Partito aperto. Opposizione dura. Alleanze su criteri chiari per guidare il Paese. E trasformare in rabbia positiva la delusione degli elettori. Le sfide del segretario Pd. Colloquio con Dario Franceschini
Mai sottovalutare uno che viene dalla Dc. Difatti anche Berlusconi lo guarda con attenzione sospettosa. "Buca il video, con quella faccia da bravo ragazzo". Comunque, per essere un giovane vecchio dc, Dario Franceschini si muove come un vietcong. Attacchi rapidi, sortite veloci, ritirate tattiche, il contropiede dell'assegno di disoccupazione ai precari licenziati, e poi la polemica sull'Election Day, "risparmiamo 400 miliardi e mettiamoli nella sicurezza". E adesso per qualcuno questa è la vera strategia del nuovo segretario del Pd. La sua innovazione rispetto al veltronismo. Tecnica della guerriglia. Il dito nella piaga. Sarcasmo di fronte alle verità dogmatiche dei berluscones. A dirglielo, Franceschini ride: "La mia deriva a sinistra è inarrestabile".
Rida pure, segretario. Se ne sentiva il bisogno. Ma intanto i sondaggi sono sanguinosi. Lei scherza con il fuoco, o il gelo, del 22 per cento.
"Guardi, non commetterò di nuovo l'errore di non credere ai sondaggi. Ma prima dei sondaggi c'era il clima che respiravamo in giro, nelle sedi del Pd, nei luoghi di incontro".
Una delusione avvertibile.
"Un misto di delusione e di sfiducia, ma anche di rabbia, perché molti hanno la sensazione che stiamo perdendo un'occasione. Per me questa rabbia è positiva: è un sentimento verso qualcosa a cui si sente di appartenere, per simpatia, per affetto. Ma è per questo che credo che si possa ripartire: perché non credo affatto che i nostri elettori possano passare a destra. Alle europee non credo affatto in un cambio di campo dei nostri elettori più moderati".
Che il Pd perda mentre il Pdl guadagna è indubitabile.
"Ma noi perdiamo eventualmente verso l'area della protesta. Ci sono flussi di consenso che si staccano dal Pd e si rivolgono all'astensione, o verso Di Pietro, che rappresenta una reazione emotiva alle nostre difficoltà. E della nostra democrazia, aggiungo".
Ci vorrebbe una buona diagnosi del perché.
"Le ragioni sono molteplici. In questi mesi abbiamo visto all'opera un Pd che ha ereditato i problemi dell'Unione, le sue divisioni, non le ragioni di coesione. Vede, i media si sono specializzati negli anni del centrosinistra largo, la coalizione di Prodi, mostrandone tutta la rissosità interna. E il Pd è andato sui giornali più per la litigiosità intestina, e per gli attacchi ingiusti alla leadership, che per la sua capacità progettuale o la qualità della sua opposizione".
Non dia la colpa ai giornali.
"Me ne guardo bene. Ma l'informazione ha fatto da cassa di risonanza ai contrasti interni. Siamo stati noi a non dare tempo a Veltroni. Nel Regno Unito, Tony Blair ha fatto l'opposizione per tre anni, prima di giocarsela con Major; Zapatero è stato in attesa anche lui per tre anni, la Merkel cinque. A tutti i leader europei è stato dato il tempo per prepararsi alla competizione".
Il fatto è che il Pd è nato e vissuto in modo trafelato. E affannosa è parsa a molti anche la scelta di 'correre da soli', cioè il programma di alleanze fondato sulla vocazione maggioritaria.
"Ma quella scelta non è mai stata messa in discussione. Nessuno può avere nostalgie per la coalizione a 11. Ad alleanze come quella non torneremo più".
E come pensate allora di raggiungere la maggioranza dei consensi?
"Il tempo delle alleanze verrà, e si tratterà di comporre una coalizione, nel campo alternativo alla destra: su questo non devono esserci dubbi".
E quindi il rapporto con l'Udc, a cui guardano con interesse Enrico Letta e Francesco Rutelli?
"Noi non dobbiamo allargare l'alleanza solo per ragioni tattiche. E neanche farci risucchiare in operazioni trasformistiche. Quando verrà il momento costituiremo una coalizione elettorale fondata su criteri chiari, e sull'intenzione esplicita di governare il paese: purché, ripeto, sia alternativa alla destra".
Lei parla di alternativa alla destra ma sulla presidenza della Rai avete perseguito un accordo.
"Questo è l'effetto di una legge assurda, che prevede la maggioranza dei due terzi nella Commissione di vigilanza per scegliere il presidente, nel contesto di un Cda già politicizzato. Io sono stato costretto a una trattativa sgradevole proprio da questa legge. In ogni caso, ci impegneremo a fondo per cambiarla".
Torniamo al Pd. Lei parlava di delusione e rabbia del vostro elettorato.
"La prima delusione deriva da una speranza delusa: si sperava che la costruzione reale del Pd fosse più veloce. Certo, non si poteva fare in due settimane, dato che mescolare storie, tradizioni, abitudini, culture politiche era difficile".
Per la verità a un certo punto sembrava che le differenze fossero svanite. Sono venute fuori di nuovo dopo la sconfitta elettorale.
"È bene fare i conti sino in fondo con un bilancio provvisorio che contiene elementi positivi e negativi. Positivo è il fatto che il mescolamento dei Ds e degli aderenti alla Margherita è avvenuto, in pochi mesi. Di negativo c'è che si è vista poca apertura verso l'esterno: se alle primarie di Veltroni hanno partecipato più di tre milioni di simpatizzanti, e c'erano un milione di iscritti ai partiti promotori, nella formazione dei gruppi dirigenti non si è dato poi ascolto e spazio a quei due milioni che hanno scelto di avvicinarsi alla politica con la nascita del Pd".
Ora si rischia di nuovo la paralisi del sistema.
"Non credo affatto all'immutabilità dei blocchi elettorali. L'Italia è maturata politicamente: milioni di persone decidono come votare in base a scelte pragmatiche, alle risposte dei partiti, al profilo dei candidati".
Sicuro che l'elettorato sia così disincantato? In realtà c'è il timore che si stia riformando il bipartitismo imperfetto degli anni Sessanta, con un blocco inamovibile al potere e un'opposizione non competitiva.
"No, resto convinto che il paese è contendibile. Per renderlo tale nel concreto, Berlusconi va incalzato sulla capacità di governare. Loro non stanno governando: continuano a mobilitare il consenso, con gli annunci, e sono in campagna elettorale permanente. Alla fine l'opinione pubblica si stancherà di sentirsi promettere sette-volte-sette sempre le stesse cose, gli stessi finanziamenti, le stesse risorse.".
Quindi lei nega che Berlusconi possa capitalizzare una specie di riflesso d'ordine, un consenso inerziale simile a quello dc del passato.
"Guardiamolo da un punto di vista meno contingente e meno provinciale. Ci troviamo a un vero punto di svolta. Dopo gli otto anni di Bush stiamo assistendo all'esaurimento del modello secondo cui c'è sempre una risposta automatica ai problemi sociali e questa risposta si trova nel mercato: il mercato sopra tutto e il benessere crescerà per tutti".
Tutto questo crolla con la crisi, ma occorre vedere se questo fallimento del modello apre prospettive politiche alternative.
"La destra ha cavalcato il modello neoliberista, e ora passa a cavalcare le paure".
Anche i riformisti sono stati succubi del modello.
"Il riformismo ha avuto il torto di proporre solo correttivi timidi. Io adesso dico che questa crisi offre possibilità ingenti, in primo luogo per riscrivere la gerarchia dei valori".
E che cosa dice questa gerarchia?
"Che occorre affrontare i problemi contingenti sempre riferendoli a un disegno generale: e questo modello non è timido, deve rovesciare l'idea che la società è costretta ad accettare le diseguaglianze esasperate. Obama non ha proposto correttivi modesti, ma una formula radicalmente nuova".
I problemi nuovi sono scomodi.
"Vogliamo prendere il più scomodo di tutti? L'immigrazione, naturalmente. Che porta differenze, la presenza di culture altre. Che tuttavia fanno nascere società più giovani e colorate di quelle rinchiuse nella paura. Me lo faccia dire: io provo orrore per gli uomini politici che guardano soltanto agli interessi contingenti. Questa non è politica. Io credo che occorra uno choc culturale rispetto all'idea che i riformisti devono dire cose di destra con un po' di equità sociale aggiunta".
Franceschini, questa tirata contro il conservatorismo compassionevole è la prova della sua deriva a sinistra.
"Significa pensare la comunità in modo diverso rispetto ai dogmi in vigore fino all'altro ieri. E non soltanto in economia. Per esempio: ho giurato sulla Costituzione, in un luogo simbolico a Ferrara, dove c'era stato un eccidio di antifascisti nella 'lunga notte del 1943', e ho avuto la sensazione stordente che nemmeno quello sia ormai un patrimonio di valori condiviso, come è stato per tutta la prima Repubblica. Nessuno allora avrebbe accusato un uomo politico di deriva a sinistra per aver parlato di Resistenza e antifascismo".
Non chiuda gli occhi. Il patrimonio di valori è quello della televisione.
"E allora il problema non consiste nel battersi per ottenere un minuto in più al tg, ma cambiare il modello di comunicazione, uscire dalla dittatura del consumo e del glamour straccione.".
Vasto programma, segretario.
"Perché se si accetta quel modello, scattano gli egoismi: intendo gli egoismi territoriali, sociali, corporativi. La regola è 'mors tua vita mea', un darwinismo che socialmente fa paura. Per questo occorre una gerarchia di valori alternativa".
Per ora il Pd è più modestamente al 'primum vivere'.
"Ma vivere senza filosofare è impossibile, mi creda. Se ci si ferma al 'primum vivere' si cede subito al ricatto delle 'asticelle', alle percentuali minime che dobbiamo spuntare alle europee e alle amministrative".
Esercizio che non le piace, com'è ovvio.
"Per niente. Abbiamo due obiettivi veri. Il primo è la conferma della validità del progetto del Pd. Il secondo consiste nel dimostrare una vitalità alternativa al berlusconismo. Il premier in Sardegna si è impegnato a dismisura, ci ha messo la faccia, i comizi, le tv: si è chiesto perché?".
Me lo sono chiesto, ma la risposta la dia lei.
"Perché la Sardegna era la prova generale per quello che potrebbe venire dopo. Berlusconi non voleva vincere, ma stravincere. E se stravince alle europee, grazie all'astensionismo e alla delusione nel nostro campo, quello che potrà fare dal giorno dopo è inimmaginabile".
Adesso è lei che cavalca la paura.
"Cavalco il realismo. Ci sono segnali sufficienti per capire che Berlusconi metterà in campo un disegno di riprogettazione istituzionale, di svuotamento della Costituzione e del Parlamento in chiave decisionista".
E lei nei suoi sei mesi che cosa crede di poter fare?
"Abbiamo due obiettivi principali. Dobbiamo dimostrare che Berlusconi e il suo disegno possono essere battuti. E poi costruire davvero il Pd, nelle sue strutture, nella sua classe dirigente".
E agli esuli in patria, ai delusi di Ilvo Diamanti, che cosa dice?
"Se sono esuli in patria, vuol dire che la loro patria è il Pd. Per questo non sono sfiduciato. Veltroni me lo aveva detto: vedrai che se me ne vado cambia il clima".
Lei ha cominciato con qualche successo. Era da tempo che il Pd non coglieva risultati contro il governo.
"C'era una strategia precisa, nascondere la crisi parlando d'altro, fino a creare l'oscuramento, come è avvenuto con l'oscena strumentalizzazione del caso Englaro. Occorreva impedire che la crisi diventasse un fenomeno collettivo e consapevole".
E che cosa significa costruire davvero il Pd?
"Vuol dire costruire un partito aperto, con migliaia di dirigenti impegnati, capace di fare un'opposizione propositiva ma dura e intransigente, mettendo in primo piano i ceti deboli e i valori fondanti. Dimostrare che tutte le personalità del Pd possono darsi il compito di lavorare insieme per ottenere questi risultati".
Non si è ancora capito qual è veramente l'obiettivo sociale del Pd. Nel 1996 Prodi era chiaro: modernizzazione più solidarietà. E oggi?
"Oggi siamo in un altro quadro. Siamo alla rottura di una fase. Dobbiamo proporre un mondo in cui la società civile è più forte del mercato, e la regola non è soltanto quella del profitto, con i risultati che si sono visti".
Guardi che sei mesi non le bastano, segretario.
"Bastano e avanzano, se abbiamo le idee chiare"
(12 marzo 2009)
Rida pure, segretario. Se ne sentiva il bisogno. Ma intanto i sondaggi sono sanguinosi. Lei scherza con il fuoco, o il gelo, del 22 per cento.
"Guardi, non commetterò di nuovo l'errore di non credere ai sondaggi. Ma prima dei sondaggi c'era il clima che respiravamo in giro, nelle sedi del Pd, nei luoghi di incontro".
Una delusione avvertibile.
"Un misto di delusione e di sfiducia, ma anche di rabbia, perché molti hanno la sensazione che stiamo perdendo un'occasione. Per me questa rabbia è positiva: è un sentimento verso qualcosa a cui si sente di appartenere, per simpatia, per affetto. Ma è per questo che credo che si possa ripartire: perché non credo affatto che i nostri elettori possano passare a destra. Alle europee non credo affatto in un cambio di campo dei nostri elettori più moderati".
Che il Pd perda mentre il Pdl guadagna è indubitabile.
"Ma noi perdiamo eventualmente verso l'area della protesta. Ci sono flussi di consenso che si staccano dal Pd e si rivolgono all'astensione, o verso Di Pietro, che rappresenta una reazione emotiva alle nostre difficoltà. E della nostra democrazia, aggiungo".
Ci vorrebbe una buona diagnosi del perché.
"Le ragioni sono molteplici. In questi mesi abbiamo visto all'opera un Pd che ha ereditato i problemi dell'Unione, le sue divisioni, non le ragioni di coesione. Vede, i media si sono specializzati negli anni del centrosinistra largo, la coalizione di Prodi, mostrandone tutta la rissosità interna. E il Pd è andato sui giornali più per la litigiosità intestina, e per gli attacchi ingiusti alla leadership, che per la sua capacità progettuale o la qualità della sua opposizione".
Non dia la colpa ai giornali.
"Me ne guardo bene. Ma l'informazione ha fatto da cassa di risonanza ai contrasti interni. Siamo stati noi a non dare tempo a Veltroni. Nel Regno Unito, Tony Blair ha fatto l'opposizione per tre anni, prima di giocarsela con Major; Zapatero è stato in attesa anche lui per tre anni, la Merkel cinque. A tutti i leader europei è stato dato il tempo per prepararsi alla competizione".
Il fatto è che il Pd è nato e vissuto in modo trafelato. E affannosa è parsa a molti anche la scelta di 'correre da soli', cioè il programma di alleanze fondato sulla vocazione maggioritaria.
"Ma quella scelta non è mai stata messa in discussione. Nessuno può avere nostalgie per la coalizione a 11. Ad alleanze come quella non torneremo più".
E come pensate allora di raggiungere la maggioranza dei consensi?
"Il tempo delle alleanze verrà, e si tratterà di comporre una coalizione, nel campo alternativo alla destra: su questo non devono esserci dubbi".
E quindi il rapporto con l'Udc, a cui guardano con interesse Enrico Letta e Francesco Rutelli?
"Noi non dobbiamo allargare l'alleanza solo per ragioni tattiche. E neanche farci risucchiare in operazioni trasformistiche. Quando verrà il momento costituiremo una coalizione elettorale fondata su criteri chiari, e sull'intenzione esplicita di governare il paese: purché, ripeto, sia alternativa alla destra".
Lei parla di alternativa alla destra ma sulla presidenza della Rai avete perseguito un accordo.
"Questo è l'effetto di una legge assurda, che prevede la maggioranza dei due terzi nella Commissione di vigilanza per scegliere il presidente, nel contesto di un Cda già politicizzato. Io sono stato costretto a una trattativa sgradevole proprio da questa legge. In ogni caso, ci impegneremo a fondo per cambiarla".
Torniamo al Pd. Lei parlava di delusione e rabbia del vostro elettorato.
"La prima delusione deriva da una speranza delusa: si sperava che la costruzione reale del Pd fosse più veloce. Certo, non si poteva fare in due settimane, dato che mescolare storie, tradizioni, abitudini, culture politiche era difficile".
Per la verità a un certo punto sembrava che le differenze fossero svanite. Sono venute fuori di nuovo dopo la sconfitta elettorale.
"È bene fare i conti sino in fondo con un bilancio provvisorio che contiene elementi positivi e negativi. Positivo è il fatto che il mescolamento dei Ds e degli aderenti alla Margherita è avvenuto, in pochi mesi. Di negativo c'è che si è vista poca apertura verso l'esterno: se alle primarie di Veltroni hanno partecipato più di tre milioni di simpatizzanti, e c'erano un milione di iscritti ai partiti promotori, nella formazione dei gruppi dirigenti non si è dato poi ascolto e spazio a quei due milioni che hanno scelto di avvicinarsi alla politica con la nascita del Pd".
Ora si rischia di nuovo la paralisi del sistema.
"Non credo affatto all'immutabilità dei blocchi elettorali. L'Italia è maturata politicamente: milioni di persone decidono come votare in base a scelte pragmatiche, alle risposte dei partiti, al profilo dei candidati".
Sicuro che l'elettorato sia così disincantato? In realtà c'è il timore che si stia riformando il bipartitismo imperfetto degli anni Sessanta, con un blocco inamovibile al potere e un'opposizione non competitiva.
"No, resto convinto che il paese è contendibile. Per renderlo tale nel concreto, Berlusconi va incalzato sulla capacità di governare. Loro non stanno governando: continuano a mobilitare il consenso, con gli annunci, e sono in campagna elettorale permanente. Alla fine l'opinione pubblica si stancherà di sentirsi promettere sette-volte-sette sempre le stesse cose, gli stessi finanziamenti, le stesse risorse.".
Quindi lei nega che Berlusconi possa capitalizzare una specie di riflesso d'ordine, un consenso inerziale simile a quello dc del passato.
"Guardiamolo da un punto di vista meno contingente e meno provinciale. Ci troviamo a un vero punto di svolta. Dopo gli otto anni di Bush stiamo assistendo all'esaurimento del modello secondo cui c'è sempre una risposta automatica ai problemi sociali e questa risposta si trova nel mercato: il mercato sopra tutto e il benessere crescerà per tutti".
Tutto questo crolla con la crisi, ma occorre vedere se questo fallimento del modello apre prospettive politiche alternative.
"La destra ha cavalcato il modello neoliberista, e ora passa a cavalcare le paure".
Anche i riformisti sono stati succubi del modello.
"Il riformismo ha avuto il torto di proporre solo correttivi timidi. Io adesso dico che questa crisi offre possibilità ingenti, in primo luogo per riscrivere la gerarchia dei valori".
E che cosa dice questa gerarchia?
"Che occorre affrontare i problemi contingenti sempre riferendoli a un disegno generale: e questo modello non è timido, deve rovesciare l'idea che la società è costretta ad accettare le diseguaglianze esasperate. Obama non ha proposto correttivi modesti, ma una formula radicalmente nuova".
I problemi nuovi sono scomodi.
"Vogliamo prendere il più scomodo di tutti? L'immigrazione, naturalmente. Che porta differenze, la presenza di culture altre. Che tuttavia fanno nascere società più giovani e colorate di quelle rinchiuse nella paura. Me lo faccia dire: io provo orrore per gli uomini politici che guardano soltanto agli interessi contingenti. Questa non è politica. Io credo che occorra uno choc culturale rispetto all'idea che i riformisti devono dire cose di destra con un po' di equità sociale aggiunta".
Franceschini, questa tirata contro il conservatorismo compassionevole è la prova della sua deriva a sinistra.
"Significa pensare la comunità in modo diverso rispetto ai dogmi in vigore fino all'altro ieri. E non soltanto in economia. Per esempio: ho giurato sulla Costituzione, in un luogo simbolico a Ferrara, dove c'era stato un eccidio di antifascisti nella 'lunga notte del 1943', e ho avuto la sensazione stordente che nemmeno quello sia ormai un patrimonio di valori condiviso, come è stato per tutta la prima Repubblica. Nessuno allora avrebbe accusato un uomo politico di deriva a sinistra per aver parlato di Resistenza e antifascismo".
Non chiuda gli occhi. Il patrimonio di valori è quello della televisione.
"E allora il problema non consiste nel battersi per ottenere un minuto in più al tg, ma cambiare il modello di comunicazione, uscire dalla dittatura del consumo e del glamour straccione.".
Vasto programma, segretario.
"Perché se si accetta quel modello, scattano gli egoismi: intendo gli egoismi territoriali, sociali, corporativi. La regola è 'mors tua vita mea', un darwinismo che socialmente fa paura. Per questo occorre una gerarchia di valori alternativa".
Per ora il Pd è più modestamente al 'primum vivere'.
"Ma vivere senza filosofare è impossibile, mi creda. Se ci si ferma al 'primum vivere' si cede subito al ricatto delle 'asticelle', alle percentuali minime che dobbiamo spuntare alle europee e alle amministrative".
Esercizio che non le piace, com'è ovvio.
"Per niente. Abbiamo due obiettivi veri. Il primo è la conferma della validità del progetto del Pd. Il secondo consiste nel dimostrare una vitalità alternativa al berlusconismo. Il premier in Sardegna si è impegnato a dismisura, ci ha messo la faccia, i comizi, le tv: si è chiesto perché?".
Me lo sono chiesto, ma la risposta la dia lei.
"Perché la Sardegna era la prova generale per quello che potrebbe venire dopo. Berlusconi non voleva vincere, ma stravincere. E se stravince alle europee, grazie all'astensionismo e alla delusione nel nostro campo, quello che potrà fare dal giorno dopo è inimmaginabile".
Adesso è lei che cavalca la paura.
"Cavalco il realismo. Ci sono segnali sufficienti per capire che Berlusconi metterà in campo un disegno di riprogettazione istituzionale, di svuotamento della Costituzione e del Parlamento in chiave decisionista".
E lei nei suoi sei mesi che cosa crede di poter fare?
"Abbiamo due obiettivi principali. Dobbiamo dimostrare che Berlusconi e il suo disegno possono essere battuti. E poi costruire davvero il Pd, nelle sue strutture, nella sua classe dirigente".
E agli esuli in patria, ai delusi di Ilvo Diamanti, che cosa dice?
"Se sono esuli in patria, vuol dire che la loro patria è il Pd. Per questo non sono sfiduciato. Veltroni me lo aveva detto: vedrai che se me ne vado cambia il clima".
Lei ha cominciato con qualche successo. Era da tempo che il Pd non coglieva risultati contro il governo.
"C'era una strategia precisa, nascondere la crisi parlando d'altro, fino a creare l'oscuramento, come è avvenuto con l'oscena strumentalizzazione del caso Englaro. Occorreva impedire che la crisi diventasse un fenomeno collettivo e consapevole".
E che cosa significa costruire davvero il Pd?
"Vuol dire costruire un partito aperto, con migliaia di dirigenti impegnati, capace di fare un'opposizione propositiva ma dura e intransigente, mettendo in primo piano i ceti deboli e i valori fondanti. Dimostrare che tutte le personalità del Pd possono darsi il compito di lavorare insieme per ottenere questi risultati".
Non si è ancora capito qual è veramente l'obiettivo sociale del Pd. Nel 1996 Prodi era chiaro: modernizzazione più solidarietà. E oggi?
"Oggi siamo in un altro quadro. Siamo alla rottura di una fase. Dobbiamo proporre un mondo in cui la società civile è più forte del mercato, e la regola non è soltanto quella del profitto, con i risultati che si sono visti".
Guardi che sei mesi non le bastano, segretario.
"Bastano e avanzano, se abbiamo le idee chiare"
(12 marzo 2009)
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