sabato 13 dicembre 2008

IL CLIMA

LA STAMPA
MARIO DEAGLIO
13 DICEMBRE 2008

Nel pomeriggio di ieri è sembrato a tutti che per un momento il mondo andasse a rovescio.
Gli europei, tradizionalmente indecisi e litigiosi, avevano raggiunto un accordo sia sul clima, argomento sul quale si era sfiorata la rottura la vigilia, sia su un grande piano di stimolo dell’economia, sia infine su un nuovo referendum irlandese destinato, secondo le speranze di tutti, a ribaltare le conseguenze negative del precedente «no» di Dublino al Trattato di Lisbona e adottare così una sorta di surrogato della mancante Costituzione europea.

Nelle stesse ore gli americani, tradizionalmente compatti nelle grandi emergenze, avevano visto il Senato silurare gli aiuti all’industria dell’auto facendo sorgere lo spettro di milioni di ulteriori disoccupati, e Presidente in uscita, che ormai dovrebbe solo più preoccuparsi di salutare, cogliere tutti di sorpresa con l’idea di «dribblare» il voto parlamentare dirottando verso i colossi automobilistici in crisi una parte dei fondi già previsti per il salvataggio dei colossi della finanza.

Sull’accordo climatico l’Europa non è andata leggera con la retorica e l’autocompiacimento. Il Presidente francese, e Presidente europeo pro tempore, ha parlato di «momento storico», il Presidente della Commissione lo ha definito «il più ambizioso del mondo» e molto si è giocato sullo slogan del «20x20x20 entro il 2020» (ossia la riduzione del 20 per cento delle emissioni di gas serra, l’aumento del 20 per cento dell’efficienza energetica, e il conseguimento del 20 per cento dell’energia prodotta da fonti alternative) quasi avesse un significato cabalistico.

Se però si guarda nelle pieghe di questo accordo si scopre che ci sono «concessioni», «deroghe», «clausole di revisione» che pongono in posizioni particolari le industrie italiane, numerosi settori industriali tedeschi, il carbone polacco e che sono state il prezzo del voto all’unanimità, in un contesto di complicazioni e cavilli che costituisce purtroppo la normale realtà dell’Europa di Bruxelles. Il principio che le imprese devono pagare per l’inquinamento che producono è al tempo stesso riaffermato e indebolito da una serie di limitazioni e di eccezioni. In questo senso il presidente del Consiglio italiano può essere sicuramente soddisfatto, da politico attento ai risultati di breve periodo, in quanto ha giocato abilmente, ha raggiunto i suoi obiettivi e ha risposto alle attese immediate di un’industria già in difficoltà; l’Europa va probabilmente verso un disinquinamento abbastanza radicale ma con velocità diverse e con scarsa trasparenza; ed è scontato il giudizio negativo delle associazioni ecologiste mondiali, alle quali si uniscono numerosi scienziati, per i quali le misure non bastano ad arrestare il surriscaldamento del pianeta.

Lo stesso contrasto tra una facciata smagliante e una realtà meno edificante si registra per il referendum irlandese (per la sua ripetizione è stato pagato un prezzo pesante, ossia il diritto per i piccoli Paesi di continuare ad avere un commissario ciascuno) e soprattutto per il «piano di rilancio». Definito «ambizioso e coordinato» dal primo ministro inglese, in realtà non è né una cosa né l’altra; si tratta semplicemente delle misure concordate già più di due settimane fa a Bruxelles. In questi quindici giorni l’orizzonte congiunturale europeo si è vistosamente appesantito e le misure sono rimaste le stesse, anche se riverniciate perché abbiano l’aspetto di un piano mentre in realtà si tratta di poco più di una giustapposizione-armonizzazione di programmi nazionali in cui sono state inserite numerose misure già previste prima.

Quella che poteva essere una medicina complessivamente sufficiente basterà così solo ad attenuare i guasti della recessione. La difesa della congiuntura europea avrebbe richiesto più coraggio: il coraggio di sforare più decisamente, e sia pure temporaneamente e sempre in maniera controllata, i «tetti» che ingabbiano l’Europa per sostenere la spesa per consumi nell’inverno che sta per cominciare e il coraggio di impostare la ripresa a più lungo periodo attorno a finanziamenti comunitari per le infrastrutture e altri programmi di medio-lungo periodo in cui ciascun Paese membro avrebbe dovuto accettare di trovarsi - magari solo temporaneamente - nella posizione di finanziare investimenti di altri Paesi membri. Questa prospettiva si è scontrata con la ristrettezza di orizzonti di alcuni Paesi, prima tra tutti la Germania, tra l’altro ancora traumatizzata dal ricordo della grande inflazione di ottant’anni fa.

Mentre i capi di Stato e di governo europei tornavano a casa a festeggiare un Natale di recessione, il conflitto istituzionale americano rianimava le Borse di New York che recuperavano una parte del terreno perduto oscillando tra -0,5 e +0,2 per cento; quelle europee chiudevano con perdite generalmente comprese tra -2 e -3 per cento. Ci si chiede spesso perché, nelle ultime settimane, mentre la caduta produttiva degli Stati Uniti si fa più dura, le perdite delle Borse europee siano maggiori di quelle americane. Ciò che è avvenuto nella giornata di ieri può costituire una, sia pur parziale, e certo non esaltante, spiegazione.

mario.deaglio@unito.it

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