Il nuovo lo fa senza arroganza, ma sapendo di essere il depositario di attese enormi. Il vecchio lo fa senza pentimenti, ma con la coscienza di essere stato colui che ci ha ingannato, ingannandosi, credendo che i suoi "valori" potessero essere affermati attraverso il disvalore della violenza unilaterale.
Il primo dicembre di Bush e di Obama - l'ultimo mese di regno completo per colui che se ne va - è come l'incontro di due navi che si incrociano seguendo rotte opposte, una verso l'alba, l'altra verso il tramonto, in questo oceano di storia perennemente in agitazione che è l'America.
Mentre colui che si era illuso di cambiare il mondo riconosce di essersi terribilmente sbagliato a fidarsi dei propri cortigiani, e delle informazioni che un'intelligence piegata all'ideologia forniva falsamente, e a credere per primo ai loro allucinati teoremi sull'Iraq e le sue armi orribili, l'altro che ieri ha assorbito nella propria squadra di governo la ex grande avversaria Hillary da oggi al suo servizio, ammette che neppure gli Stati Uniti sono onnipotenti e anche i grandi "hanno bisogno del mondo".
Cioè dei più piccoli, per essere tali. E questa, non le tattiche, le scelte dei ministri, le risposte imprevedibili alle crisi imprevedibili che verranno, è la differenza sostanziale fra la nave che salpa per sempre e quella che arriva.
Sono le due facce opposte dello stesso idealismo americano che nei secoli della storia abbiamo visto, amato o avversato, ma che restano inseparabili. Barack Obama è il figlio del mondo che ancora vuole guardare agli Stati Uniti come riferimento e ispirazione, sentimenti mai tanto veri come in queste settimane di euforia globale e probabilmente eccessiva per la sua vittoria. E' colui che nei propri discorsi elettorali ripeté più volte che la forza dell'America non viene dai suoi arsenali, ma dalla potenza delle idee, che ora anche lui incarna.
George W. Bush, lo sconfitto, è il volto opposto eppure integrale di una nazione che fraintende a volte l'estensione del proprio potere militare con l'estensione della democrazia, e che mai, come nelle ore tragiche del dopo 11 settembre si era fatta sedurre dalle sirene dell'ideologia e della realtà asservita alle dottrine e al catechismo.
"Me ne vado a testa alta nella convinzione dei miei valori e nella certezza di avere cercato di liberare 50 milioni di persone" ha detto ieri Bush nella penombra di interviste d'addio, mentre i riflettori erano sparati sul successore che annunciata la squadra di coloro che dovranno guidare in pratica la politica estera e la strategia americana ai suoi ordini. "Ma il mio più grande rammarico è avere creduto all'intelligence sulle armi di Saddam Hussein".
Se è un po' tardi per rendersene conto e per capire che nella propria evidente "impreparazione" (l'espressione è sua) a tanto impegno era caduto preda dei manipolatori che lo circondavano, la sua concessione di fallibilità - purtroppo a posteriori - è in fondo la stessa ammissione che spinge il successore a parlare di "speranze", non di certezze e confessare che anche Dio ha bisogno degli uomini, o delle donne, per avverare la propria presenza.
E' quell'antica e classica scoperta dei limiti della potenza, anche quando è superpotenza, che altri inquilini della Casa Bianca prima di loro avevano ignorato per propria e altri disgrazia e che non significa ritirata o abdicazione dalle responsabilità, ma semplice, intelligente realismo.
Una ammissione preventiva, e fortunatamente pacifica, quella di Obama, che si è tradotta nella cooptazione degli ex clintoniani in massa, guidati proprio da colei che da aspirante padrona ha accettato di farsi serva nobile dell'eletto (con nove milioni di voti di maggioranza sull'avversario) dalla nazione e accompagnata dalla riconferma di superstiti dell'amministrazione Bush, come il ministro della difesa Gates, o di altri servitori dello stato sotto l'uniforme, come l'ex generale Jones, già prediletto dal padre di George W.
Anche in questa formazione, che all'apparenza sembra una "squadra di rivali" e promette zuffe in quello che calcisticamente si chiamerebbe "lo spogliatoio" del potere, ci sono insieme la continuità e la rottura con il passato.
Nella senatrice Clinton, che già votò per l'invasione dell'Iraq prima di pentirsene, in Robert Gates, ragionevole e raziocinante successore del pupillo dei neocon poi scaricato, Rummy Rumsfeld, come nel generale Jones c'è la riaffermazione del nocciolo duro della strategia americana dietro la superficie morbida e vellutata del futuro presidente. Ma c'è anche la affermazione esplicita che Obama non ha voluto circondarsi di anziani badanti e di yes men come fece George W, troppo insicuro di sé per avere il coraggio di sentirsi contraddire, troppo debole per avere il coraggio di dire "no", come Kennedy seppe dire nel 1962 a chi lo implorava di invadere Cuba.
La speranza, che le nomine e le parole di Barack Obama, costretto a ereditare i nidi di vipere smossi e creati dal predecessore come Guantanamo, tengono viva nonostante i piagnistei di una sinistra che aveva comicamente creduto alla propaganda della destra sul "radicalismo estremista" del democratico, è che egli sappia accettare il dubbio. Che sappia ascoltare il mondo, prima di decidere, e resistere alle sirene delle armi - usandole davvero e soltanto come "ultima ratio" - prima di dover ammettere malinconicamente, a storia ormai scritta, di essere il baro che imbrogliò sé stesso.
1 commento:
Che differenza di stile fra il vuoto George W. e Obama !
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