è affatto scontato sentire il presidente della Repubblica che, nel sostenere l'impegno incessante delle forze dell'ordine e della magistratura contro la criminalità e la corruzione, invoca una migliore definizione "dei rispettivi ruoli e delle necessarie sinergie". Ciascuno di questi specifici problemi, teoricamente, riflette effettivi punti di debolezza del nostro sistema. Ma poi vanno risolti, concretamente, nella dinamica di una possibile riforma. E qui possono nascere problemi complessi.
Come si riequilibrano i rapporti istituzionali tra magistratura e politica? Facendo eleggere i pm, o riportandoli sotto il controllo del governo? E come si adempie al più corretto assolvimento dei compiti assegnati al Consiglio superiore della magistratura dalla Costituzione? Modificando la medesima e magari separando le carriere attraverso la creazione di due distinti Csm? E come si definiscono meglio i ruoli tra forze dell'ordine e magistratura? Sottraendo la polizia giudiziaria alla dipendenza dei pubblici ministeri?
L'impressione è che il "Lodo Napolitano", nato e dettato dall'emergenza, possa rappresentare una svolta. E' un fatto che il Pdl e il Pd (ugualmente colpiti dall'azione concentrica delle toghe) abbiano accolto l'intervento del presidente della Repubblica con un giudizio quasi unanime. "Condivido parola per parola" è la formula che accomuna tutti, da Angelino Alfano ad Anna Finocchiaro. E' una grande opportunità: una riforma bipartisan sulla giustizia potrebbe aprire una fase politica nuova nei rapporti tra i due schieramenti. Ma è anche un grande rischio: le tentazioni del Cavaliere, nella sua guerra privata alle toghe, sono imprevedibili. E purtroppo inesauribili.
(18 dicembre 2008)
Il Capo dello Stato detta alla maggioranza e all'opposizione il suo decalogo per la riforma della giustizia. Per la prima volta non parla solo del metodo, ma entra anche nel merito. Indica puntigliosamente non solo i principi generali, ma anche i correttivi particolari da apportare alla giurisdizione, e persino alla Costituzione.
La discesa in campo del presidente della Repubblica, con quello che potremmo definire un vero e proprio "Lodo Napolitano", dà la misura della gravità del momento. La questione morale sta assumendo i contorni di uno sconquasso istituzionale. Tra il fragore delle inchieste che travolgono le amministrazioni locali di mezza Italia, e il tintinnio di manette che risuona da Napoli a Potenza, si materializza il peggiore degli incubi. Un'altra Tangentopoli, confusa e molecolare. E un'altra Mani Pulite, diffusa e muscolare.
Il Capo dello Stato, nell'irritualità del suo intervento, si muove sull'onda di questa emergenza. Con tutte le giustificazioni, ma anche tutti i pericoli del caso. Forse per la prima volta, nella "dottrina" del Quirinale, al pur richiamato "diritto dei cittadini" ad una giustizia giusta e al pur riconfermato valore dell'"efficienza di uno Stato fondato sull'imperio della legge", il Capo dello Stato risponde con una "piattaforma programmatica" che sembra rispondere ad altre priorità.
Non è affatto scontato sentire il presidente della Repubblica che, all'indomani della "retata" disposta dalla Procura di Napoli contro imprenditori e assessori della giunta Iervolino, sottolinea "con urgenza" i problemi "di equilibrio istituzionale nei rapporti tra politica e magistratura", e invoca "misure di riforma volte a scongiurare eccessi di discrezionalità, rischi di arbitrio e conflitti interni" nell'esercizio della funzione giudiziaria, "a cominciare dalla funzione inquirente e requirente".
Non è affatto scontato sentire il presidente della Repubblica che, all'indomani dallo scontro fratricida tra le procure di Salerno e Catanzaro sul caso De Magistris, chiede misure di riforma "che riguardino anche la migliore individuazione e il più corretto assolvimento dei compiti assegnati al Csm dalla Carta costituzionale". Che rafforzino il "richiamo" ai rigorosi criteri di comportamento, "come quelli relativi al riconoscimento effettivo dei poteri spettanti ai capi degli uffici". Che ripristinino quei "limiti da osservare - e troppo spesso violati - nella motivazione dei provvedimenti giudiziari", o più semplicemente quelli attinenti a "un costume di serenità, riservatezza ed equilibrio", da non sacrificare mai "per missioni improprie" o per "smanie di protagonismo".
Non è affatto scontato sentire il presidente della Repubblica che, nel sostenere l'impegno incessante delle forze dell'ordine e della magistratura contro la criminalità e la corruzione, invoca una migliore definizione "dei rispettivi ruoli e delle necessarie sinergie". Ciascuno di questi specifici problemi, teoricamente, riflette effettivi punti di debolezza del nostro sistema. Ma poi vanno risolti, concretamente, nella dinamica di una possibile riforma. E qui possono nascere problemi complessi.
Come si riequilibrano i rapporti istituzionali tra magistratura e politica? Facendo eleggere i pm, o riportandoli sotto il controllo del governo? E come si adempie al più corretto assolvimento dei compiti assegnati al Consiglio superiore della magistratura dalla Costituzione? Modificando la medesima e magari separando le carriere attraverso la creazione di due distinti Csm? E come si definiscono meglio i ruoli tra forze dell'ordine e magistratura? Sottraendo la polizia giudiziaria alla dipendenza dei pubblici ministeri?
L'impressione è che il "Lodo Napolitano", nato e dettato dall'emergenza, possa rappresentare una svolta. E' un fatto che il Pdl e il Pd (ugualmente colpiti dall'azione concentrica delle toghe) abbiano accolto l'intervento del presidente della Repubblica con un giudizio quasi unanime. "Condivido parola per parola" è la formula che accomuna tutti, da Angelino Alfano ad Anna Finocchiaro. E' una grande opportunità: una riforma bipartisan sulla giustizia potrebbe aprire una fase politica nuova nei rapporti tra i due schieramenti. Ma è anche un grande rischio: le tentazioni del Cavaliere, nella sua guerra privata alle toghe, sono imprevedibili. E purtroppo inesauribili.
(18 dicembre 2008)
1 commento:
Il presidente si sta muovendo su un terreno minato, le intenzioni e le azioni di Berlusconi sono imperscrutabili ed imprevedibili.
Non vorrei che Napolitano dovesse avere a pentirsene: perchè sarebbe già troppo tardi.
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