L’Amministrazione Obama finora ha trattato la sfida nordcoreana in modo sommesso, quasi sottotono. Ponendo l’enfasi sull’immutata fiducia nella diplomazia multilaterale, ha invitato Pyongyang a ritornare al tavolo delle trattative anche quando la Corea del Nord ha minacciato azioni militari e fatto test missilistici e nucleari, a dispetto del giudizio unanime dei maggiori poteri internazionali che trovano tali azioni «inaccettabili».
La sfida va ben oltre i temi della sicurezza nell’area. Il ritorno ai test nucleari da parte del Nord Corea rappresenta una brusca marcia indietro rispetto al processo negoziale che è andato avanti, solo con qualche interruzione, per quasi due decadi.
Dal 2004 gli incontri a sei a Pechino hanno incluso tutti i Paesi (Nord e Sud Corea, Cina, Russia, Giappone e Stati Uniti) direttamente minacciati dai missili e dagli ordigni nucleari nordcoreani. Per un po’ si era detto che trattative bilaterali tra Stati Uniti e Nord Corea sarebbero stati più efficaci. Quel dibattito ormai è accademia. Entrambi gli approcci sono stati tentati e hanno contribuito allo stato di cose ereditato dall’Amministrazione Obama.
Il forum a sei ha prodotto un accordo di cornice a febbraio 2007 in base al quale la Corea del Nord avrebbe abbandonato il suo programma nucleare in cambio di una serie di reciproci passi di riconoscimento e legittimazione. Gli sviluppi dell’accordo sono stati ampiamente negoziati fra Usa e Nord Corea nel cosiddetto forum bilaterale. C’è stato qualche progresso: ad esempio il congelamento dell’impianto di produzione del plutonio di Pyongyang, in cambio di concessioni politiche da parte dell’America come la cancellazione della Corea del Nord dalla lista degli Paesi fiancheggiatori del terrorismo. Gli Stati Uniti hanno dedicato così tanta attenzione a questi progressi da mettere quasi in crisi i rapporti con Giappone e Sud Corea, che hanno lamentato di essere state marginalizzate.
Io ho favorito i negoziati con Pyongyang e occasionalmente partecipato ai colloqui con funzionari coreani al di fuori dei canali ufficiali. Ma con la Corea del Nord che ha ripetutamente mandato all’aria tutti gli accordi, il processo alla fine ha perso coerenza. Gli sforzi sono sempre stati tesi a eliminare le scorte nordcoreane di materiale fissile e armi nucleari. Ma queste continuavano a crescere mentre i negoziati segnavano il passo. Il rischio ora è di legittimare il programma nucleare coreano di fronte al fatto compiuto.
Obama ha dato ogni mezzo alla Corea del Nord per accelerare i negoziati, ma queste aperture sono state respinte in modo vergognoso e Pyongyang ha usato il cambio ai vertici dell’Amministrazione Usa per accelerare i tempi. Bosworth è stato respinto durante una visita nell’area e rifiutando di tornare al tavolo delle trattative Pyongyang ha anche revocato tutte le concessioni precedenti. Ha fatto ripartire gli impianti e condotto un altro test nucleare. Molte spiegazioni sono state tentate per motivare questo comportamento, ad esempio la lotta interna per la successione al «caro leader» Kim Jong-il, anche se non è chiaro quali siano le fazioni in campo. Ma l’unico motivo parzialmente razionale è che i leader nordcoreani abbiano capito che, per quanto conciliatori possano essere i toni, il prossimo passo della diplomazia americana sarà chiedere la distruzione della potenzialità nucleare nordcoreana. E devono aver concluso che nessun riconoscimento politico potrebbe compensare l’abbandono dell’unico successo capace di giustificare l’oppressione e lo sfruttamento senza precedenti imposti alla popolazione. Possono aver pensato che un periodo di ostracismo sia il prezzo da pagare per emergere di fatto come una potenza nucleare.
Allora il punto non è più quale sede usare per i negoziati, ma piuttosto il loro fine ultimo. La precondizione minima per riesumare la trattativa dovrebbe essere il recupero di tutti gli accordi già raggiunti e cancellati. In particolare il congelamento dell’impianto di produzione del plutonio. Ma non basta.
Gli Stati Uniti devono riconoscere che non c’è più alcun gradino intermedio rispetto all’abbandono del programma nucleare da parte della Corea del Nord. E che ogni politica che non tenga conto di questo di fatto si rivela acquiescente alla sua continuazione. Un piano di marginali sanzioni aggiuntive, seguito da un altro tira-e-molla, avrebbe questo come conseguenza.
La sfida nordcoreana pone questa amministrazione di fronte a due opzioni:
a) accettare tacitamente o apertamente che il programma nucleare nordcoreano è oltre il punto di non ritorno e intercettare e proibire ogni attività di proliferazione oltreconfine;
b) cercare di fermarlo con un aumento significativo della pressione, il che richiede la partecipazione attiva dei Paesi confinanti e in particolare della Cina.
La prima eventualità farebbe perdere la faccia agli Usa e minerebbe ogni negoziato con l’Iran. Se i metodi nordcoreani diventano un modello, per il Medio Oriente sarà il caos. Inoltre occorrerebbe ridisegnare la strategia di deterrenza americana dando più spazio alla difesa missilistica e adattandola a un mondo di molteplici potenze nucleari, una minaccia nuova e senza precedenti.
Nessuna soluzione a lungo termine del problema è sostenibile senza i Paesi chiave dell’Asia del Nord-Est e questo significa Cina, Sud Corea, Stati Uniti e Giappone, senza dimenticare la Russia. Fin qui ci si è troppo concentrati sul deus ex machina delle pressioni cinesi e sul fatto che Pechino non abbia usato tutte le sue possibilità di persuasione. Ma per la Cina si tratta anche di fare i conti con le conseguenze della sua mediazione. Se il regime di Pyongyang sarà destabilizzato, questo potrebbe mettere in crisi l’intera regione. E la Cina deve affrontare sfide ancora più complesse di quelle americane. Se si mantiene l’attuale scenario, la proliferazione nucleare probabilmente si estenderà dall’Asia fino al Medio Oriente e Pechino si troverà circondata da Stati nucleari. Ma se al contrario mette in opera tutti i suoi mezzi, dovrà temere caos lungo le frontiere e lungo le tradizionali vie di accesso percorse in passato dagli invasori. Occorre quindi un dialogo sensibile e attento con Pechino piuttosto che una richiesta perentoria. L’esito di questo dialogo è difficile da predire, ma non potrà avvenire se anche l’America non chiarirà a se stessa le proprie intenzioni riguardo al programma nucleare nordcoreano.
L’ultimo punto riguarda l’ordine mondiale. In questo mondo multipolare temi come la proliferazione nucleare, le risorse energetiche e il cambio climatico richiedono un approccio condiviso. Le potenze del XXI secolo si sono invece fin qui rivelate eterogenee e non molto collaborative. Ma un accordo s’impone, se il mondo vuole evitare la catastrofe della proliferazione senza controlli.
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