martedì 23 giugno 2009

Puttanicizia e puttanizia. E la malasanità?

CARLO VULPIO BLOG
22 giugno 2009


“Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”.
Così cantava Giorgio Gaber. E aveva ragione. Al punto che lo stesso Silvio Berlusconi, chi lo avrebbe mai immaginato, è in qualche modo rimasto vittima di quel se stesso che è in lui. E’ lui in questo momento la vittima più illustre del suo berlusconismo.

Però. Sultano, satrapo, pigmalione, quello che volete. Ma finora quelle che andiamo leggendo sui giornali sono più che altro storie di puttacinizia.

La puttanicizia è parola usata da Giuseppe Gioacchino Belli, e poi rilanciata da Carlo Emilio Gadda, per significare impudicizia, ed è una fusione tra puttanità (licenziosità, lascivia, per Pietro l’Aretino) e pudicizia.



Possiamo dunque tranquillamente dire, senza offesa per nessuno, che la puttanicizia è il profilo di tutte quelle signore che si mettono in coda per varcare la soglia di certi palazzi. Non soltanto di Palazzo Grazioli o di Villa Certosa ma, da che mondo è mondo, di tutti i palazzi del potere: civile, giudiziario, militare e anche religioso.

Queste storie però sono anche storie di puttanizia. Termine che Ennio Flaiano usava per indicare un’azione ignobile, una nefandezza, una nequizia. E su questo punto c’è solo l’imbarazzo della scelta per stabilire chi, tra tutti i protagonisti – interni ed esterni - abbia fatto più puttanizie.



Certo, queste sono anche storie che avrebbero un rilievo giudiziario e politico enorme se si riuscisse a dimostrare che il presidente del Consiglio è sotto schiaffo, se cioè è ricattato da qualcuna di queste signore al punto da essere costretto a conferirle una carica pubblica.

Ma fino a quando questa prova non c’è, le storie di cui stiamo parlando sono storie di puttanicizia e di puttanizia. Punto. E non c’entra niente nemmeno Monica Lewinsky, perché Bill Clinton fu messo in stato d’accusa non per essersi fatto sollazzare dalla stagista, ma per aver mentito al Congresso su ciò che aveva fatto con lei. Tanto è vero che mai nessuno s’è sognato di tirare in ballo la relazione di Marilyn Monroe (e non solo) con John Kennedy per far dimettere il presidente degli Stati Uniti. Il resto, per quanto puzzolente come soltanto le fogne dei servizi segreti sanno essere, è coreografia: dal fotografo che riesce a scattare cinquemila fotografie, in un posto che dovrebbe essere blindato, quasi avesse la supervista di Nembo Kid, alla signora che avrebbe copulato “microfonata”.

Sulla presunta satiriasi di Berlusconi, uno dei più prudenti, persino in campagna elettorale, è stato proprio Antonio Di Pietro. E ha fatto bene. “Non mi interessa guardare dal buco della serratura nella camera da letto di Berlusconi – ha sempre detto nei suoi comizi Di Pietro -. Mi interessa di più guardare cosa succede nella sala da pranzo degli italiani a causa della politica economica del governo”.
Di Pietro ha capito che battere la strada (è il caso di dirlo) della puttanicizia e della puttanizia non solo avrebbe portato più voti a Berlusconi, se non altro in base al principio del ”chi è senza peccato eccetera…”, ma avrebbe oscurato anche cose ben più serie e importanti. Come in effetti sta accadendo.



La cosa più seria e importante, di cui non si sta parlando è l’inchiesta sulla Sanità pugliese. Un settore che danza sull’orlo di un baratro di bilancio tra i 600 e i 700 milioni di euro. Ma questa è roba tosta. Roba che scotta. E’ un piatto bollente che da anni ambienti giudiziari e politici rigorosamente bipartisan cercano di raffreddare, e di fronte al quale il signor Tarantini e la relativa puttanicizia appaiono poco più che una compagine di smandrappati. Di questa inchiesta, che è l’inchiesta-madre, cosa che qualunque giornalista di buona volontà può facilmente verificare, abbiamo scritto sul “Corriere della Sera” l’otto maggio 2005 ("Sanità, Vendola tradito dall'assessore" e "Bari, la Procura adesso indaga sulla vendita della superclinica"). Sì, i due articoli qui a fianco risalgono addirittura a quattro anni fa.

Naturalmente, la speranza è che l’abbondanza di dettagli intimi, fino al colore pubico delle signore, non faccia velo su tutto il resto. Principalmente sul filone sanitario dell’inchiesta del pm Giuseppe Scelsi. Che è legata all’inchiesta-madre di cui dicevamo prima, oggi condotta dal pm Desirèe Digeronimo, della Direzione distrettuale antimafia di Bari.



L’inchiesta della Digeronimo “recupera” quella del 2005 e ruota attorno allo stesso personaggio-chiave di allora: Alberto Tedesco (Pd), assessore regionale della Sanità con la giunta guidata da Nichi Vendola. Con Tedesco, è indagata anche Lea Cosentino, direttore generale della più grande Asl pugliese, anche lei nominata da Vendola. Tedesco e Cosentino sono accusati di associazione a delinquere finalizzata al falso, alla corruzione e all’abuso di ufficio.



Alcuni mesi fa, in seguito a una miracolosa fuga di notizie dalla procura di Bari, Tedesco viene a sapere dell’indagine e si dimette dalla carica. Subito dopo comincia a fare il pazzo affinché il Pd gli offra un paracadute. Quello dell’immunità parlamentare. Lo ottiene, senza grandi difficoltà, in questo modo: alle ultime Europee il Pd candida il senatore Paolo De Castro (due volte ministro dell’Agricoltura, con i governi D’Alema e Prodi) e per Tedesco, primo dei non eletti alle precedenti elezioni politiche, si libera un posto in Parlamento. Et voilà.



Intanto, l’inchiesta della Dda di Bari va avanti e coinvolge anche la Tradeco, azienda leader nella raccolta e smaltimento di rifiuti al Sud. La Tradeco di Carlo Columella, sponsor elettorale di Tedesco e di Vendola, ma attenta alle esigenze di quasi tutte le forze politiche non meno che alla tutela dell’ambiente, in consorzio con la Cogeam di Emma Marcegaglia ottiene dalla giunta Vendola contratti ventennali per la costruzione di discariche in Puglia.



Tutto questo è stato anche denunciato da un coraggioso cronista di una radio libera, Alessio Dipalo, direttore di Radio Regio Stereo. Ma a Dipalo accade una cosa singolare. Querelato proprio da quegli imprenditori e politici che poi finiranno nell’inchiesta del pm Digeronimo, il cronista si vede chiudere la radio in seguito a un provvedimento del procuratore aggiunto di Bari, Marco Dinapoli. Così, senza che vi fosse stato un processo che si pronunciasse sulla attività “diffamatoria” di Dipalo. Un fatto mai accaduto dal 1976, da quando cioè esistono le radio libere.



Quando però Dipalo viene ascoltato dal pm Digeronimo le sue deposizioni diventano quelle di un super testimone. E il processo in cui il giornalista viene accusato di diffamazione a mezzo stampa (tutt’ora in corso, nella fase dibattimentale) comincia a diventare un boomerang per chi lo ha innescato e anche per chi vi partecipa con grande visibilità. Come fa il procuratore aggiunto Dinapoli, che rappresenta l’accusa e non salta un’udienza.



Nel mio libro “Roba Nostra”, a cui quest’anno è andato il premio Rosario Livatino (e lo dico con una punta d’orgoglio, se permettete), ho anche raccontato un altro particolare. Il 4 aprile 2007 – mentre infuria la polemica sul modo in cui la procura di Bari stava conducendo le indagini sulla scomparsa dei fratellini di Gravina di Puglia, Francesco e Salvatore Pappalardi, che verranno trovati morti -, a sostenere in aula l’accusa contro Dipalo si presentano in due, con scorta e auto blu: lo stesso Dinapoli e il procuratore capo di Bari, Emilio Marzano (da poco in pensione). In due. I due capi. Per una diffamazione a mezzo stampa, non per affrontare Al Capone. Non era mai accaduto, in nessun tribunale italiano.
Questi sono soltanto dei fatti messi in fila. Poi ognuno se ne fa l’idea che più gli aggrada. Ma la domanda che dobbiamo porci è: siamo disposti a non sapere più nulla degli intrecci tra malasanità e rifiuti se in cambio ci dicono tutto su puttanicizia e puttanizia?



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