lunedì 11 maggio 2009

Referendum ho firmato non voterò



MICHELE AINIS

Confesso: io il referendum elettorale l’ho firmato. È accaduto nella primavera del 2007, quando altri 820 mila italiani presero la stessa penna fra le dita. Confesso di nuovo: l’ho pure promosso. D’altronde carta canta, sarebbe impossibile negare: il mio nome figura al terzo posto nell’elenco dei 179 membri del comitato promotore, subito dopo i nomi di Guzzetta e Segni. Capricci dell’ordine alfabetico, non è il caso di farne un’aggravante. Ma adesso mi accingo alla terza confessione: non voterò questo referendum, o meglio voterò no sul quesito principale. Prima d’essere infilzato dai partigiani di ambedue gli schieramenti, prima che mi iscrivano d’ufficio nell’albo nazionale dei pentiti, detto a futura memoria queste note.

No, non ho cambiato idea sull’importanza dei referendum elettorali. Sono l’unica leva in mano ai cittadini quando il bunker della politica si chiude a doppia chiave. Del resto la seconda Repubblica è nata in questo modo, attraverso un doppio referendum (nel 1991 e nel 1993). Il guaio è che le leggi elettorali non scaldano mai il cuore. Per lo più non ci facciamo neanche caso, come non ci s’accorge del motore rinchiuso dentro il cofano. E quasi nessuno capisce il meccanismo dei pistoni, pur capendo vagamente che da lì dipenderà il suo viaggio. Ma allora un referendum elettorale può vincere soltanto se intercetta un’energia politica, una spinta al cambiamento in qualche modo esterna e precedente alla formulazione dei quesiti, come avvenne durante Tangentopoli. Nel 2007, mentre andava in scena lo spettacolo del governo Prodi (102 fra ministri e sottosegretari, 11 partiti a dividersi il boccone, 2 senatori a vita decisivi per la sua sopravvivenza), questa energia s’accumulava, premeva sulla società italiana cercando un punto d’eruzione. L’ha trovato in un libro, La casta di Stella e Rizzo. Per una stagione l’ha trovato in un comico, Beppe Grillo. Infine se ne è impadronito Berlusconi. Dopo le politiche del 2008 quel vento ha smesso di soffiare per la semplice ragione che il cambiamento c’era già stato: piaccia o non piaccia (ai più piace), la palingenesi è il governo Berlusconi, metodi e stile opposti rispetto al suo predecessore.

Insomma corre un’era geologica, non 24 mesi appena, tra quel tempo e il nostro tempo. Quando cominciammo a scrivere l’agenda del comitato promotore, né il Pd né il Pdl erano stati battezzati. La nostra iniziativa puntava a coagulare le anime sparse del Palazzo, per semplificare la politica, per renderla meno incomprensibile. Ma in ultimo la politica si è rimessa in movimento, senza attendere la mannaia del referendum. Questo vale altresì per la seconda lama forgiata dai referendari: quella che taglia la testa ai pluricandidati, e dunque ai plurieletti, che optando per l’uno o per l’altro collegio decidono la sorte di chi si trova in coda nella lista. Nel 2006 un terzo dei parlamentari fu scelto per graziosa concessione; nel 2008 soltanto qualche dozzina. Potremmo trarre una lezione da queste vicende elettorali. Dovremmo farlo specialmente noi italiani, convinti come siamo che tutti i mali del sistema derivano dalle regole, dalla Costituzione. No, è la politica a decidere sui fatti e sui misfatti; è la politica a dettare il tempo del nostro vivere comune.

Ecco, il tempo. Nessuna legge elettorale è mai per tutti i secoli a venire. Né sussiste un primato sempiterno del maggioritario sul proporzionale, o viceversa. Dipende dal contesto, dalle stagioni della storia. Ieri avremmo potuto votare il referendum, sia pur turandoci il naso (avevo scritto così, sulla Stampa del 24 aprile 2007: un argomento per i miei avvocati). Oggi rischieremmo di non aver più nulla da annusare. Perché sul nostro calendario non c’è più troppo pluralismo, bensì troppo poco. Perché una soglia di sbarramento impervia, coniugata a un superpremio per un superpartito, oggi finirebbe col pietrificare la politica, trasformando in statue di sale gli elettori. Perché nel frattempo pure la Consulta (sentenza n. 15 del 2008) ha segnalato gli «aspetti problematici» del premio di maggioranza. E perché infine, nonostante la generosità istituzionale di Segni e Guzzetta, oggi il referendum è diventato generoso con i ricchi, avaro con i poveri.

michele.ainis@uniroma3.it

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

IO NON, RIPETO NON, ANDRO' A VOTARE QUESTA VOLTA.