lunedì 23 marzo 2009

"Ora ha accettato la mia leadership"


23/3/2009
AUGUSTO MINZOLINI

L'ex delfino di Giorgio Almirante si è liberato di ogni incrostazione programmatico- culturale. Ha abbracciato le logiche e il linguaggio dei moderati, del «centro», guardando al Ppe. Si è dato una prospettiva di lungo termine, con l’idea di costruire il proprio futuro non in alternativa al Cavaliere, ma sul dopo Cavaliere. E si è tolto di dosso l’immagine angusta, senza respiro del capo della corrente di An dentro il Pdl a cui volevano crocifiggerlo i suoi. Il personaggio ha spiccato il volo. Si è messo in discussione e ha esortato i suoi a fare altrettanto perché - sono sue parole - «se An deve restare organizzata per organigrammi, poltrone e posti nei consigli diamministrazione tanto vale scioglierla subito». Poi, naturalmente, ha condito il discorso con punture verso Silvio Berlusconi di cui, comunque, riconosce senza infingimenti la leadership («no al culto della personalità»), ma si tratta di elementi secondari, con cui Fini sta tentando di ritagliarsi un ruolo dentro il nuovo partito. Quello che, invece, sicuramente viene meno è il presunto «dualismo » tra lui e il Cavaliere. A parte alcune differenze programmatiche Fini lavora nel solco non in alternativa al Premier. Non potrebbe essere altrimenti visto che non ragiona più in termini di destra ma di partito moderato. Piuttosto sono i suoi ad interpretare ancora slogan e parole d’ordine tradizionali di quel mondo.

Se il presidente della Camera parla di un nuovo Melting Pot italiano, ad esempio, Maurizio Gasparri continua a tenere alte le bandiere di un tempo: «Noi non siamo razzisti, ma non ci vergogniamo a dire che vengono prima gli italiani». Alla fine, se si va a vedere, la posizione mediana tra Fini e Gasparri è proprio quella di Berlusconi che interpreta il Pdl di oggi, mentre il Presidente della Camera si propone già ora di guidare quello di domani. Ecco perché il discorso del leader di An non è dispiaciuto al Cavaliere. Anzi. Ieri sera il Premier si è anche congratulato al telefono con il Presidente della Camera. Cos’altro avrebbe potuto chiedere di più? «Fini - ha spiegato il Cavaliere ai suoi - non si è posto in termini conflittuali. Ha accettato la mia leadership. Ha preso con coraggio come punto di riferimento i valori del Ppe. Ha condiviso l’idea che bisogna spazzare via nomenklature e correnti.

Certo su alcune questioni programmatiche si è differenziato, ma va ricordato che ha anche un ruolo istituzionale da interpretare». Di fatto i due stanno trovando un «modus vivendi». Le condizioni ci sono: il Pdl è alto nei sondaggi e molti hanno l’impressione che si sia aperto un ciclo che offrirà a tutti la possibilità di coltivare ambizioni e costruirsi ruoli. «Governeremo fino alla fine di questa legislatura - è stata la previsione di Fini - ma probabilmente anche nella prossima». A questo punto, quindi, per l’inquilino di Montecitorio il problema non è più il Cavaliere. Del resto al di là delle intemperanze e delle rivalità di questi mesi la sua scelta strategica il leader di An l’aveva già compiuta un anno fa, quando aveva deciso di aderire al Pdl. «Non so se sarò mai accettato come leader dal nuovo Partito - aveva fatto presente allora -ma ho un’unica strada davanti per provarci: mettermi sulla linea di Berlusconi e costruirmi nel contempo una mia identità». Da qui l’«opzione centrista ». Resta da vedere se il Presidente della Camera riuscirà a costruirsi una nuova «identità politica», quella con cui dovrebbe sostituire la vecchia immagine del leader della destra con quella di un possibile leader di un partito centrista che si prefigge di rappresentare l’intero elettorato moderato.

Su questo argomento Fini deve misurare bene i suoi passi. Su un dato l’ex presidente di An ha ragione: la sinistra ha perso consensi perché ha perso l’egemonia programmatico-culturale che esercitava sul Paese. Ma se questo è vero lui, come altri esponenti della destra, non debbono calibrare mosse e prese di posizione nella spasmodica ricerca di una continua legittimazione a sinistra. Corrono il rischio, infatti, di essere applauditi su quel versante, ma di non interpretare più non solo l’elettorato moderato maneppure il Paese. «Questo è il loro paradosso», confida uno degli strateghi del Premier. Insomma, le commissioni Attali in salsa capitolina di Alemanno hanno fatto il loro tempo. Come pure, pur comprendendo il ruolo di Presidente della Camera, appare una debolezza verso la sinistra, l’idea che in questo momento la vera emergenza riguardi la salvaguardia del ruolo di controllo del Parlamento e non la capacità di decidere con tempestività del governo. Di fronte alla crisi si tratta di una constatazione condivisa da tutti i governi del mondo, moderati e non.

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