
Un brivido di nostalgia colpirà, forse, molti italiani domani sera, quando guarderanno la tv per conoscere i risultati del voto: è possibile che tutti i principali leader del nostro teatro politico si possano dichiarare soddisfatti.
E come ai (bei?) tempi della prima Repubblica, si possano proclamare vincitori. Così, la notte dell’elettore sarà agitata da sogni confusi e turbata dai dubbi. In teoria, la partita è relativamente semplice. Oggi e domani si dovrà eleggere il Parlamento Europeo e sono previste parziali elezioni amministrative. In pratica, si tratta di un anomalo e scorretto referendum su almeno quattro leader italiani. Una specie di sondaggio, ma con regole così diverse da quelle che sono stabilite nelle elezioni politiche da rendere abbastanza infondato il test e sostanzialmente abusive le conclusioni che se ne trarranno.
Il «nocciolo» di questa intricata consultazione è, invece, abbastanza chiaro. Si dovrà giudicare se il voto popolare costituirà, per Berlusconi, quel trionfo plebiscitario che, nelle sue intime speranze e nelle sue pubbliche previsioni, lo assolverà dalle accuse, grandi e piccole, che in campagna elettorale gli sono piovute addosso, dentro e fuori le nostre frontiere. Se Franceschini avrà salvato il Pd dal naufragio, ad appena un anno e mezzo dalla nascita di questo partito. Se Bossi avrà così rafforzato la sua presenza nel Nord d’Italia da spostare nel CentroSud il vero baricentro del «Popolo della libertà». Infine, se Di Pietro raccoglierà solo la transeunte onda del voto di protesta, sempre alla ricerca di uno scoglio sul quale raccogliersi, o se la sua trasversale caccia all’elettore smarrito potrà consentirgli di costruire un inedito modello di opposizione diversa.
A queste quattro fondamentali domande è difficile che la notte di domani offra risposte affidabili. Innanzi tutto, per il carattere europeo dell’unica consultazione che si svolge omogeneamente in tutto il territorio nazionale. A meno di clamorose sorprese, lo scarto tra la percentuale degli italiani che sarà andata a votare per queste elezioni e quella che normalmente si registra nelle politiche sarà tale da indebolire un confronto valido. Perché la mobilitazione alle urne degli elettorati, nei vari partiti, è molto diversa secondo la «natura» del voto e, quindi, una ripartizione proporzionale degli astenuti è statisticamente scorretta.
Per complicare i ragionamenti, già abbastanza complicati, che i nostri leader sfoggeranno domani sera per giustificare una vittoria collettiva, ci sono due «varianti». Il primo utile depistaggio per deviare l’attenzione su argomenti più favorevoli all’esito che si auspica è il voto amministrativo. E’ vero che si tratta di un test parziale, ma è anche vero che sono in ballo Province e Comuni cospicui come numero di abitanti e significativi dal punto di vista politico. Dove, peraltro, la vicinanza dei candidati e dei problemi locali rispetto agli elettori acuisce l’interesse per una prevedibile più sollecita corsa alle urne. Basti pensare al verdetto sulla Provincia di Torino, una delle ultime roccaforti del centrosinistra al Nord. O al tentativo di un clamoroso assalto del centrodestra ai presidi «rossi» dell’Italia di mezzo, come il Comune di Firenze. Con la scappatoia, se anche qui non si avessero esiti confortanti, di rinviare la condanna ai ballottaggi, quel traguardo finale che solo tra due settimane consentirà bilanci definitivi.
C’è poi la questione delle preferenze. Il paradosso è che agli italiani sarà consentita questa indicazione dei candidati preferiti proprio nella consultazione dove meno tengono a esercitare tale facoltà. Le circoscrizioni europee, infatti, sono così ampie che, al di là dei capilista, ma non sempre, i nomi sono spesso sconosciuti da un elettore a cui mancano, di fatto, i minimi indizi affidabili per poter fare una scelta che non sia simile a quella che si compie sui numeri del lotto. Ma su questa caratteristica ha puntato Berlusconi per lanciare una sfida «milionaria» ai suoi oppositori «esterni» e competitori «interni». Presentandosi come capolista in tutt’Italia, ha fissato in un numero variabile di suffragi personali, che passano, secondo le dichiarazioni, da cinque a quattro o a tre milioni, la prova schiacciante che la grandissima maggioranza dei concittadini gli tributa fiducia e simpatia in queste travagliate settimane. Ecco perché anche il gioco delle preferenze consentirà, almeno per il presidente del Consiglio, un test sul quale misurarsi.
La confusione aumenterà, infine, perché sull’esempio delle preferenze per il premier, nessuno ha fissato l’asticella per valutare la sconfitta o la vittoria. Né il termine di confronto più significativo, se sia quello omogeneo al tipo di elezione, le ultime europee del 2004, o quello più vicino nel tempo, le politiche dell’anno scorso. Ancor più conveniente potrebbe essere il paragone con i sondaggi. Se si prevede il peggio, basterà proclamarsi soddisfatti per l’«ampio recupero sulle previsioni». Quelle sì, davvero sicure, perché spesso si dichiarano solo dopo che si è conosciuto il risultato.


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