di Marco Damilano
Dopo l'elezione di Franceschini, il Pd guarda già a ottobre. Quando si sceglierà un segretario vero. Ma è il futuro stesso del partito a essere a rischio Il pacco di tesserine magnetiche giace lì, malinconicamente abbandonato in uno scatolone al pianterreno di largo del Nazareno: sopra c'è un'immagine della manifestazione del Circo Massimo dello scorso 25 ottobre. Tanta gente, le bandiere del Pd, la scritta 'Grazie"' e la firma di Walter Veltroni. In memoria dell'unica giornata davvero felice dei suoi 16 mesi di segreteria: il popolo democratico arrivato da tutta Italia per applaudire Veltroni su un podio in stile Obama, una pedana in mezzo alla folla. Era raggiante Walter, quel giorno. Al punto da strapazzare i suoi critici: "State sempre lì a ravanare, attaccati ai vostri schemini: dalemiani, veltroniani.". E invece, appena quattro mesi dopo, martedì 17 febbraio, il Circo Massimo è un ricordo sbiadito, di quelle bandiere non resta nulla. Al secondo piano del Nazareno si scatena la resa dei conti più drammatica, con le dimissioni di Veltroni dalla guida del partito nato dalle ceneri di Ds e Margherita.
È l'8 settembre del Pd. Lo sciogliete le righe. Il tutti a casa. Con l'incubo sempre più reale del crack. L'abisso: l'implosione del progetto, il dissolvimento del partito, la scomparsa della principale forza di opposizione. Anche se la guerra contro la destra berlusconiana che ha conquistato anche la Sardegna di Renato Soru continua, o dovrebbe continuare. Ma con chi? Nelle ore dell'abbandono di Veltroni i capi e i capetti, generali e caporali di questa armata allo sbando chiamata Pd, danno il peggio di sé. Generali in fuga. Colonnelli tentati dal salto di grado ma impauriti da se stessi. Attendenti di campo in ritirata. Sfrecciano le berline, sorride tirata Giovanna Melandri, sorride più largo Pierluigi Bersani, considerato il candidato numero uno alla successione in un congresso da convocare in autunno, dopo il nuovo prevedibile rovescio alle europee di giugno, è quasi allegra Anna Finocchiaro tra i banchi del Senato. E Paolo De Castro, l'ex ministro dell'Agricoltura che ora è presidente dell'associazione dalemiana Red, addirittura gongola: "E ora prendiamoci la segreteria!". Il 'partito romano', impersonato da Goffredo Bettini, si riunisce di buon mattino in un ufficio della Camera con il nucleo duro dei veltroniani della capitale: il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, il segretario regionale Roberto Morassut, il deputato Michele Meta. La notizia delle dimissioni di Veltroni non si è ancora diffusa, Bettini la confida ai suoi esattamente come fece quasi due anni fa quando li convocò per annunciare che aveva convinto l'allora sindaco a rompere gli indugi e candidarsi alla guida del Pd.
Sono in pochi, in quel momento, a conoscere le decisioni del segretario. Veltroni sceglie di lasciare la sxegreteria a notte fonda, quando i risultati elettorali della Sardegna hanno cominciato ad assumere i contorni della catastrofe, l'ennesima dopo la sconfitta alle elezioni politiche, la perdita del Campidoglio contro Gianni Alemanno e la batosta abruzzese di dicembre. Ma l'idea di dimettersi matura prima del voto sardo. Nel fine settimana il segretario fa un giro di telefonate con i dirigenti più vicini sparsi in giro per l'Italia. E lì si capisce che ha deciso di mollare. Chi lo ascolta resta colpito: il Walter bonaccione, ottimista di natura, non esiste più. Al suo posto c'è un uomo stanco, deluso, amareggiato, stufo marcio di guidare il partito in queste condizioni. "Guardate solo cosa è successo oggi", si lamenta: "La mattina presento il piano anti-crisi del partito e incasso l'interesse delle categorie produttive. Il pomeriggio D'Alema va a Bologna e lo smonta pezzo per pezzo. Io costruisco la mattina e questi disfano la sera". Ed è inutile chiedergli di sfidare gli avversari interni con un congresso straordinario. "Non me la sento, non è nelle mie corde la guerra casa per casa per conquistare un delegato in più", ammette Veltroni: "E poi, se anche vincessi, cosa cambierebbe? Il giorno dopo ricomincerebbero da capo". Concetti ripetuti al momento delle dimissioni: "Un gioco al massacro, non ci potevo più stare. Si attaccava me per far fallire il progetto del partito. E con la candidatura di Bersani otto mesi prima del congresso e in piena campagna elettorale si è passata la misura. Basta".
Basta con i giochi di corrente. Basta con il logoramento sotterraneo. Basta con le manovre di chi voleva arrivare alle elezioni europee con Veltroni segretario per poi dargli il benservito. La mossa del leader serve a spiazzare i suoi coetanei. "Me ne vado io, ma si è chiuso il ciclo di una generazione. Con me devono andarsene tutti". Un sacrificio personale per travolgere l'intero gruppo dirigente del Pd degli ultimi 15-20 anni, in particolare i 'compagni di scuola' nati alla politica nella Fgci e alle Frattocchie, cresciuti nel Pci di Enrico Berlinguer, saliti ai vertici del partito dopo la caduta del Muro, arrivati al potere negli anni Novanta, con l'Ulivo di Romano Prodi. La stirpe dei Veltroni e dei D'Alema, insomma. Al momento di lasciare, 'zio Walter' non trova il tempo neppure di una telefonata di cortesia per 'zio Massimo', l'ex amico eterno rivale: D'Alema apprende delle dimissioni di Veltroni dalle agenzie. Lo stesso accade ai ministri dello sfortunato governo ombra che nessuno informa dell'addio del leader. E al corpaccione del partito sparso per l'Italia: sindaci, presidenti di regione, presidenti di provincia, segretari regionali. La notizia dell'addio arriva in periferia con Internet o sulle agenzie. "C'è stato un totale blackout comunicativo", impreca un segretario regionale: "Noi chiamavamo e a Roma non ci rispondevano al telefono". Neppure un sms per avvisare che tutto era compiuto, il segno della confusione cui si è arrivati. Tutti a casa, il re è in fuga, l'esercito in rotta, le truppe sul territorio non sanno che fare.
Eppure, il Pd doveva essere "il più grande partito riformista che la storia d'Italia abbia mai conosciuto", come ripeteva enfaticamente Veltroni ancora pochi giorni fa. O meglio, "il partito del XXI secolo". Il partito capace di costruire una nuova identità nazionale. Il partito 'fratello maggiore' degli italiani: affettuoso, comprensivo, affidabile. Come il suo leader. Che per la conferenza stampa di congedo, il 18 febbraio, ha scelto di tornare nel tempio di Adriano dove aveva celebrato la trionfale elezione a segretario il 14 ottobre 2007. Quella sera nella sala risuonava la colonna sonora, 'Mi fido di te' di Jovanotti e 'Imagine' di John Lennon. E alla fine Veltroni era apparso tra le colonne doriche, con il verde del nuovo partito acceso alle spalle. "Da oggi deve far paura la parola conservazione", aveva proclamato: "Il Pd dovrà durare decenni, non nasce da un leader e per un leader, ma dalle persone reali di questo Paese".
Invece, tante persone reali in un pugno di mesi hanno smesso di votarlo. E ora il Pd rischia di non arrivare al secondo anno di vita, percorso da minacce di scissione e dalla rabbia dei militanti. Perfino sulle modalità della dipartita i capicorrente sono riusciti a litigare. Divisi tra i sostenitori di un'assemblea costituente da convocare subito per eleggere Dario Franceschini segretario di transizione in carica fino al congresso di autunno. E alcuni veltroniani che si battono per andare subito alla conta, lanciando fin da ora una nuova classe dirigente. "Non possiamo affrontare i prossimi mesi senza leader. I capi attuali, i cinquantenni-sessantenni, hanno il terrore di non tornare più al potere, misurano la loro durata in mesi, se non settimane, ma hanno fatto il loro corso. Devono passare la mano a una nuova generazione che abbia il tempo di lavorare", scandisce lo stratega di Walter, Giorgio Tonini. Un percorso condiviso in periferia, dai potenti segretari delle regioni rosse, l'emiliano Salvatore Caronna, il toscano Andrea Manciulli, preoccupati di ritrovarsi con un gruppo dirigente nazionale debole e delegittimato alla vigilia del delicato voto amministrativo a Bologna e a Firenze, determinati a mettersi di traverso rispetto al 'tavolo delle correnti' che gestisce il partito a Roma. Solamente silenzio, invece, dalle regioni del Sud: si possono solo immaginare i pensieri di Antonio Bassolino, da cui Veltroni aveva pubblicamente preso le distanze appena tre settimane fa. Oggi don Antonio è ancora lì, al suo posto di governatore campano, Veltroni no.
Una rivolta che monta di ora in ora. Il segretario della Lombardia Maurizio Martina è tra i più netti a invocare un cambio di tutta l'attuale leadership: "Questa vicenda segna il collasso di un'intera classe nazionale. E per il dopo non ce la caviamo più scegliendo pezzi di quella classe dirigente. Le dimissioni di Veltroni trascinano giù tutta quella generazione. La soluzione Franceschini sarebbe un arroccamento. Ma noi siamo in frontiera, la frontiera non può aspettare la transizione". Traduzione: niente Bersani, niente Franceschini, voltare subito pagina per salvare il Pd. La soluzione alternativa, spiega Martina, è fare subito un congresso, scegliere con le primarie un nuovo leader e consegnargli i pieni poteri. "Un segretario che faccia il salto generazionale, che non sia di Roma ma venga dal lavoro sui territori, che abbia capacità di fare squadra". L'identikit assomiglia molto a Martina, classe 1978, il giovane segretario regionale non si tira indietro: "Il caso del trentenne Matteo Renzi, vincitore delle primarie a Firenze conferma che i vecchi riti, le vecchie logiche non reggono più. E che la mia generazione non può più stare a guardare. Se c'è uno spiraglio per muoversi, questo è il momento. Meglio fare un tentativo che continuare così".
Nello stretto giro veltroniano i trenta-quarantenni da lanciare non mancano: il portavoce Andrea Orlando, il ministro ombra Andrea Martella, Nicola Zingaretti. Anche se non tutti brillano per tempismo. Nelle ore delle dimissioni di Veltroni, ad esempio, Zingaretti spedisce un comunicato alle agenzie. Sulla crisi del Pd? No: il presidente della Provincia di Roma preferisce esternare su Sanremo, sulla canzone di Pupo 'L'opportunità' che, a dire di Zingaretti, "è una canzone bellissima che illumina di speranza la cappa di angoscia e di paura che ci sta permeando". E chissà se intende riferirsi ad altre cappe, e ad altre opportunità.
Così, nella corsa del cambio generazionale, potrebbero spuntare fuori altri nomi. Alcuni già noti, come il dalemiano Gianni Cuperlo, tra i più apertamente critici della gestione Veltroni. Altri ancora poco conosciuti, come il deputato di prima legislatura Francesco Boccia: pugliese, 40 anni, un discreto passato da attaccante nel Bisceglie, quattro anni alla London School of Economics, vicino a Enrico Letta e stimato da D'Alema, cattolico e con una passione per il Labour Party, uno che non si è mai vergognato a definirsi ulivista e prodiano e per questo coltiva un buon rapporto anche con Arturo Parisi. E già: il caos rimette in gioco anche il professore sardo, la Cassandra che da mesi profetizzava il disastro in perfetta solitudine. La convocazione dell'assemblea costituente che lui invocava da mesi è una sua piccola soddisfazione.
I capi storici, D'Alema in testa, si giocano davvero l'ultima partita. Bersani è chiamato a mettere subito sul tavolo le sue famose idee, se le ha, e la sua candidatura. Franceschini deve dimostrare di essere un leader. Enrico Letta guarda in direzione Udc. Francesco Rutelli è già con un piede fuori... Nelle ore del cupio dissolvi si capisce finalmente l'angoscia di Veltroni: il timore di finire nei libri di storia come colui che ha liquidato in meno di un anno un patrimonio di idee e passioni lungo un secolo. Il Pd è il suo sogno spezzato, la sua sfida interrotta, come si intitolavano i volumi che dava alle stampe negli anni della lunga corsa verso la leadership. Ma il dramma è appena all'inizio. Come in un'oscura maledizione, in soli 12 mesi il Pd ha consumato progetti, speranze, ambizioni, leader: prima Romano Prodi, poi Riccardo Illy, Renato Soru, infine Walter Veltroni. Ora rischia di divorare se stesso. E quel che resta della sinistra italiana
(19 febbraio 2009)
È l'8 settembre del Pd. Lo sciogliete le righe. Il tutti a casa. Con l'incubo sempre più reale del crack. L'abisso: l'implosione del progetto, il dissolvimento del partito, la scomparsa della principale forza di opposizione. Anche se la guerra contro la destra berlusconiana che ha conquistato anche la Sardegna di Renato Soru continua, o dovrebbe continuare. Ma con chi? Nelle ore dell'abbandono di Veltroni i capi e i capetti, generali e caporali di questa armata allo sbando chiamata Pd, danno il peggio di sé. Generali in fuga. Colonnelli tentati dal salto di grado ma impauriti da se stessi. Attendenti di campo in ritirata. Sfrecciano le berline, sorride tirata Giovanna Melandri, sorride più largo Pierluigi Bersani, considerato il candidato numero uno alla successione in un congresso da convocare in autunno, dopo il nuovo prevedibile rovescio alle europee di giugno, è quasi allegra Anna Finocchiaro tra i banchi del Senato. E Paolo De Castro, l'ex ministro dell'Agricoltura che ora è presidente dell'associazione dalemiana Red, addirittura gongola: "E ora prendiamoci la segreteria!". Il 'partito romano', impersonato da Goffredo Bettini, si riunisce di buon mattino in un ufficio della Camera con il nucleo duro dei veltroniani della capitale: il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, il segretario regionale Roberto Morassut, il deputato Michele Meta. La notizia delle dimissioni di Veltroni non si è ancora diffusa, Bettini la confida ai suoi esattamente come fece quasi due anni fa quando li convocò per annunciare che aveva convinto l'allora sindaco a rompere gli indugi e candidarsi alla guida del Pd.
Sono in pochi, in quel momento, a conoscere le decisioni del segretario. Veltroni sceglie di lasciare la sxegreteria a notte fonda, quando i risultati elettorali della Sardegna hanno cominciato ad assumere i contorni della catastrofe, l'ennesima dopo la sconfitta alle elezioni politiche, la perdita del Campidoglio contro Gianni Alemanno e la batosta abruzzese di dicembre. Ma l'idea di dimettersi matura prima del voto sardo. Nel fine settimana il segretario fa un giro di telefonate con i dirigenti più vicini sparsi in giro per l'Italia. E lì si capisce che ha deciso di mollare. Chi lo ascolta resta colpito: il Walter bonaccione, ottimista di natura, non esiste più. Al suo posto c'è un uomo stanco, deluso, amareggiato, stufo marcio di guidare il partito in queste condizioni. "Guardate solo cosa è successo oggi", si lamenta: "La mattina presento il piano anti-crisi del partito e incasso l'interesse delle categorie produttive. Il pomeriggio D'Alema va a Bologna e lo smonta pezzo per pezzo. Io costruisco la mattina e questi disfano la sera". Ed è inutile chiedergli di sfidare gli avversari interni con un congresso straordinario. "Non me la sento, non è nelle mie corde la guerra casa per casa per conquistare un delegato in più", ammette Veltroni: "E poi, se anche vincessi, cosa cambierebbe? Il giorno dopo ricomincerebbero da capo". Concetti ripetuti al momento delle dimissioni: "Un gioco al massacro, non ci potevo più stare. Si attaccava me per far fallire il progetto del partito. E con la candidatura di Bersani otto mesi prima del congresso e in piena campagna elettorale si è passata la misura. Basta".
Basta con i giochi di corrente. Basta con il logoramento sotterraneo. Basta con le manovre di chi voleva arrivare alle elezioni europee con Veltroni segretario per poi dargli il benservito. La mossa del leader serve a spiazzare i suoi coetanei. "Me ne vado io, ma si è chiuso il ciclo di una generazione. Con me devono andarsene tutti". Un sacrificio personale per travolgere l'intero gruppo dirigente del Pd degli ultimi 15-20 anni, in particolare i 'compagni di scuola' nati alla politica nella Fgci e alle Frattocchie, cresciuti nel Pci di Enrico Berlinguer, saliti ai vertici del partito dopo la caduta del Muro, arrivati al potere negli anni Novanta, con l'Ulivo di Romano Prodi. La stirpe dei Veltroni e dei D'Alema, insomma. Al momento di lasciare, 'zio Walter' non trova il tempo neppure di una telefonata di cortesia per 'zio Massimo', l'ex amico eterno rivale: D'Alema apprende delle dimissioni di Veltroni dalle agenzie. Lo stesso accade ai ministri dello sfortunato governo ombra che nessuno informa dell'addio del leader. E al corpaccione del partito sparso per l'Italia: sindaci, presidenti di regione, presidenti di provincia, segretari regionali. La notizia dell'addio arriva in periferia con Internet o sulle agenzie. "C'è stato un totale blackout comunicativo", impreca un segretario regionale: "Noi chiamavamo e a Roma non ci rispondevano al telefono". Neppure un sms per avvisare che tutto era compiuto, il segno della confusione cui si è arrivati. Tutti a casa, il re è in fuga, l'esercito in rotta, le truppe sul territorio non sanno che fare.
Eppure, il Pd doveva essere "il più grande partito riformista che la storia d'Italia abbia mai conosciuto", come ripeteva enfaticamente Veltroni ancora pochi giorni fa. O meglio, "il partito del XXI secolo". Il partito capace di costruire una nuova identità nazionale. Il partito 'fratello maggiore' degli italiani: affettuoso, comprensivo, affidabile. Come il suo leader. Che per la conferenza stampa di congedo, il 18 febbraio, ha scelto di tornare nel tempio di Adriano dove aveva celebrato la trionfale elezione a segretario il 14 ottobre 2007. Quella sera nella sala risuonava la colonna sonora, 'Mi fido di te' di Jovanotti e 'Imagine' di John Lennon. E alla fine Veltroni era apparso tra le colonne doriche, con il verde del nuovo partito acceso alle spalle. "Da oggi deve far paura la parola conservazione", aveva proclamato: "Il Pd dovrà durare decenni, non nasce da un leader e per un leader, ma dalle persone reali di questo Paese".
Invece, tante persone reali in un pugno di mesi hanno smesso di votarlo. E ora il Pd rischia di non arrivare al secondo anno di vita, percorso da minacce di scissione e dalla rabbia dei militanti. Perfino sulle modalità della dipartita i capicorrente sono riusciti a litigare. Divisi tra i sostenitori di un'assemblea costituente da convocare subito per eleggere Dario Franceschini segretario di transizione in carica fino al congresso di autunno. E alcuni veltroniani che si battono per andare subito alla conta, lanciando fin da ora una nuova classe dirigente. "Non possiamo affrontare i prossimi mesi senza leader. I capi attuali, i cinquantenni-sessantenni, hanno il terrore di non tornare più al potere, misurano la loro durata in mesi, se non settimane, ma hanno fatto il loro corso. Devono passare la mano a una nuova generazione che abbia il tempo di lavorare", scandisce lo stratega di Walter, Giorgio Tonini. Un percorso condiviso in periferia, dai potenti segretari delle regioni rosse, l'emiliano Salvatore Caronna, il toscano Andrea Manciulli, preoccupati di ritrovarsi con un gruppo dirigente nazionale debole e delegittimato alla vigilia del delicato voto amministrativo a Bologna e a Firenze, determinati a mettersi di traverso rispetto al 'tavolo delle correnti' che gestisce il partito a Roma. Solamente silenzio, invece, dalle regioni del Sud: si possono solo immaginare i pensieri di Antonio Bassolino, da cui Veltroni aveva pubblicamente preso le distanze appena tre settimane fa. Oggi don Antonio è ancora lì, al suo posto di governatore campano, Veltroni no.
Una rivolta che monta di ora in ora. Il segretario della Lombardia Maurizio Martina è tra i più netti a invocare un cambio di tutta l'attuale leadership: "Questa vicenda segna il collasso di un'intera classe nazionale. E per il dopo non ce la caviamo più scegliendo pezzi di quella classe dirigente. Le dimissioni di Veltroni trascinano giù tutta quella generazione. La soluzione Franceschini sarebbe un arroccamento. Ma noi siamo in frontiera, la frontiera non può aspettare la transizione". Traduzione: niente Bersani, niente Franceschini, voltare subito pagina per salvare il Pd. La soluzione alternativa, spiega Martina, è fare subito un congresso, scegliere con le primarie un nuovo leader e consegnargli i pieni poteri. "Un segretario che faccia il salto generazionale, che non sia di Roma ma venga dal lavoro sui territori, che abbia capacità di fare squadra". L'identikit assomiglia molto a Martina, classe 1978, il giovane segretario regionale non si tira indietro: "Il caso del trentenne Matteo Renzi, vincitore delle primarie a Firenze conferma che i vecchi riti, le vecchie logiche non reggono più. E che la mia generazione non può più stare a guardare. Se c'è uno spiraglio per muoversi, questo è il momento. Meglio fare un tentativo che continuare così".
Nello stretto giro veltroniano i trenta-quarantenni da lanciare non mancano: il portavoce Andrea Orlando, il ministro ombra Andrea Martella, Nicola Zingaretti. Anche se non tutti brillano per tempismo. Nelle ore delle dimissioni di Veltroni, ad esempio, Zingaretti spedisce un comunicato alle agenzie. Sulla crisi del Pd? No: il presidente della Provincia di Roma preferisce esternare su Sanremo, sulla canzone di Pupo 'L'opportunità' che, a dire di Zingaretti, "è una canzone bellissima che illumina di speranza la cappa di angoscia e di paura che ci sta permeando". E chissà se intende riferirsi ad altre cappe, e ad altre opportunità.
Così, nella corsa del cambio generazionale, potrebbero spuntare fuori altri nomi. Alcuni già noti, come il dalemiano Gianni Cuperlo, tra i più apertamente critici della gestione Veltroni. Altri ancora poco conosciuti, come il deputato di prima legislatura Francesco Boccia: pugliese, 40 anni, un discreto passato da attaccante nel Bisceglie, quattro anni alla London School of Economics, vicino a Enrico Letta e stimato da D'Alema, cattolico e con una passione per il Labour Party, uno che non si è mai vergognato a definirsi ulivista e prodiano e per questo coltiva un buon rapporto anche con Arturo Parisi. E già: il caos rimette in gioco anche il professore sardo, la Cassandra che da mesi profetizzava il disastro in perfetta solitudine. La convocazione dell'assemblea costituente che lui invocava da mesi è una sua piccola soddisfazione.
I capi storici, D'Alema in testa, si giocano davvero l'ultima partita. Bersani è chiamato a mettere subito sul tavolo le sue famose idee, se le ha, e la sua candidatura. Franceschini deve dimostrare di essere un leader. Enrico Letta guarda in direzione Udc. Francesco Rutelli è già con un piede fuori... Nelle ore del cupio dissolvi si capisce finalmente l'angoscia di Veltroni: il timore di finire nei libri di storia come colui che ha liquidato in meno di un anno un patrimonio di idee e passioni lungo un secolo. Il Pd è il suo sogno spezzato, la sua sfida interrotta, come si intitolavano i volumi che dava alle stampe negli anni della lunga corsa verso la leadership. Ma il dramma è appena all'inizio. Come in un'oscura maledizione, in soli 12 mesi il Pd ha consumato progetti, speranze, ambizioni, leader: prima Romano Prodi, poi Riccardo Illy, Renato Soru, infine Walter Veltroni. Ora rischia di divorare se stesso. E quel che resta della sinistra italiana
(19 febbraio 2009)
3 commenti:
L'articolo è lunghissimo e non lo commento se non in una frase, per me emblematica "...la scomparsa della principale forza di opposizione". Ma quando, per chi, e dove? Dallo scioglimento del PCI, secondo i dirigenti di allora, fatto appositamente per ingrossare le file del partito anche con i moderati, in realtà non hanno realizzato che un dissanguamento lento e inesorabile. Era prevedibile, almeno per noi comuni mortali, ma per loro? Possibile che non l'abbiano capito? Forse non hanno voluto farlo!
In una sola parola: omuncoli.
Però, non ci si può limitare a leggere le analisi brevi, specie se giornalistiche.
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