lunedì 20 aprile 2009

La sfida diplomatica di Obama


20/4/2009
HENRY A. KISSINGER

Il primo viaggio intercontinentale di un nuovo presidente americano assume sempre un significato che va al di là dell’itinerario. Per il presidente è l’occasione per saggiare l’impatto della propria politica, per i suoi interlocutori l’opportunità di conoscere il leader col quale dovranno trattare nei prossimi quattro anni.

Obama ha approfittato della circostanza per tracciare il suo approccio personale alla politica estera: multilateralismo, una reiterata presa di distanza pubblica dal suo predecessore, negoziati ad ampio spettro su più fronti, enfasi sulla costruzione di relazioni personali con i suoi interlocutori. Mai dalla visita di John Kennedy in Europa nel 1961 un presidente americano ha conquistato tali manifestazioni di sostegno.

La sfida di Obama consiste ora nell’articolare le sue iniziative ad ampio respiro in una strategia di politica estera coerente. Per lanciare negoziati su una tale varietà di dossier ci vuole coraggio. Alcune iniziative, come il dialogo strategico con la Cina, sono dibattiti già in corso ma elevati a un livello più alto. Altre, come il negoziato sul controllo delle armi con la Russia, sono rimaste in letargo per più di un decennio.

L’apertura all’Iran non ha precedenti. I negoziati mediorientali hanno una lunga storia di iniziative fresche sconfitte da difficoltà sempre nuove. Ciascuno di questi negoziati ha una componente politica, ma anche strategica. Ciascuno rischia di incontrare ostacoli che oscureranno gli obiettivi finali, o di lasciar seppellire la sostanza dalla tattica. Tutti sono strettamente legati. Il dialogo sul controllo delle armi con la Russia influirà sul ruolo di Mosca nella non-proliferazione iraniana. Il dialogo strategico con la Cina aiuterà a dare forma al negoziato sulla Corea del Nord. Il negoziato con l’Iran verrà influenzato pesantemente dal progresso dell’Iraq verso la stabilità, altrimenti il vuoto che si verrebbe a creare potrebbe indurre in tentazione lo spirito d’avventura di Teheran.

L’ampia agenda dell’amministrazione Obama dovrà diventare un test della sua capacità di armonizzare gli interessi nazionali con problemi globali e multilaterali. Obama è entrato in carica in un momento di opportunità unica. La crisi economica assorbe le energie delle maggiori potenze, che nonostante i contrasti hanno tutte bisogno di una pausa nel confronto internazionale. Sfide soverchianti come il clima, l’ambiente e la proliferazione riguardano tutti, aprendo un’opportunità senza precedenti per soluzioni globali. Ma questa realtà deve venire trasferita in un concetto operativo di ordine mondiale. E questo dipende in larga misura dalle prospettive dell’amministrazione. Per ora il suo approccio sembra puntare verso una diplomazia concertata sul modello del dopo-1815, in cui gruppi di grandi potenze lavorano insieme per consolidare le norme internazionali. In questa visione la leadership americana deriva dalla disponibilità ad ascoltare e dalla capacità di ispirare. L’azione comune deriva da convinzioni condivise. Il potere emerge da un senso di comunione e non da azioni unilaterali, e viene esercitato attraverso una distribuzione di responsabilità in base alle risorse del Paese. È una sorta di ordine mondiale senza una potenza dominante, o dove essa si autovincola nella leadership.

La crisi economica favorisce questo approccio, anche se la storia conosce pochi esempi di una simile concertazione. Di solito i membri di un gruppo hanno una disponibilità diversa a correre rischi, e quindi a compiere sforzi in nome dell’ordine internazionale. Nel frattempo, l’amministrazione dovrà navigare tra due tipi di pressione dell’opinione pubblica caratteristici dell’America, e che cercano entrambi di bypassare il paziente dare e prendere della diplomazia tradizionale. Il primo riflette l’avversione a negoziare con società che non condividono i nostri valori e rifiuta il tentativo di alterare il comportamento dell’interlocutore attraverso un dialogo. In questa visione il compromesso è considerato appeasement e si cerca la conversione dell’avversario, o il suo rovesciamento. I critici di questo approccio - ora prevalenti - privilegiano invece la psicologia. Considerano l’apertura di un negoziato come atto di trasformazione, per loro i simboli e i gesti rappresentano la sostanza.

La diplomazia deve cercare di trasformare un vicolo cieco in oggetto di negoziato. Ma i cambiamenti di posizione devono essere dettati da obiettivi chiari piuttosto che da tecniche negoziali. Storicamente, gli Usa hanno la tendenza a iniziare un negoziato con gesti che rendono più fragili le circostanze stesse che l’hanno reso possibile. Nel 1951 in Corea hanno fermato l’offensiva all’inizio dei negoziati sull’armistizio. Nel 1968 in Vietnam hanno cessato di bombardare il Nord come prezzo per iniziare i colloqui. In entrambi i casi, il negoziato che ne è seguito è durato anni e il numero delle vittime è stato paragonabile a quello di una guerra su larga scala. Nel negoziato a sei sul programma nucleare nordcoreano, dopo che Pyongyang ha accettato in linea di principio di rinunciare al suo arsenale nucleare, abbiamo concesso la restituzione unilaterale di 25 milioni di dollari bloccati dal Tesoro americano a Macao. Questo passo ha dato ai coreani spazio di manovra per rinviare la discussione del problema a monte per un altro anno.

Forse l’illustrazione più lampante del rapporto tra ordine mondiale e diplomazia è la proliferazione. Se Corea del Nord e Iran riusciranno a dotarsi di arsenali nucleari nonostante il no di tutte le maggiori potenze dell’Onu e non solo, l’idea di un ordine omogeneo verrebbe seriamente colpita. Se Usa, Cina, Giappone, Corea del Sud e Russia non riescono a ottenere risultati, tutti insieme, con un Paese come la Corea del Nord, dall’influenza pressoché nulla sul commercio internazionale e privo di risorse che interessino a qualcuno, la frase «comunità mondiale» diventa un suono vuoto.

Ho sempre considerato il miglior modo di trattare quello di esporre una lista completa e onesta dei propri obiettivi finali. Il mercanteggiare tattico, attraverso una serie di concessioni minime, rischia di produrre incomprensioni sullo scopo finale. Prima o poi, gli argomenti fondamentali vanno comunque affrontati, soprattutto quando si tratta con un Paese come l’Iran, col quale non ci sono stati contatti per tre decenni.

Per contrasto, la questione della non-proliferazione è intrinsecamente multilaterale, e il prezzo del consenso trovato da Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e ora pure dagli Usa è stato quello di lasciare irrisolti - o nemmeno affrontati - i problemi chiave, anche fattuali. Quanto è vicino l’Iran a produrre materiale arricchito a sufficienza per una testata nucleare? Quanto è vicino alla costruzione della testata per un missile? Fino a che punto gli ispettori internazionali riescono a controllare il limitato programma di arricchimento dichiarato pacifico? Mentre l’amministrazione cerca di convincere l’Iran a dialogare, deve anche energicamente cercare di risolvere questo dibattito sui fatti in corso tra i nostri partner. Se non ci sarà accordo su questi dossier, l’agognato negoziato finirà in uno stallo.

Quando riprenderanno i colloqui sulle armi con la Russia, il bisogno di definire una posizione negoziale con la strategia sottostante diventerà altrettanto acuto. Obama e Medvedev hanno deciso di estendere il trattato Start-1, che scade quest’anno, e di ridurre le testate dalle 2200 concordate da Bush e Putin nel 2001 nel trattato Sort. Il problema è che le regole del conteggio tra i due trattati sono diverse. Lo Start conta i missili in base alla loro capacità di potenziali testate, mentre il Sort calcola solo quelle effettivamente installate. In base allo Start, l’arsenale Usa supera le 5 mila testate, e per raggiungere anche solo il numero di 2200 bisognerebbe smantellare quasi tutte le testate multiple. A quel punto si porrebbe la domanda: è lecito immagazzinarle o devono venire distrutte? Prima che ricominci l’inevitabile gioco dei numeri che ricorda gli Anni 70, bisogna accelerare la verifica dei siti strategici per dare una base per la diplomazia.

L’amministrazione Obama ha lanciato il Paese in una importante impresa diplomatica. Ma ora deve aggiungere alla sua visione anche un piano diplomatico.

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