L’unione tra Alleanza nazionale e Forza Italia costituisce sicuramente un fatto positivo per la nostra democrazia. Non tanto perché sia un’ulteriore tappa verso la semplificazione del sistema politico italiano: rispetto ai taumaturgici effetti dell’ingegneria elettorale e costituzionale, occorre sempre manifestare una sana diffidenza. Ma per un motivo più semplice e un’osservazione più realistica: tra gli elettori dei due partiti una sostanziale unificazione è già avvenuta da tempo e, quindi, perpetuare una divisione dirigenziale sarebbe solo un inutile tentativo di autoconservazione dei grandi e piccoli gruppi di potere. Questa presa d’atto, però, non deve far compiere l’errore di sottovalutare l’interesse per le imprevedibili conseguenze del nuovo assetto nel centrodestra italiano. Perché nulla è scontato, tranne l’attuale indiscutibile leadership di Berlusconi.
A partire dalla fallace tesi di chi pensa che ammettere l’inesistenza di una diarchia con Fini equivalga ad ammettere che An stia confluendo in Forza Italia. L’evoluzione dell’area politica destinata a raccogliere la rappresentanza dell’Italia moderata e conservatrice che parte, oggi, dall’ultimo congresso di un partito nato a metà del secolo scorso, non terminerà certamente la prossima settimana, con la celebrazione della nascita del «Popolo della libertà». Le ultime mosse del presidente della Camera, infatti, hanno confermato una sua scelta strategica: quella di chiudere l’epoca della ricerca del «delfinato» rispetto a Berlusconi, come se Fini potesse limitarsi a raccogliere l’eredità del presidente del Consiglio. Una fase che, se davvero è esistita, da tempo si è compiuta nella pratica dimostrazione di un fallimento. Con l’unità tra i due partiti più grossi del centrodestra italiano si è aperta una sfida più ambiziosa. Quella di chi non si limita a portare nel nuovo partito l’orgoglio del proprio passato, di chi non vuole entrarci deponendo le armi. Ma di chi, anzi, presume di possederne migliori per vincere la competizione del futuro.
Non ci si deve aspettare, perciò, che Fini, durante questa legislatura, ingaggi una battaglia di logoramento, di punzecchiature, di prese di distanza nei confronti di Berlusconi. Coloro che, soprattutto nella sinistra italiana, pensano di trovare nel presidente della Camera un alleato, una «quinta colonna» dell’opposizione, si illudono o fingono di illudersi. Coloro che, nello schieramento di maggioranza, temono tradimenti politici e agguati parlamentari rischiano di non vedere, tra il fumo delle scaramucce quotidiane, il fuoco della futura decisiva battaglia. Il progetto di Fini è un altro e si basa su una fondamentale convinzione: quella di una superiorità «ideologica» dei valori da sempre sostenuti dal suo partito rispetto al pragmatismo aziendalista del presidente del Consiglio. La crisi, prima finanziaria e poi economica, che il mondo sta drammaticamente vivendo in questi giorni, infatti, sembra aver riportato alla ribalta, con una verniciatura più seducente, alcune tradizionali convinzioni della destra italiana.
Quella, per esempio, che il ruolo dello Stato conservi un’importanza fondamentale, sia come motore di sviluppo, sia come garanzia di una efficace e indispensabile rete di protezione per i cittadini. Ecco perché la difesa delle sue istituzioni, delle sue regole e, persino, di alcune prassi parlamentari, da parte di Fini, non deriva solo dal rispetto del ruolo che attualmente ricopre. Ma dalla certezza che, nei prossimi anni, solo chi avrà puntato al rafforzamento della centralità dello Stato nella vita pubblica sarà legittimato a guidarne le sorti. La scommessa di Fini, prima sulla futura egemonia culturale e, poi, su quella politica nei confronti dell’area di centrodestra, non punta solo sull’insperata resurrezione di alcuni «temi forti» del suo passato partitico. Ma sulla speranza di aver intuito alcune trasformazioni profonde del moderatismo italiano, come l’inarrestabile secolarizzazione modernizzante di quell’elettorato, che resta conservatore in economia e in politica, ma che non lo è più nel costume privato e pubblico. Il tentativo di non seguire il tradizionale ossequio berlusconiano per le posizioni delle gerarchie vaticane, con un laicismo non antireligioso, ma non dissimulato, dimostra proprio la sua volontà di cogliere questo mutamento e di rappresentarlo politicamente. Oggi, dunque, non si apre un congresso che dovrà stabilire chi comanderà nel nuovo partito unificato, perché i cittadini che hanno votato il centrodestra lo hanno già deciso. Né a chi andrà l’eredità di Berlusconi, perché quella personale è, sicuramente, un fatto di sangue e quella politica è, probabilmente, non trasmissibile. La vera competizione, nel centrodestra, è tra chi, anche senza cannocchiale, avrà visto meglio il nostro futuro.
A partire dalla fallace tesi di chi pensa che ammettere l’inesistenza di una diarchia con Fini equivalga ad ammettere che An stia confluendo in Forza Italia. L’evoluzione dell’area politica destinata a raccogliere la rappresentanza dell’Italia moderata e conservatrice che parte, oggi, dall’ultimo congresso di un partito nato a metà del secolo scorso, non terminerà certamente la prossima settimana, con la celebrazione della nascita del «Popolo della libertà». Le ultime mosse del presidente della Camera, infatti, hanno confermato una sua scelta strategica: quella di chiudere l’epoca della ricerca del «delfinato» rispetto a Berlusconi, come se Fini potesse limitarsi a raccogliere l’eredità del presidente del Consiglio. Una fase che, se davvero è esistita, da tempo si è compiuta nella pratica dimostrazione di un fallimento. Con l’unità tra i due partiti più grossi del centrodestra italiano si è aperta una sfida più ambiziosa. Quella di chi non si limita a portare nel nuovo partito l’orgoglio del proprio passato, di chi non vuole entrarci deponendo le armi. Ma di chi, anzi, presume di possederne migliori per vincere la competizione del futuro.
Non ci si deve aspettare, perciò, che Fini, durante questa legislatura, ingaggi una battaglia di logoramento, di punzecchiature, di prese di distanza nei confronti di Berlusconi. Coloro che, soprattutto nella sinistra italiana, pensano di trovare nel presidente della Camera un alleato, una «quinta colonna» dell’opposizione, si illudono o fingono di illudersi. Coloro che, nello schieramento di maggioranza, temono tradimenti politici e agguati parlamentari rischiano di non vedere, tra il fumo delle scaramucce quotidiane, il fuoco della futura decisiva battaglia. Il progetto di Fini è un altro e si basa su una fondamentale convinzione: quella di una superiorità «ideologica» dei valori da sempre sostenuti dal suo partito rispetto al pragmatismo aziendalista del presidente del Consiglio. La crisi, prima finanziaria e poi economica, che il mondo sta drammaticamente vivendo in questi giorni, infatti, sembra aver riportato alla ribalta, con una verniciatura più seducente, alcune tradizionali convinzioni della destra italiana.
Quella, per esempio, che il ruolo dello Stato conservi un’importanza fondamentale, sia come motore di sviluppo, sia come garanzia di una efficace e indispensabile rete di protezione per i cittadini. Ecco perché la difesa delle sue istituzioni, delle sue regole e, persino, di alcune prassi parlamentari, da parte di Fini, non deriva solo dal rispetto del ruolo che attualmente ricopre. Ma dalla certezza che, nei prossimi anni, solo chi avrà puntato al rafforzamento della centralità dello Stato nella vita pubblica sarà legittimato a guidarne le sorti. La scommessa di Fini, prima sulla futura egemonia culturale e, poi, su quella politica nei confronti dell’area di centrodestra, non punta solo sull’insperata resurrezione di alcuni «temi forti» del suo passato partitico. Ma sulla speranza di aver intuito alcune trasformazioni profonde del moderatismo italiano, come l’inarrestabile secolarizzazione modernizzante di quell’elettorato, che resta conservatore in economia e in politica, ma che non lo è più nel costume privato e pubblico. Il tentativo di non seguire il tradizionale ossequio berlusconiano per le posizioni delle gerarchie vaticane, con un laicismo non antireligioso, ma non dissimulato, dimostra proprio la sua volontà di cogliere questo mutamento e di rappresentarlo politicamente. Oggi, dunque, non si apre un congresso che dovrà stabilire chi comanderà nel nuovo partito unificato, perché i cittadini che hanno votato il centrodestra lo hanno già deciso. Né a chi andrà l’eredità di Berlusconi, perché quella personale è, sicuramente, un fatto di sangue e quella politica è, probabilmente, non trasmissibile. La vera competizione, nel centrodestra, è tra chi, anche senza cannocchiale, avrà visto meglio il nostro futuro.
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