LUIGI MORSELLO
Il giorno 11 aprile 1990 ero in servizio a Pavia, dirigevo la vecchia casa circondariale, in attesa della consegna del nuovo istituto, che avvenne a febbraio dell’anno 1992.
L’assassinio di Umberto Mormile, educatore in servizio nel carcere di Milano-Opera, avvenuto proprio quel giorno, fu vissuto con grande emozione ma anche preoccupazione, furono adombrate varie congetture, terrorismo, mafia.
Una misteriosa sigla (FALANGE ARMATA) rivendicò l’omicidio il giorno 27 ottobre 1990. La rivendicazione fu fatta con una telefonata al centralino dell’ANSA di Bologna.(Il Corriere della Sera, 28 novembre 1992).
“Per gli inquirenti sono inattendibili: esaltati, parassiti del terrore che cercano di cavalcare avvenimenti clamorosi.(Il Corriere della Sera, 28 dicembre 1992).
Almeno nell’assassinio di Mormile questa sigla stranissima non c’entrava per niente. Umberto Mormile era il compagno di Armida Miserere, direttore dell’amministrazione penitenziaria.
Si erano conosciuti a Parma, dove la Miserere era stata assegnata in qualità di vicedirettore di prima nomina.
Era noto che il Mormile fosse sposato, che aveva piantato in asso moglie (Maria Pasceri) e figlie per amore della Miserere, che i due vivevano assieme nell’alloggio di servizio del carcere di Lodi, del quale la Misere era direttore.
“A distanza di oltre otto anni, il 25 novembre scorso la corte presieduta da Luigi Domenico Cerqua si è fatta strada tra le dichiarazioni dei pentiti e i tentativi di depistaggio, individuando il mandante dell'omicidio in questo calabrese di Platì ritenuto il capo dei capi della 'ndrangheta in Lombardia nonostante sia in carcere da trent'anni. Di qui la condanna all'ergastolo. E ora nelle motivazioni della sentenza, i giudici spiegano come sono giunti al verdetto.”
“"Umberto Mormile è morto perché l'ha deciso Domenico Papalia. E Domenico Papalia l'ha deciso perché l'uomo che lui aveva corrotto l'aveva abbandonato, l'aveva lasciato solo, non l'aveva aiutato a ottenere nessuno dei benefici richiesti. Nonostante fosse a Opera, nel suo stesso carcere. Nonostante avesse personalità e ascendente tale da poter intervenire a suo vantaggio". Questo il movente individuato dai giudici della prima corte d'assise per l'omicidio dell'educatore del carcere di Opera Umberto Mormile avvenuto a colpi di arma da fuoco l'11 aprile 1990.
La mattina dell'10 aprile 1990 piove a Carpiano. Per questo l'omicidio viene rinviato di un giorno spiegherà agli investigatori Antonino Cuzzola, che il giorno dopo avrebbe guidato la moto. In sella con lui Antonio Schettini, incaricato di eseguire la sentenza di morte emessa da "Mico" Papalia attraverso il fratello Antonio. Si portano sulla provinciale 40, che in base ai sopralluoghi già effettuati, la vittima designata utilizza tutte le mattine per recarsi al carcere con la sua Alfa Romeo 33 e la aspettano in un'area di servizio … ".
Individuare il mandante dell'omicidio e soprattutto cercare di far luce sul movente non è stato facile, perché l'esecuzione di Mormile si intreccia con una brutta pagina dell'amministrazione penitenziaria. Prima che entrambi fossero trasferiti a Opera, sia l'ex secondino Mormile che il detenuto Papalia si trovavano al carcere di Parma dove, si scoprirà alla fine degli anni Ottanta, sono i detenuti a decidere a chi vanno i permessi speciali attraverso regalie a chi doveva redarre le relazioni. Le dichiarazioni dei pentiti coincidono nel momento in cui raccontano che Papalia all'epoca avesse dato a Mormile 30 milioni di lire per ottenere pareri favorevoli che gli erano valsi a ottenere la possibilità a lavorare all'esterno del carcere. E coincidono anche quando affermano che Papalia riteneva che Mormile si fosse comportato male con lui. Differiscono, invece, quando si tratta di entrare nel dettaglio. Chi dice che l'educatore avesse diffuso nell'ambiente una voce pregiudizievole per la reputazione del detenuto, ovvero che fosse un confidente dei servizi segreti; chi afferma che l'educatore avesse cambiato atteggiamento a causa della relazione con l'onesta Armida Miserere, la vice direttrice del carcere poi morta suicida il 19 aprile 2003, nel suo alloggio al carcere di Sulmona.
Per i giudici appare chiaro che "Domenico Papalia si arrabbia" perché una volta scoppiato lo scandalo su quanto avveniva a Parma e il trasferimento a Opera, "non otterrà più nulla". Avanza istanza di lavoro esterno o di semilibertà ma "non ottiene né l'uno, né l'altra". Non ottiene nemmeno i permessi premio fino al 26 luglio 1990, qualche mese dopo l'omicidio. "Papalia è in carcere e in carcere resta. Non riesce più a uscire - ricostruiscono i giudici -. Ma in quel carcere c'è un 'suo uomo', Mormile. Un funzionario che lui ha corrotto e che gli deve pertanto riconoscenza e fedeltà. Che si deve attivare. Che, invece, non si muove, non fa nulla. Chissà, ha cambiato idea, è diventato onesto, la sua compagna l'ha 'rovinato'. Papalia si trova davanti a un muro. Una chiusura totale".
Per questo "il 'suo uomo', quello che non l'ha aiutato nel momento del bisogno, che doveva invece aiutarlo, deve morire. Dà l'ordine al fratello Antonio e insiste, insiste. Fino a quando non viene accontentato". La sentenza viene eseguita in concorso con cinque persone.
L’assassinio di Umberto Mormile, educatore in servizio nel carcere di Milano-Opera, avvenuto proprio quel giorno, fu vissuto con grande emozione ma anche preoccupazione, furono adombrate varie congetture, terrorismo, mafia.
Una misteriosa sigla (FALANGE ARMATA) rivendicò l’omicidio il giorno 27 ottobre 1990. La rivendicazione fu fatta con una telefonata al centralino dell’ANSA di Bologna.(Il Corriere della Sera, 28 novembre 1992).
“Per gli inquirenti sono inattendibili: esaltati, parassiti del terrore che cercano di cavalcare avvenimenti clamorosi.(Il Corriere della Sera, 28 dicembre 1992).
Almeno nell’assassinio di Mormile questa sigla stranissima non c’entrava per niente. Umberto Mormile era il compagno di Armida Miserere, direttore dell’amministrazione penitenziaria.
Si erano conosciuti a Parma, dove la Miserere era stata assegnata in qualità di vicedirettore di prima nomina.
Era noto che il Mormile fosse sposato, che aveva piantato in asso moglie (Maria Pasceri) e figlie per amore della Miserere, che i due vivevano assieme nell’alloggio di servizio del carcere di Lodi, del quale la Misere era direttore.
“A distanza di oltre otto anni, il 25 novembre scorso la corte presieduta da Luigi Domenico Cerqua si è fatta strada tra le dichiarazioni dei pentiti e i tentativi di depistaggio, individuando il mandante dell'omicidio in questo calabrese di Platì ritenuto il capo dei capi della 'ndrangheta in Lombardia nonostante sia in carcere da trent'anni. Di qui la condanna all'ergastolo. E ora nelle motivazioni della sentenza, i giudici spiegano come sono giunti al verdetto.”
“"Umberto Mormile è morto perché l'ha deciso Domenico Papalia. E Domenico Papalia l'ha deciso perché l'uomo che lui aveva corrotto l'aveva abbandonato, l'aveva lasciato solo, non l'aveva aiutato a ottenere nessuno dei benefici richiesti. Nonostante fosse a Opera, nel suo stesso carcere. Nonostante avesse personalità e ascendente tale da poter intervenire a suo vantaggio". Questo il movente individuato dai giudici della prima corte d'assise per l'omicidio dell'educatore del carcere di Opera Umberto Mormile avvenuto a colpi di arma da fuoco l'11 aprile 1990.
La mattina dell'10 aprile 1990 piove a Carpiano. Per questo l'omicidio viene rinviato di un giorno spiegherà agli investigatori Antonino Cuzzola, che il giorno dopo avrebbe guidato la moto. In sella con lui Antonio Schettini, incaricato di eseguire la sentenza di morte emessa da "Mico" Papalia attraverso il fratello Antonio. Si portano sulla provinciale 40, che in base ai sopralluoghi già effettuati, la vittima designata utilizza tutte le mattine per recarsi al carcere con la sua Alfa Romeo 33 e la aspettano in un'area di servizio … ".
Individuare il mandante dell'omicidio e soprattutto cercare di far luce sul movente non è stato facile, perché l'esecuzione di Mormile si intreccia con una brutta pagina dell'amministrazione penitenziaria. Prima che entrambi fossero trasferiti a Opera, sia l'ex secondino Mormile che il detenuto Papalia si trovavano al carcere di Parma dove, si scoprirà alla fine degli anni Ottanta, sono i detenuti a decidere a chi vanno i permessi speciali attraverso regalie a chi doveva redarre le relazioni. Le dichiarazioni dei pentiti coincidono nel momento in cui raccontano che Papalia all'epoca avesse dato a Mormile 30 milioni di lire per ottenere pareri favorevoli che gli erano valsi a ottenere la possibilità a lavorare all'esterno del carcere. E coincidono anche quando affermano che Papalia riteneva che Mormile si fosse comportato male con lui. Differiscono, invece, quando si tratta di entrare nel dettaglio. Chi dice che l'educatore avesse diffuso nell'ambiente una voce pregiudizievole per la reputazione del detenuto, ovvero che fosse un confidente dei servizi segreti; chi afferma che l'educatore avesse cambiato atteggiamento a causa della relazione con l'onesta Armida Miserere, la vice direttrice del carcere poi morta suicida il 19 aprile 2003, nel suo alloggio al carcere di Sulmona.
Per i giudici appare chiaro che "Domenico Papalia si arrabbia" perché una volta scoppiato lo scandalo su quanto avveniva a Parma e il trasferimento a Opera, "non otterrà più nulla". Avanza istanza di lavoro esterno o di semilibertà ma "non ottiene né l'uno, né l'altra". Non ottiene nemmeno i permessi premio fino al 26 luglio 1990, qualche mese dopo l'omicidio. "Papalia è in carcere e in carcere resta. Non riesce più a uscire - ricostruiscono i giudici -. Ma in quel carcere c'è un 'suo uomo', Mormile. Un funzionario che lui ha corrotto e che gli deve pertanto riconoscenza e fedeltà. Che si deve attivare. Che, invece, non si muove, non fa nulla. Chissà, ha cambiato idea, è diventato onesto, la sua compagna l'ha 'rovinato'. Papalia si trova davanti a un muro. Una chiusura totale".
Per questo "il 'suo uomo', quello che non l'ha aiutato nel momento del bisogno, che doveva invece aiutarlo, deve morire. Dà l'ordine al fratello Antonio e insiste, insiste. Fino a quando non viene accontentato". La sentenza viene eseguita in concorso con cinque persone.
L'omicidio è premeditato.”(http://www.affaritaliani.it/, 19 marzo 2009). La ricostruzione dei fatti del quotidiano online http://www.affaritaliani.it/ sembra attendibile.
Se ne riceve conferma anche da un pezzo di Luca Fazzo (Il Giornale, 26 novembre 2008), che precisa: “Ieri sera viene condannato all’ergastolo l’uomo che per la Procura fu il mandante di quell’omicidio: e si tratta nientemeno che di Domenico Papalia, calabrese di Platì, considerato dagli inquirenti - nonostante sia in carcere da trent’anni - il Capo dei capi della ’ndrangheta in Lombardia, il boss in grado di ordinare dalla cella delitti, alleanze, strategie. Ma per arrivare alla condanna di Papalia si è dovuto scavare in modo impietoso sulla figura della vittima. Chi era davvero Umberto Mormile, e perché venne ammazzato? Domande che hanno portato a scavare ancora più a ritroso, in uno dei capitoli più singolari della storia carceraria italiana. Perché la traccia decisiva - secondo l’inchiesta del pubblico ministero Alberto Nobili - risale fino alla fine degli anni Ottanta, quando nel carcere di Parma a dettare legge non era lo Stato ma il gruppo di detenuti eccellenti che in quella prigione erano rinchiusi. Tutti i protagonisti di questa storia si incrociano allora nel carcere di Parma. Lì lavora Mormile, ex secondino divenuto educatore. Lì lavora Armida Miserere, vicedirettrice e compagna di Mormile. Lì è rinchiuso Domenico Papalia. È già condannato all’ergastolo per un vecchio delitto, ma fa quel che vuole: permessi a volontà, la possibilità di lavorare fuori dal carcere. «A dirigere di fatto il carcere di Parma - raccontano diversi testimoni - era un gruppo di reclusi tra cui "Mico" Papalia». Quando lo scandalo viene a galla, i protagonisti vengono allontanati da Parma. Papalia finisce a Opera. E lì si ritrova con Mormile. Cosa accada a quel punto neanche la requisitoria del pm Nobili è riuscito a stabilirlo con certezza. Al boss vengono sospesi tutti i permessi, tutti i benefici carcerari. Papalia va su tutte le furie. E, dice l’accusa, se la prende con Mormile. Perché? Dai tanti pentiti interrogati nel corso delle indagini sono arrivate versioni diverse. Chi dice che Mormile fosse a libro paga di Papalia dai tempi di Parma, e che dopo lo scandalo si fosse tirato indietro. Chi dice che anche ad Opera si fosse fatto dare trenta milioni in cambio di favori mai concessi.”
La vicenda umana di Armida Miserere è tristissima.
Ispira una ricostruzione da parte di Cristina Zagaria, che scrive un biografia: Miserere. Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello stato (Dario Flaccovio, 2006) — p. 310 — euro 14,50.
L’uscita del libro motiva un servizio del TGR Molise.
“La mia unica compagnia sono i miei cani, Leon e Luna. Io mi identifico spesso con gli uomini; quando cammino, dicono, incuto timore, fumo Super senza filtro, metto la mimetica militare. Ho 41 anni, sono sempre stata così, e morirò così, e non chiamatemi direttrice che mi manda su tutte le furie, io sono il direttore e basta." (Stralcio dall’intervista pubblicata su Io Donna del 15 Novembre 1997).
Due anni più tardi gli autori materiali dell’assassinio di Mormile ed il mandante sono stati condannati dalla Corte d’Assise di Milano, la sentenza è stata depositata il 19 marzo 2009.
Armida intuisce qual è la pista giusta, l’omicidio ha origini lontane, fino all’anno 1984, nel carcere di Parma, dove lei viene assegnata nel 1984, ha 28 anni, è figlia di un ufficiale della marina militare, è nata a Casacalende (Campobasso) nel 1956, è laureata in criminologia.
In una intervista a Cristina Zagaria Gianni Paris le rivolge alcune domande, che merita riportare con le relative risposte.
“I colleghi uomini hanno sempre avuto la puzza sotto al naso nei confronti della Miserere. Lei che si ostinava a ricoprire un lavoro e un incarico destinato all’altro sesso. Coraggio, pazzia o testardaggine?
Soprattutto testardaggine, all’inizio. Il padre di Armida era un ufficiale della Marina militare. Armida lo amava smisuratamente e per lei era un modello. Forse il suo voler vivere una vita da uomo era un po’, credo, come indossare in segreto la divisa del padre, seguire le sue orme. Anche se dopo la morte di Umberto Mormile, il compagno, il suo è diventato coraggio: coraggio di non mollare mai e di dedicare la sua esistenza a scoprire chi aveva ucciso il suo uomo e perché, a un prezzo altissimo. Missioni difficili, notti insonni, nessun compromesso (mai), colleghi maligni, una vita nonvita in un mondo in cui i delinquenti non sempre sono quelli dietro le sbarre.
La Miserere era dalla parte dei detenuti. Per questo amava il suo lavoro?
Armida ha scelto il lavoro in carcere perché voleva capire, voleva aiutare i detenuti, tentare un’opera di recupero. Erano gli anni della legge Gozzini.
Questa spinta ideale non l’ha mai persa. Ma dopo che «il carcere» le ha ammazzato l’unico vero uomo della sua vita, il suo amore per il lavoro è diventato una sfida: l’applicazione delle regole per tutti, detenuti e polizia penitenziaria. Un gioco sottile. Lei era sempre irreprensibile, perfetta, lavorava anche 24 ore al giorno, sette giorni su sette, e pretendeva la stessa perfezione dal carcere. Alla fine non so se distinguesse più tra uomini e mura. A un certo punto, credo che per lei il carcere sia diventato un’entità. Il suo tormento e la sua opera ideale. È questo il suo fascino, questa bipolarità, questa grande energia che diventa ossessione. E alla fine esplode.
Dal libro esce forte la figura di Umberto Mormile, il suo compagno. Cosa ha omesso nella narrazione del dolore della Miserere dopo la sua scomparsa?
Niente. Armida nel dolore è nuda. Credo solo che lei avesse un’idea precisa di chi siano stati gli assassini.
Un’idea che lei ha detto subito, ma ci sono voluti anni per trovare prove e riscontri, tra «intossicazioni» delle indagini e strane rivendicazioni, come quella della «Falange Armata». Anche se credo che alla fine depistaggi e assunzioni di responsabilità molto lontane da quelle dei veri esecutori dell’omicidio (uomini della camorra) non siano episodi così estemporanei.
Tutt’altro. È un cerchio che, forse, al momento giusto troverà la sua quadratura. La verità di Armida coincide con la verità poi provata in tribunale, ma la giustizia ha punito solo gli esecutori. Chi sono i mandanti? Nelle ultime righe del libro c’è un’ipotesi. Non è scritta chiaramente. Non potevo. Non tocca a me, né a un romanzo o a una biografia. Ma so che Armida e anche il fratello di Umberto, Stefano Mormile, hanno sempre cercato la verità. E mi piacerebbe se questo libro potesse servire a sollevare dei dubbi, a trovare delle risposte. Sarebbe l’ultima grande vittoria di Armida”.
Le osservazioni della Zagaria sono utili per capire il carattere di Armida, ma non sufficienti per capirlo fino in fondo e non può essere diversamente perché lei Armida non l’ha conosciuta in vita.
Io sì e posso dire che i colleghi maschi non la guardavano con ostilità ma con perplessità, non si capiva il motivo di tanta rudezza di comportamenti.
L’educazione familiare ha indubbiamente inciso molto sulla formazione di questo carattere. La Miserere aveva un fratello, per cui è temerario ipotizzare che questo suo desiderio, se non addirittura ostinazione, di essere alla pari dei maschi corrispondesse ad un insoddisfatto desiderio paterno, forse una educazione troppo rigida, militaresca.
La prima volta che conobbi e parlai con Armida fu nel 1984, nell’ufficio del direttore delle Nuove di Torino, il cui direttore Giuseppe Suraci era stato destinato, con uno dei tanti provvedimenti ‘anomali’ di cui è costellata la storia dell’amministrazione penitenziaria, in missione per soli tre giorni la settimana a Firenze, per attendere alle operazioni apertura della nuova casa circondariale di Sollicciano, gli altri tre giorni restava a Torino.
Io ero direttore ad Alessandria, fui chiamato proprio io a questa singolare sostituzione per tre giorni la settimana.
Il Sindacato Direttivi Penitenziari (SI.DI.PE.), che sindacato non era ma una semplice associazione di categoria, preparava uno sciopero e i direttori del Piemonte decisero di riunirsi proprio a Torino, presso Le Nuove, naturalmente in un giorno in cui c’ero io in servizio.
La Miserere dirigeva Le Vallette (mi pare, non sono certo di questo ricordo) che non era ancora in funzione ma che fu utilizzato per un maxi-processo alle B.R., venne alla riunione, si accorse che era tutto un blaterare inconcludente (io feci presente che le assenze ognuno di noi le doveva segnale alla Direzione Provinciale del Tesoro competente, ma c’era disaccordo), tentò di trascinare i colleghi maschi a scioperare, si infuriò, si alzò d’improvviso e se ne andò borbottando qualcosa che io non capii, furono inutili i tentativi di fermarla. Ciò lasciò interdetti i presenti, ma chi la conosceva disse che era fatta così.
Non sono famoso io per essere stato un direttore diplomatico, ma anch’io restai interdetto, la reazione mi sembrò ed era eccessiva.
Ho appena un ricordo di altri incontri casuali senza storia.
Non mi è chiara la sequenza degli incarichi che le furono assegnati nel periodo di mezzo, certo è che nel 1990 era direttore titolare a Lodi, un piccolo vecchio carcere prima di allora diretto dal Procuratore della Repubblica (Lodi è sede di Tribunale), nonostante le modifiche apportate all’ordinamento giudiziario con la riforma penitenziaria del 1975 non lo consentissero più.
La tragedia dell’uccisione di Umberto Mormile per la Miserere è stata durissima e irrimediabile per due ordini di motivi.
Il primo va individuato nella circostanza che a Parma, dove Mormile prestava servizio da educatore essendo passato per il lavoro di agente di custodia e dove i due si sono conosciuti, si trovano le radici dell’omicidio per vendetta, per uno ‘sgarro’.
A Parma c’era Domenico Papalia, a Parma infuriò uno scandalo per il quale il Papalia fu mandato via, trasferito nel carcere di Opera.
Ma a Opera la situazione era cambiata, imprevedibilmente e in modo irreversibile, la chiusura di Mormile verso Papalia fu totale. Il detenuto non se ne dava pace perché a Parma Mormile si fece corrompere, lo afferma la sentenza della Corte d’Assise milanese. Non occorre far richiamo alla filmografia per capire che da quelle ‘compromissioni’ non se ne esce più fuori.
La Miserere non può non essersene resa conto, magari lo ha saputo con certezza dal suo uomo, ma, rigida e di saldi principi etici, mutuati dalla figura paterna, convince il suo uomo a sottrarsi, magari traendo profitto del trasferimento del Mormile.
Tutto fila liscio fino a quando i due, Mormile e Papalia, non incrociano di nuovo le loro strade.
Ecco, qui per me la situazione diventa incomprensibile, Mormile doveva farsi trasferire immediatamente o farsi distaccare in un altro istituto, anche della Lombardia: era l’unico modo di sottrarsi al ricatto prima che fosse formulato, dopo sarebbe stato troppo tardi.
Armida Miserere deve avere avuto un ruolo importante per mantenere salda la decisione di Mormile di non subire più, sottovalutandosi in modo inspiegabile i rischi di una resistenza ‘in loco’, presso il carcere di Opera, dove le insistenze del Papalia diventano sempre più pressanti, fin quando egli decide, secondo la sentenza della corte d’assise milanese, di fargliela pagare e condanna a morte il povero Umberto Mormile.
Il secondo motivo è nella circostanza che Armida Miserere, che ovviamente capisce subito cosa è successo e chi lo ha fatto succedere, sente un dolore doppiamente forte, per la morte del suo uomo e per non aver previsto cos’era accaduto o averlo tragicamente sottovalutato.
Inizia qui il calvario di una donna distrutta dal dolore e, forse, dal rimorso, che peregrina nei carceri più pericolosi della penisola, alla ricerca di prove, prove che non riesce evidentemente a trovare, prove producibili in giudizio, ovviamente. E si consuma progressivamente, lentamente e inesorabilmente.
Nel video compare una fotografia del periodo di missione all’Ucciardone, in cui il volto di Armida è irriconoscibile, quasi, una maschera tragica ben diversa dalle immagini che conosciamo e dalla donna che io avevo conosciuto, la stessa espressione che aveva quando la incontrai a Roma per l’ultima volta.
La vita terrena di Armida termina con un colpo di pistola, lei viene trovata nell’alloggio di servizio, sul letto, con ancora la pistola in mano, nella mano sinistra (ma forse è un orecchio del cane) e un cane accucciato vicino a lei.
La fotografia, filtrata e presente sul web, non è abbastanza nitida, ma è struggente, commovente, mostra una donna finalmente acquietata nella morte, alla quale si è presentata vestita di bianco, l’orologio al polso sinistro e semplici monili d’oro al destro.
Se ne riceve conferma anche da un pezzo di Luca Fazzo (Il Giornale, 26 novembre 2008), che precisa: “Ieri sera viene condannato all’ergastolo l’uomo che per la Procura fu il mandante di quell’omicidio: e si tratta nientemeno che di Domenico Papalia, calabrese di Platì, considerato dagli inquirenti - nonostante sia in carcere da trent’anni - il Capo dei capi della ’ndrangheta in Lombardia, il boss in grado di ordinare dalla cella delitti, alleanze, strategie. Ma per arrivare alla condanna di Papalia si è dovuto scavare in modo impietoso sulla figura della vittima. Chi era davvero Umberto Mormile, e perché venne ammazzato? Domande che hanno portato a scavare ancora più a ritroso, in uno dei capitoli più singolari della storia carceraria italiana. Perché la traccia decisiva - secondo l’inchiesta del pubblico ministero Alberto Nobili - risale fino alla fine degli anni Ottanta, quando nel carcere di Parma a dettare legge non era lo Stato ma il gruppo di detenuti eccellenti che in quella prigione erano rinchiusi. Tutti i protagonisti di questa storia si incrociano allora nel carcere di Parma. Lì lavora Mormile, ex secondino divenuto educatore. Lì lavora Armida Miserere, vicedirettrice e compagna di Mormile. Lì è rinchiuso Domenico Papalia. È già condannato all’ergastolo per un vecchio delitto, ma fa quel che vuole: permessi a volontà, la possibilità di lavorare fuori dal carcere. «A dirigere di fatto il carcere di Parma - raccontano diversi testimoni - era un gruppo di reclusi tra cui "Mico" Papalia». Quando lo scandalo viene a galla, i protagonisti vengono allontanati da Parma. Papalia finisce a Opera. E lì si ritrova con Mormile. Cosa accada a quel punto neanche la requisitoria del pm Nobili è riuscito a stabilirlo con certezza. Al boss vengono sospesi tutti i permessi, tutti i benefici carcerari. Papalia va su tutte le furie. E, dice l’accusa, se la prende con Mormile. Perché? Dai tanti pentiti interrogati nel corso delle indagini sono arrivate versioni diverse. Chi dice che Mormile fosse a libro paga di Papalia dai tempi di Parma, e che dopo lo scandalo si fosse tirato indietro. Chi dice che anche ad Opera si fosse fatto dare trenta milioni in cambio di favori mai concessi.”
La vicenda umana di Armida Miserere è tristissima.
Ispira una ricostruzione da parte di Cristina Zagaria, che scrive un biografia: Miserere. Vita e morte di Armida Miserere, servitrice dello stato (Dario Flaccovio, 2006) — p. 310 — euro 14,50.
L’uscita del libro motiva un servizio del TGR Molise.
“La mia unica compagnia sono i miei cani, Leon e Luna. Io mi identifico spesso con gli uomini; quando cammino, dicono, incuto timore, fumo Super senza filtro, metto la mimetica militare. Ho 41 anni, sono sempre stata così, e morirò così, e non chiamatemi direttrice che mi manda su tutte le furie, io sono il direttore e basta." (Stralcio dall’intervista pubblicata su Io Donna del 15 Novembre 1997).
Due anni più tardi gli autori materiali dell’assassinio di Mormile ed il mandante sono stati condannati dalla Corte d’Assise di Milano, la sentenza è stata depositata il 19 marzo 2009.
Armida intuisce qual è la pista giusta, l’omicidio ha origini lontane, fino all’anno 1984, nel carcere di Parma, dove lei viene assegnata nel 1984, ha 28 anni, è figlia di un ufficiale della marina militare, è nata a Casacalende (Campobasso) nel 1956, è laureata in criminologia.
In una intervista a Cristina Zagaria Gianni Paris le rivolge alcune domande, che merita riportare con le relative risposte.
“I colleghi uomini hanno sempre avuto la puzza sotto al naso nei confronti della Miserere. Lei che si ostinava a ricoprire un lavoro e un incarico destinato all’altro sesso. Coraggio, pazzia o testardaggine?
Soprattutto testardaggine, all’inizio. Il padre di Armida era un ufficiale della Marina militare. Armida lo amava smisuratamente e per lei era un modello. Forse il suo voler vivere una vita da uomo era un po’, credo, come indossare in segreto la divisa del padre, seguire le sue orme. Anche se dopo la morte di Umberto Mormile, il compagno, il suo è diventato coraggio: coraggio di non mollare mai e di dedicare la sua esistenza a scoprire chi aveva ucciso il suo uomo e perché, a un prezzo altissimo. Missioni difficili, notti insonni, nessun compromesso (mai), colleghi maligni, una vita nonvita in un mondo in cui i delinquenti non sempre sono quelli dietro le sbarre.
La Miserere era dalla parte dei detenuti. Per questo amava il suo lavoro?
Armida ha scelto il lavoro in carcere perché voleva capire, voleva aiutare i detenuti, tentare un’opera di recupero. Erano gli anni della legge Gozzini.
Questa spinta ideale non l’ha mai persa. Ma dopo che «il carcere» le ha ammazzato l’unico vero uomo della sua vita, il suo amore per il lavoro è diventato una sfida: l’applicazione delle regole per tutti, detenuti e polizia penitenziaria. Un gioco sottile. Lei era sempre irreprensibile, perfetta, lavorava anche 24 ore al giorno, sette giorni su sette, e pretendeva la stessa perfezione dal carcere. Alla fine non so se distinguesse più tra uomini e mura. A un certo punto, credo che per lei il carcere sia diventato un’entità. Il suo tormento e la sua opera ideale. È questo il suo fascino, questa bipolarità, questa grande energia che diventa ossessione. E alla fine esplode.
Dal libro esce forte la figura di Umberto Mormile, il suo compagno. Cosa ha omesso nella narrazione del dolore della Miserere dopo la sua scomparsa?
Niente. Armida nel dolore è nuda. Credo solo che lei avesse un’idea precisa di chi siano stati gli assassini.
Un’idea che lei ha detto subito, ma ci sono voluti anni per trovare prove e riscontri, tra «intossicazioni» delle indagini e strane rivendicazioni, come quella della «Falange Armata». Anche se credo che alla fine depistaggi e assunzioni di responsabilità molto lontane da quelle dei veri esecutori dell’omicidio (uomini della camorra) non siano episodi così estemporanei.
Tutt’altro. È un cerchio che, forse, al momento giusto troverà la sua quadratura. La verità di Armida coincide con la verità poi provata in tribunale, ma la giustizia ha punito solo gli esecutori. Chi sono i mandanti? Nelle ultime righe del libro c’è un’ipotesi. Non è scritta chiaramente. Non potevo. Non tocca a me, né a un romanzo o a una biografia. Ma so che Armida e anche il fratello di Umberto, Stefano Mormile, hanno sempre cercato la verità. E mi piacerebbe se questo libro potesse servire a sollevare dei dubbi, a trovare delle risposte. Sarebbe l’ultima grande vittoria di Armida”.
Le osservazioni della Zagaria sono utili per capire il carattere di Armida, ma non sufficienti per capirlo fino in fondo e non può essere diversamente perché lei Armida non l’ha conosciuta in vita.
Io sì e posso dire che i colleghi maschi non la guardavano con ostilità ma con perplessità, non si capiva il motivo di tanta rudezza di comportamenti.
L’educazione familiare ha indubbiamente inciso molto sulla formazione di questo carattere. La Miserere aveva un fratello, per cui è temerario ipotizzare che questo suo desiderio, se non addirittura ostinazione, di essere alla pari dei maschi corrispondesse ad un insoddisfatto desiderio paterno, forse una educazione troppo rigida, militaresca.
La prima volta che conobbi e parlai con Armida fu nel 1984, nell’ufficio del direttore delle Nuove di Torino, il cui direttore Giuseppe Suraci era stato destinato, con uno dei tanti provvedimenti ‘anomali’ di cui è costellata la storia dell’amministrazione penitenziaria, in missione per soli tre giorni la settimana a Firenze, per attendere alle operazioni apertura della nuova casa circondariale di Sollicciano, gli altri tre giorni restava a Torino.
Io ero direttore ad Alessandria, fui chiamato proprio io a questa singolare sostituzione per tre giorni la settimana.
Il Sindacato Direttivi Penitenziari (SI.DI.PE.), che sindacato non era ma una semplice associazione di categoria, preparava uno sciopero e i direttori del Piemonte decisero di riunirsi proprio a Torino, presso Le Nuove, naturalmente in un giorno in cui c’ero io in servizio.
La Miserere dirigeva Le Vallette (mi pare, non sono certo di questo ricordo) che non era ancora in funzione ma che fu utilizzato per un maxi-processo alle B.R., venne alla riunione, si accorse che era tutto un blaterare inconcludente (io feci presente che le assenze ognuno di noi le doveva segnale alla Direzione Provinciale del Tesoro competente, ma c’era disaccordo), tentò di trascinare i colleghi maschi a scioperare, si infuriò, si alzò d’improvviso e se ne andò borbottando qualcosa che io non capii, furono inutili i tentativi di fermarla. Ciò lasciò interdetti i presenti, ma chi la conosceva disse che era fatta così.
Non sono famoso io per essere stato un direttore diplomatico, ma anch’io restai interdetto, la reazione mi sembrò ed era eccessiva.
Ho appena un ricordo di altri incontri casuali senza storia.
Non mi è chiara la sequenza degli incarichi che le furono assegnati nel periodo di mezzo, certo è che nel 1990 era direttore titolare a Lodi, un piccolo vecchio carcere prima di allora diretto dal Procuratore della Repubblica (Lodi è sede di Tribunale), nonostante le modifiche apportate all’ordinamento giudiziario con la riforma penitenziaria del 1975 non lo consentissero più.
La tragedia dell’uccisione di Umberto Mormile per la Miserere è stata durissima e irrimediabile per due ordini di motivi.
Il primo va individuato nella circostanza che a Parma, dove Mormile prestava servizio da educatore essendo passato per il lavoro di agente di custodia e dove i due si sono conosciuti, si trovano le radici dell’omicidio per vendetta, per uno ‘sgarro’.
A Parma c’era Domenico Papalia, a Parma infuriò uno scandalo per il quale il Papalia fu mandato via, trasferito nel carcere di Opera.
Ma a Opera la situazione era cambiata, imprevedibilmente e in modo irreversibile, la chiusura di Mormile verso Papalia fu totale. Il detenuto non se ne dava pace perché a Parma Mormile si fece corrompere, lo afferma la sentenza della Corte d’Assise milanese. Non occorre far richiamo alla filmografia per capire che da quelle ‘compromissioni’ non se ne esce più fuori.
La Miserere non può non essersene resa conto, magari lo ha saputo con certezza dal suo uomo, ma, rigida e di saldi principi etici, mutuati dalla figura paterna, convince il suo uomo a sottrarsi, magari traendo profitto del trasferimento del Mormile.
Tutto fila liscio fino a quando i due, Mormile e Papalia, non incrociano di nuovo le loro strade.
Ecco, qui per me la situazione diventa incomprensibile, Mormile doveva farsi trasferire immediatamente o farsi distaccare in un altro istituto, anche della Lombardia: era l’unico modo di sottrarsi al ricatto prima che fosse formulato, dopo sarebbe stato troppo tardi.
Armida Miserere deve avere avuto un ruolo importante per mantenere salda la decisione di Mormile di non subire più, sottovalutandosi in modo inspiegabile i rischi di una resistenza ‘in loco’, presso il carcere di Opera, dove le insistenze del Papalia diventano sempre più pressanti, fin quando egli decide, secondo la sentenza della corte d’assise milanese, di fargliela pagare e condanna a morte il povero Umberto Mormile.
Il secondo motivo è nella circostanza che Armida Miserere, che ovviamente capisce subito cosa è successo e chi lo ha fatto succedere, sente un dolore doppiamente forte, per la morte del suo uomo e per non aver previsto cos’era accaduto o averlo tragicamente sottovalutato.
Inizia qui il calvario di una donna distrutta dal dolore e, forse, dal rimorso, che peregrina nei carceri più pericolosi della penisola, alla ricerca di prove, prove che non riesce evidentemente a trovare, prove producibili in giudizio, ovviamente. E si consuma progressivamente, lentamente e inesorabilmente.
Nel video compare una fotografia del periodo di missione all’Ucciardone, in cui il volto di Armida è irriconoscibile, quasi, una maschera tragica ben diversa dalle immagini che conosciamo e dalla donna che io avevo conosciuto, la stessa espressione che aveva quando la incontrai a Roma per l’ultima volta.
La vita terrena di Armida termina con un colpo di pistola, lei viene trovata nell’alloggio di servizio, sul letto, con ancora la pistola in mano, nella mano sinistra (ma forse è un orecchio del cane) e un cane accucciato vicino a lei.
La fotografia, filtrata e presente sul web, non è abbastanza nitida, ma è struggente, commovente, mostra una donna finalmente acquietata nella morte, alla quale si è presentata vestita di bianco, l’orologio al polso sinistro e semplici monili d’oro al destro.
11 commenti:
Complimenti, bell'articolo hai scritto. Traspare la passionalità verso il Tuo lavoro e l'emotività nell'aver conosciuto la Miserere.
Strana davvero la sfida del Mormile nel rimanere a lavorare là dove c'era il Suo corruttore.
Tragica e toccante la storia di questa donna dalla forte personalità.
Ciao.
"No, per quanto riguarda i direttori donne non ne conosco altre così.
conosco direttori donne che hanno intrecciato relazioni con un procuratore della repubblica (anni fa), con un detenuto, che l'ha messa incinta mentre era ancora in carcere e poi, liberato, l'ha sposata, ma una storia così drammatica, così crudele francamente no.
L'educatore più che ambiguo era debole di carattere, prima si fece corrompere dal capo della 'ndrangheta milanese (lo è ancora oggi), poi fu riscattato dal direttore donna, che lo dominò col suo carattere condannandolo però a morte nello stesso tempo. Sarebbe bastato poco perchè non accadesse, ma non l'hanno capito.
Parlare di ideologia quando si parla di 'ndrangheta è davvero riduttivo, è una organizzazione mafiosa mista di antico e moderno (con i colombiani del cartello della droga sono stati visti a pranzo e poi stare zitti e stringere accordi con facebook, che non è intercettabile, si scambiavano messaggi seduti allo stesso tavolo !)
Sì, il mio blog è frequentato, ma perchè faccio una rassegna stampa quasi quotidiana che giudicano interessante.
Ogni tanto ci infilo un mio articolo, uno di Aldo Maturo, un racconto di Luigi Pagano (un poliziotto di Napoli), ma sopratutto un articolo di Roberto Ormanni.
Però commenti pochissimi, c'è una generale afonia, una incapacità di pensare e/o di esprimersi sconsolante.
Gli unici commenti mi arrivano da quattro-cinque donne, rarissimo un maschietto."
Cara amica, questa che leggi è la mia risposta ad un commento che mi è pervenuto tramite e-mail da un caro amico.
Credo che vi siano risposte anche per te, che, gentilissima, mi hai dato il tuo apprezzamento.
Bell'articolo!
Complimenti!
Leggendo, si ricava netta l'impressione di quanto questa storia ti abbia emotivamente coinvolto.
Storia tragica di vita, d'amore, di morte.
Povera donna...
Madda
Ciao, impressionante la lettura della tua storia, perchè ti ha così coinvolto da avreti portato a narrarla con un pathos davvero entusiasmante.Chi scrive è un dipendente dell'amministrazione che mal condivide i silenzi e le ambiguità a cui sono quotidianamente sottoposti i suoi servitori.Una domanda sorge spontanea sempre se tu puoi darne una risposta esaustiva:ma sbaglio o anche il nome di Stefano Mormile gira nella stessa amministrazione? Omonimia?
Quindi mi chiedevo in una enfasi investigativa, perchè singolarmente l'amministrazione penitenziaria saputo cosa succedeva a Parma, decide il trasferimento ad Opera sia del detenuto che del funzionario ucciso. Perchè? Marcello
Grazie. Sì, mi ha coinvolto, ma io ho diretto carceri per 40 anni e l'ho fatto senza risparmiarmi e senza preoccuparmi della carriera, una parola che mi ha sempre disgustato. Perchè far carriera comporta di pagare un prezzo, che non sono stato mai disposto a pagare, puoi intuire quale. Se ti va, nel mio profilo c'è la mia e-mail (puoi sfogarti con me conservando l'anonimato) e inoltre sono anche su facebook, ma lì avresti visibilità. Fatti vivo, per qualunque cosa di cui tu avessi bisogno, e amici tuoi che sono nell'amministrazione penitenziaria e hanno problemi tecnico-giuridici.
E vota Di Pietro !
Io arrivai sul posto pochi minuti dopo l'omicidio.Andavo in università,quel giorno.Ricordo ancora al semaforo,il capo riverso sul volante.Provenivo da Melegnano e stavo svoltando per Landriano.Vidi i lampeggianti e udii lo stridore dei freni,della prima gazzella che stava sopraggiungendo.Sono passati 20 anni da allora.Non riesco a dimenticare
CHE COSA HA CAUSATO UN RICORDO COSI' FORTE DA ESSERE PRESENTE NELLA TUA MENTE DOPO 20 ANNI ? ERA IL PRIMO CASO DI OMICIDIO DI CUI VEDEVI GLI EFFETTI ? C'ERA FORSE CONFUSIONE, CURIOSITA' MOFROBISA NEGLI ALTRI, INDIFFERENZA O CHE ALTRO ?
GRAZIE PER LA TESTIMONIANZA.
Luigi Morsello è stato un grande.
Preferisco restare anonimo. MAGARI NELL'AMMINISTRAZIONE IN GENERALE CI FOSSERO GENTE COME LA MISERERE E IL MORSELLO.
Sono un Poliziotto Penitenziario
chè ha prestato servizio a pv
Ti ringrazio, caro amico, per le tue parole e il tuo apprezzamento, nei confronti della Miserere e miei personali. Vuoi restare anonimo, va bene, ma puoi scrivermi un mail, la trovi nel mio profilo, mi farebbe molto piacere. Analogo invito rivolgo agli altri che hanno rilasciato commenti, anche importanti (come quello che sopraggiunse subito dopo l'attentato, mortale, a Mormile).
Teniamoci in contatto, se posso essere utile sono a disposizione, senza oneri, quindi gratuitamente, come sempre.
Sono passati tanti anni ma anch'io non posso dimenticare tutto ciò che ha stravolto la mia vita di bambina.Umberto Mormile era mio padre.
Grazie per tutto l'articolo che mi ha permesso di approfondire un fatto che non conoscevo. Ieri infatti ho visto il film "Come il vento" incentrato sulla Miserere, film girato molto bene tra l'altro. Mi sono permesso di linkare il tuo pezzo dal sito di cinema dove ho recensito il film.
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