Che l’emancipazione femminile non fosse un fatto di élite, ma avesse toccato anche le donne delle classi meno alte, è chiaramente mostrato dai reperti, e più in particolare dai graffiti pompeiani. Per cominciare: le donne di Pompei, oltre a frequentare i teatri, assistevano ai giochi gladiatori, ai quali pare si appassionassero non tanto per i giochi in sé quanto per i gladiatori; i quali, se sopravvivevano alle loro non facili esibizioni, diventavano le star dell’epoca — un po’ come i calciatori di oggi, o come i cantanti rock, ammirati e amati dalle donne di ogni ceto sociale. A dimostrarlo, ecco le iscrizioni che a Pompei, più o meno scherzosamente, alludono al loro fascino irresistibile. Il trace Celado, ad esempio — leggiamo nella caserma dei gladiatori — fa sospirare le ragazze. Chi lo ha scritto, una donna o un uomo? Poco importa, in ogni caso dal graffito viene una conferma del fatto che le ragazze di Pompei non erano insensibili al fascino dei muscoli e della celebrità. Sullo stesso edificio, un altro graffito ci informa che Crescente, il reziario (uno dei gladiatori specializzati nel combattere con una rete, con cui dovevano difendersi dagli attacchi avversari), era «il medico notturno delle ragazze». Piacevano a tutte, questi gladiatori.
Oltre che alle ragazze di modeste condizioni sociali, anche alle matrone, che a quanto pare, più essi uscivano malconci dalle lotte, più li amavano. Quanto meno, così vuol farci credere il solito Giovenale, che nella sua satira sulle donne racconta di una certa Eppia, che aveva abbandonato casa e famiglia per seguire un gladiatore, tal Sergetto, che attendeva, ormai, / con quel braccio spezzato il suo congedo; / e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo / diradato dall’elmo, e in mezzo al naso / un grossissimo porro; e un male acuto / gli facea sempre gocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era! Per lui, dice Giovenale, anche se era stata abituata da bambina a ogni lusso, e anche se faceva grandissime difficoltà se il marito tentava di farla salire su una nave, Eppia aveva sfidato le onde, seguendolo fino in Egitto: quel Sergetto non doveva essere ributtante come Giovenale lo descrive. La patologica misoginia del poeta emerge anche in questi versi, e si conferma quando, generalizzando il comportamento di Eppia, scrive che quelle che a un amante / van dietro, hanno stomaco di bronzo, / quella vomita addosso al suo marito, / questa tra i marinai mangia e passeggia / su e giù per la nave e si compiace / nel maneggiare i ruvidi cordami.
Non le amava affatto le donne, Giovenale. Ma, al di là delle sue esagerazioni, possiamo cogliere una verità: anche le signore delle classi alte erano sensibili al fascino dei gladiatori. Come del resto parrebbe confermare un altro ritrovamento pompeiano. Nell’alloggio dove dormivano i gladiatori, infatti, sono stati trovati i resti di una persona di sesso femminile, e dei gioielli, che presumibilmente le appartenevano. Cosa ci faceva, in quel posto, una signora ingioiellata? Esercitando un po’ la fantasia, si è diffusa l’idea che quella sera la signora fosse andata, presumibilmente di nascosto, a trovare il suo bel gladiatore. Chissà se il cataclisma la sorprese appena arrivata, o mentre si accingeva a tornare a casa. Come che sia, morì in un momento felice.
***
Erano molto preoccupati, i romani. Nonostante l’impegno che avevano messo, e che continuavano a mettere, nell’opera di educare le donne alla virtù, erano stati costretti a rendersi conto che qualcosa dovevano aver sbagliato. A cavallo tra il I secolo avanti e il I secolo dopo Cristo, vedevano la città popolata da donne i cui costumi avrebbero fatto inorridire i loro antenati. Delle libertà (alcune delle quali concesse da loro stessi, massima delle beffe) le donne non si limitavano a fare un uso discreto, capace di non sconvolgere le antiche abitudini: ne abusavano, ne approfittavano in modo indecente. Questo pensavano i romani. A loro non piacevano proprio le donne emancipate. Per loro, l’emancipazione era un pericolo sociale.
Diceva Cicerone, parafrasando Platone, che là dove donne e schiavi non obbedivano era l’anarchia. Ma le accuse più pesanti alla presunta dissolutezza delle donne vengono dai poeti: in particolare, i poeti satirici. Giovenale, per cominciare. In lui, la descrizione della nequizia femminile raggiunge livelli paradossali. Al di là di ogni considerazione sulla enfatizzazione e caricaturizzazione della realtà tipica del genere letterario, i versi di Giovenale rivelano una misoginia quasi patologica: «La lussuria è vizio di tutte, schiave e padrone», scrive nella sesta satira, «da quella che va scalza per le strade della città, a quella che si fa portare in lettiga da schiavi siriani, le donne, tutte, senza scampo, sono dissolute». Certo. Lo sappiamo: la satira porta la realtà alle estreme conseguenze, ridicolizzandola, non di rado per esorcizzare nel riso il disagio e, spesso, una vera e propria paura. Ma perché avevano paura delle donne, i romani? Cosa temevano? In primo luogo, che volessero comandarli (come, secondo i poeti satirici, ormai facevano senza un minimo di ritegno). Soprattutto se erano ricche. Un timore diffuso, che Marziale dichiara apertamente: Donna ricca sposare? No. Perché, / mi domandate. Perché voglio / sposare, non essere sposato. / La moglie, Prisco, sia soggetta al marito: / è la sola eguaglianza possibile tra i due. Più chiaro di così. Comandano, pretendono. Ormai, sono convinte che avere un amante sia un loro diritto. Alcune arrivano a pensare che limitarsi a uno solo sia quasi una concessione al marito.
Eva Cantarella
23 aprile 2009
Oltre che alle ragazze di modeste condizioni sociali, anche alle matrone, che a quanto pare, più essi uscivano malconci dalle lotte, più li amavano. Quanto meno, così vuol farci credere il solito Giovenale, che nella sua satira sulle donne racconta di una certa Eppia, che aveva abbandonato casa e famiglia per seguire un gladiatore, tal Sergetto, che attendeva, ormai, / con quel braccio spezzato il suo congedo; / e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo / diradato dall’elmo, e in mezzo al naso / un grossissimo porro; e un male acuto / gli facea sempre gocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era! Per lui, dice Giovenale, anche se era stata abituata da bambina a ogni lusso, e anche se faceva grandissime difficoltà se il marito tentava di farla salire su una nave, Eppia aveva sfidato le onde, seguendolo fino in Egitto: quel Sergetto non doveva essere ributtante come Giovenale lo descrive. La patologica misoginia del poeta emerge anche in questi versi, e si conferma quando, generalizzando il comportamento di Eppia, scrive che quelle che a un amante / van dietro, hanno stomaco di bronzo, / quella vomita addosso al suo marito, / questa tra i marinai mangia e passeggia / su e giù per la nave e si compiace / nel maneggiare i ruvidi cordami.
Non le amava affatto le donne, Giovenale. Ma, al di là delle sue esagerazioni, possiamo cogliere una verità: anche le signore delle classi alte erano sensibili al fascino dei gladiatori. Come del resto parrebbe confermare un altro ritrovamento pompeiano. Nell’alloggio dove dormivano i gladiatori, infatti, sono stati trovati i resti di una persona di sesso femminile, e dei gioielli, che presumibilmente le appartenevano. Cosa ci faceva, in quel posto, una signora ingioiellata? Esercitando un po’ la fantasia, si è diffusa l’idea che quella sera la signora fosse andata, presumibilmente di nascosto, a trovare il suo bel gladiatore. Chissà se il cataclisma la sorprese appena arrivata, o mentre si accingeva a tornare a casa. Come che sia, morì in un momento felice.
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Erano molto preoccupati, i romani. Nonostante l’impegno che avevano messo, e che continuavano a mettere, nell’opera di educare le donne alla virtù, erano stati costretti a rendersi conto che qualcosa dovevano aver sbagliato. A cavallo tra il I secolo avanti e il I secolo dopo Cristo, vedevano la città popolata da donne i cui costumi avrebbero fatto inorridire i loro antenati. Delle libertà (alcune delle quali concesse da loro stessi, massima delle beffe) le donne non si limitavano a fare un uso discreto, capace di non sconvolgere le antiche abitudini: ne abusavano, ne approfittavano in modo indecente. Questo pensavano i romani. A loro non piacevano proprio le donne emancipate. Per loro, l’emancipazione era un pericolo sociale.
Diceva Cicerone, parafrasando Platone, che là dove donne e schiavi non obbedivano era l’anarchia. Ma le accuse più pesanti alla presunta dissolutezza delle donne vengono dai poeti: in particolare, i poeti satirici. Giovenale, per cominciare. In lui, la descrizione della nequizia femminile raggiunge livelli paradossali. Al di là di ogni considerazione sulla enfatizzazione e caricaturizzazione della realtà tipica del genere letterario, i versi di Giovenale rivelano una misoginia quasi patologica: «La lussuria è vizio di tutte, schiave e padrone», scrive nella sesta satira, «da quella che va scalza per le strade della città, a quella che si fa portare in lettiga da schiavi siriani, le donne, tutte, senza scampo, sono dissolute». Certo. Lo sappiamo: la satira porta la realtà alle estreme conseguenze, ridicolizzandola, non di rado per esorcizzare nel riso il disagio e, spesso, una vera e propria paura. Ma perché avevano paura delle donne, i romani? Cosa temevano? In primo luogo, che volessero comandarli (come, secondo i poeti satirici, ormai facevano senza un minimo di ritegno). Soprattutto se erano ricche. Un timore diffuso, che Marziale dichiara apertamente: Donna ricca sposare? No. Perché, / mi domandate. Perché voglio / sposare, non essere sposato. / La moglie, Prisco, sia soggetta al marito: / è la sola eguaglianza possibile tra i due. Più chiaro di così. Comandano, pretendono. Ormai, sono convinte che avere un amante sia un loro diritto. Alcune arrivano a pensare che limitarsi a uno solo sia quasi una concessione al marito.
Eva Cantarella
23 aprile 2009
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