17/12/2008
FABIO MARTINI
Ci ha pensato due giorni e alfine si è deciso al gran passo: amici e compagni si svolta verso il «nuovismo». Alla quarta sconfitta elettorale in nove mesi - Politiche, Regionali siciliane, Roma, Abruzzo - Walter Veltroni è giunto alla conclusione che, per spezzare la crescente apatia del suo elettorato, è ora di lanciare all’opinione pubblica un messaggio più forte del solito: «Il risultato in Abruzzo è stato particolarmente negativo, va guardato in faccia: ogni volta che il vecchio si aggrappa ai nostri piedi, paghiamo un prezzo», ha spiegato il leader del Pd all’assemblea dei deputati durante l’ora di pranzo e poi, nelle chiacchierate informali con lo staff più ristretto, è stato più esplicito: «Trovo sbagliato quel malefico approccio politicista secondo il quale noi finiamo per pagare l’alleanza con questo o la mancata alleanza con quell’altro. La verità è che quando ci presentiamo come qualcosa di nuovo, veniamo premiati. Per questo è arrivato il momento di imporre un profondo rinnovamento di tutta la classe dirigente locale e nazionale».
Facile a pensarsi, abbastanza facile a dirsi, più complicato a realizzarsi. Ma se davanti alla decisiva Direzione del 19 dicembre, Veltroni terrà fermo il suo progetto, l’idea è quella di proporre una procedura realmente innovativa (e destabilizzante per i tanti establishment diffusi): a livello locale, tante elezioni primarie quanti sono i comuni nei quali si voterà ai primi di giugno; a Roma, nuove cooptazioni di giovani dirigenti nello staff nazionale del partito, e soprattutto, una raffica di commissariamenti in tutta Italia. Potenzialmente una scossa tellurica se si pensa che le prime, vere primarie - quelle che si sono svolte in Emilia Romagna - hanno consentito uno scontro autentico (a Bologna), mentre a Forlì un professore universitario è riuscito a battere la blindatissima candidata del Partito, la sindaca uscente.
Dunque davanti al tintinnar di manette - e oggi secondo i boatos potrebbero chiudersene altre - Veltroni ha deciso: si ripartirà dalla contrapposizione il nuovo scaccia il vecchio, tipica della stagione di Tangentopoli. Insomma, davanti al possibile risorgere di una vera questione morale (stavolta col Pd nell’occhio del ciclone anziché il Psi o
Per questo ora si impone un tasso di innovazione altissimo, facce nuove, riprendendo fiducia in noi stessi e nel nostro appeal. A quel punto davanti alla nostra porta si formerà la fila per formare alleanze». Ma in modo esattamente opposto la pensano personaggi come Massimo D’Alema o, per altri versi, Arturo Parisi, che non credono alla vocazione autarchica del Pd. E meno che mai ci crede un moderato come Marco Follini, che preannuncia una autentica «prima volta» per il Pd: «In direzione chiederò che venga messo ai voti una mozione che sancisca la fine della innaturale alleanza con Di Pietro, punto decisivo sul quale si gioca la nostra stessa identità».
Ma quella parte del partito che in queste ore è sotto il sospetto di indagini - buona parte della Margherita, i Ds non veltroniani - se la sentirà di sposare una rottura con l’ex idolo di Mani pulite? E soprattutto, se le inchieste si intensificheranno, ce la farà il Pd a non gridare al complotto? Gerardo D’Ambrosio, ex capo di Di Pietro, sostiene che «Il Pd non deve fare lo stesso errore dei partiti di Tangentopoli», un’analisi condivisa per ora anche da Veltroni. Convinto invece che sia in atto un altro complotto, come sostenuto da Goffredo Bettini: «Il Pd è sotto la costante pregiudiziale aggressione dei media». C’è un dubbio che aleggia in casa Pd: le copertine dell’Espresso («Compagni Spa»), l’atteggiamento giornalistico de
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