

Dobbiamo davvero preoccuparci per l’unità futura del Paese? Di che cosa è sintomo la sciatteria fin qui dimostrata, e denunciata da Ernesto Galli della Loggia, nella preparazione delle celebrazioni per i centocinquanta anni dell’unità d’Italia? E, ancora, che cosa indicano le voci intorno alla possibile nascita di una «lega sud» che potrebbe domani contrapporsi frontalmente al «partito del nord»? Davvero la Lega Nord ha ormai «vinto», quanto meno sul piano culturale, come ha scritto Alessandro Campi sul Riformista , talché l’unità morale del Paese sarebbe già irrimediabilmente svanita?
I processi storici sono il frutto delle azioni degli uomini e delle organizzazioni a cui gli uomini danno vita. E’ ormai dalla fine della Seconda guerra mondiale che l’unità del Paese dipende dalla capacità integrativa, o federativa, svolta da alcuni partiti politici. In quella che, convenzionalmente, viene chiamata Prima Repubblica, l’unità del Paese dipendeva dal ruolo federatore svolto dalla Democrazia Cristiana. Fu la Dc il partito che tenne insieme l’Italia impedendo alle sue storiche fratture (Nord/Sud, Stato/Chiesa) di acutizzarsi dispiegando tutta la loro potenziale capacità disgregativa. Nel suo ruolo di partito di maggioranza relativa la Dc legava fra loro il Veneto e la Sicilia, la Lombardia e la Calabria, il Friuli e la Campania, il Trentino e il Lazio.
Nella «Repubblica dei partiti», la Democrazia Cristiana, per oltre un quarantennio, garantì il mantenimento del legame fra le diverse parti del Paese. Era quello, e non altro, il mastice in una fase storica, seguita alla dittatura e alla sconfitta bellica, in cui l’eredità risorgimentale era stata seriamente lesionata e logorata sul piano politico-simbolico. La Lega Nord, a mio avviso, non è stata la causa di nulla. La sua comparsa, nei primi anni Novanta, fu, semmai, un effetto. L’effetto di un lungo periodo dominato da una (sciagurata) pedagogia negativa sul Risorgimento e l’Unità d’Italia: per rinfrescarsi la memoria converrebbe riprendere in mano qualcuno fra i tanti manuali di storia patria circolanti nella scuola pubblica, soprattutto a partire dagli anni Settanta.
Dunque, piaccia o meno, è ai partiti politici che bisogna guardare per capire quale sorte sia riservata all’unità del Paese. Se ci si pone da questo punto di vista, effettivamente, l’estrema precarietà della situazione che viviamo salta agli occhi. Alla Dc è sì succeduto un altro partito federatore ma si tratta di un federatore fragilissimo. Si osservi la mappa elettorale del Paese. Il partito federatore, subentrato alla Democrazia Cristiana, è il Popolo della Libertà, primo partito sia al Nord che al Sud. E’ la conseguenza di quanto accadde negli anni Novanta. Spazzati via i partiti della Prima Repubblica fu allora Silvio Berlusconi, insieme ai suoi alleati, a colmare il vuoto lasciato dalla Democrazia Cristiana.
Ma il Popolo della Libertà ha due evidenti punti di debolezza. Il primo è che si tratta di un contenitore mal amalgamato, nato dalla recentissima fusione di Forza Italia e An. Un contenitore che si è formato solo per mantenere competitivo il centrodestra nel momento in cui è stato creato il Partito democratico.
Dovesse quest’ultimo dividersi (e la possibilità sicuramente esiste), il Popolo della Libertà subirebbe dopo poco la stessa sorte. Il secondo, e più importante, elemento di debolezza consiste nel fatto, naturalmente, che si tratta di un partito carismatico, il cui destino è strettamente legato alla sorte politica di Berlusconi.
Che succederà al Popolo della Libertà quando Berlusconi lascerà la scena politica? Si frantumerà, come è probabile, seguendo la sorte di tanti altri partiti carismatici? Oppure sperimenterà quel raro fenomeno che viene detto «istituzionalizzazione del carisma», sopravvivendo politicamente al suo fondatore? Nessuno è oggi in grado di rispondere. Il problema, però, è che la chiave per comprendere quale sarà il futuro del Paese (della sua unità) è contenuta proprio nelle risposte a queste domande.
Immaginiamo il caso peggiore, il caso in cui, uscito di scena Berlusconi, il Pdl si frantumasse in due tronconi, uno di centro- nord e uno meridionale. In fondo, le manovre in corso in Sicilia e l’agitazione dei deputati e dei ministri meridionali possono essere lette anche come un’anticipazione di quella eventualità. La nascita di un blocco politico meridionale «indipendente » esaspererebbe le spinte centrifughe. Venuto a mancare il «mastice partitico», Nord e Sud entrerebbero politicamente in rotta di collisione. La débâcle, finanziaria e di prestazioni, della Sanità meridionale, oggi sotto i riflettori, è solo un aspetto, ancorché gravissimo, delle tensioni che si vanno accumulando e che mettono in sofferenza l’unità del Paese. Cosa accadrebbe ove venisse meno il federatore?
L’eventualità, nel dopo-Berlusconi, di una divisione del centrodestra in due tronconi territorialmente contrapposti, si capisce, non dispiacerebbe all’attuale gruppo dirigente del maggior partito di opposizione, il Partito democratico. Sulla base del principio che fra i due litiganti, eccetera. Ma il Partito democratico versa in una crisi di identità difficile da risolvere e che può facilmente ridurlo alle dimensioni di un partito regionale (emiliano-toscano e poco più). Difficile che trovi la forza e la spinta per trasformarsi nel nuovo federatore del Paese.
È ormai un luogo comune storiografico che in Italia, data la debolezza dello Stato, i partiti abbiano svolto un ruolo di supplenza diventando gli (involontari) garanti della coesione sociale e politica.
Se quella tesi è vera, è alla evoluzione dei partiti che dobbiamo guardare per capire cosa ne sarà in futuro dell’unità d’Italia. Le idee, le visioni, le tradizioni (e le divisioni) culturali contano tantissimo. Ma è ciò che gli uomini scelgono di farne, per calcoli contingenti, a decidere le sorti politiche dei Paesi.
Angelo Panebianco
26 luglio 2009
I processi storici sono il frutto delle azioni degli uomini e delle organizzazioni a cui gli uomini danno vita. E’ ormai dalla fine della Seconda guerra mondiale che l’unità del Paese dipende dalla capacità integrativa, o federativa, svolta da alcuni partiti politici. In quella che, convenzionalmente, viene chiamata Prima Repubblica, l’unità del Paese dipendeva dal ruolo federatore svolto dalla Democrazia Cristiana. Fu la Dc il partito che tenne insieme l’Italia impedendo alle sue storiche fratture (Nord/Sud, Stato/Chiesa) di acutizzarsi dispiegando tutta la loro potenziale capacità disgregativa. Nel suo ruolo di partito di maggioranza relativa la Dc legava fra loro il Veneto e la Sicilia, la Lombardia e la Calabria, il Friuli e la Campania, il Trentino e il Lazio.
Nella «Repubblica dei partiti», la Democrazia Cristiana, per oltre un quarantennio, garantì il mantenimento del legame fra le diverse parti del Paese. Era quello, e non altro, il mastice in una fase storica, seguita alla dittatura e alla sconfitta bellica, in cui l’eredità risorgimentale era stata seriamente lesionata e logorata sul piano politico-simbolico. La Lega Nord, a mio avviso, non è stata la causa di nulla. La sua comparsa, nei primi anni Novanta, fu, semmai, un effetto. L’effetto di un lungo periodo dominato da una (sciagurata) pedagogia negativa sul Risorgimento e l’Unità d’Italia: per rinfrescarsi la memoria converrebbe riprendere in mano qualcuno fra i tanti manuali di storia patria circolanti nella scuola pubblica, soprattutto a partire dagli anni Settanta.
Dunque, piaccia o meno, è ai partiti politici che bisogna guardare per capire quale sorte sia riservata all’unità del Paese. Se ci si pone da questo punto di vista, effettivamente, l’estrema precarietà della situazione che viviamo salta agli occhi. Alla Dc è sì succeduto un altro partito federatore ma si tratta di un federatore fragilissimo. Si osservi la mappa elettorale del Paese. Il partito federatore, subentrato alla Democrazia Cristiana, è il Popolo della Libertà, primo partito sia al Nord che al Sud. E’ la conseguenza di quanto accadde negli anni Novanta. Spazzati via i partiti della Prima Repubblica fu allora Silvio Berlusconi, insieme ai suoi alleati, a colmare il vuoto lasciato dalla Democrazia Cristiana.
Ma il Popolo della Libertà ha due evidenti punti di debolezza. Il primo è che si tratta di un contenitore mal amalgamato, nato dalla recentissima fusione di Forza Italia e An. Un contenitore che si è formato solo per mantenere competitivo il centrodestra nel momento in cui è stato creato il Partito democratico.
Dovesse quest’ultimo dividersi (e la possibilità sicuramente esiste), il Popolo della Libertà subirebbe dopo poco la stessa sorte. Il secondo, e più importante, elemento di debolezza consiste nel fatto, naturalmente, che si tratta di un partito carismatico, il cui destino è strettamente legato alla sorte politica di Berlusconi.
Che succederà al Popolo della Libertà quando Berlusconi lascerà la scena politica? Si frantumerà, come è probabile, seguendo la sorte di tanti altri partiti carismatici? Oppure sperimenterà quel raro fenomeno che viene detto «istituzionalizzazione del carisma», sopravvivendo politicamente al suo fondatore? Nessuno è oggi in grado di rispondere. Il problema, però, è che la chiave per comprendere quale sarà il futuro del Paese (della sua unità) è contenuta proprio nelle risposte a queste domande.
Immaginiamo il caso peggiore, il caso in cui, uscito di scena Berlusconi, il Pdl si frantumasse in due tronconi, uno di centro- nord e uno meridionale. In fondo, le manovre in corso in Sicilia e l’agitazione dei deputati e dei ministri meridionali possono essere lette anche come un’anticipazione di quella eventualità. La nascita di un blocco politico meridionale «indipendente » esaspererebbe le spinte centrifughe. Venuto a mancare il «mastice partitico», Nord e Sud entrerebbero politicamente in rotta di collisione. La débâcle, finanziaria e di prestazioni, della Sanità meridionale, oggi sotto i riflettori, è solo un aspetto, ancorché gravissimo, delle tensioni che si vanno accumulando e che mettono in sofferenza l’unità del Paese. Cosa accadrebbe ove venisse meno il federatore?
L’eventualità, nel dopo-Berlusconi, di una divisione del centrodestra in due tronconi territorialmente contrapposti, si capisce, non dispiacerebbe all’attuale gruppo dirigente del maggior partito di opposizione, il Partito democratico. Sulla base del principio che fra i due litiganti, eccetera. Ma il Partito democratico versa in una crisi di identità difficile da risolvere e che può facilmente ridurlo alle dimensioni di un partito regionale (emiliano-toscano e poco più). Difficile che trovi la forza e la spinta per trasformarsi nel nuovo federatore del Paese.
È ormai un luogo comune storiografico che in Italia, data la debolezza dello Stato, i partiti abbiano svolto un ruolo di supplenza diventando gli (involontari) garanti della coesione sociale e politica.
Se quella tesi è vera, è alla evoluzione dei partiti che dobbiamo guardare per capire cosa ne sarà in futuro dell’unità d’Italia. Le idee, le visioni, le tradizioni (e le divisioni) culturali contano tantissimo. Ma è ciò che gli uomini scelgono di farne, per calcoli contingenti, a decidere le sorti politiche dei Paesi.
Angelo Panebianco
26 luglio 2009

1 commento:
Lucida e spietata analisi del ceto politico-partitico italiano, che in modo raffinato suggerisce di tenersi buono Silvio Berlusconi, tanto il dopo sarà indubbiamente peggiore.
Non mi convince.
Che l'Italia si spezzi in due è una ipotesi catastrofista, poco realisticaa, che non tiene conto della situazione produttiva nell'ambito di una crisi economica mondiale, rispetto la quale pensare che sia alle spalle è mistificazione della realtà.
L'Italia non corre il rischio, nè presente nè futuro, di dividersi in due, rischia invece di affondare tutta nel baratro del debito pubblico, nella stagnazione economica e nella recessione in atto.
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