sabato 1 agosto 2009

Economia, si naviga a vista


1/8/2009
LUCA RICOLFI


Il tormentato iter del decreto anti-crisi si concluderà oggi con un espediente tecnico rocambolesco: il decreto legge 78 (1 luglio 2009), che traduce in misure specifiche la filosofia del Dpef 2010-2013, verrà convertito in legge stamattina al Senato (con il voto di fiducia), ma un’ora dopo il Consiglio dei ministri si riunirà per varare un decreto legge «correttivo» che - di fatto - impedirà l’entrata in vigore delle norme più controverse del primo decreto appena approvato (competenze del ministero dell’Ambiente, scudo fiscale, poteri della Corte dei Conti). Una sorta di uccisione in culla, o di soppressione del nascituro prima che possa fare danni. Ora che l’iter del Documento di Programmazione Economico-Finanziaria (Dpef 2010-2013) si è concluso, vale forse la pena soffermarsi - più che sulle decine e decine di misure varate - sulla filosofia di fondo che lo ispira. Che a me pare più o meno questa: «Lasciamo perdere le traversate oceaniche, navighiamo a vista». Perché parlo di navigazione a vista? Essenzialmente per i contenuti del cosiddetto «quadro programmatico aggiornato» (pag. 1 del Dpef) dove si apprende che:
a) nemmeno nel 2013 avremo i conti pubblici in pareggio (deficit previsto per il 2013: -2,4%);
b) il debito, tornato oggi in prossimità del massimo storico, vi resterà per tutta la legislatura;
c) la pressione fiscale fluttuerà intorno al 43% (anziché scendere sotto il 40% come promesso in campagna elettorale);
d) la spesa pubblica corrente, dopo il picco del 2009 (43,4%), resterà prossima al 42%, 2 punti al di sopra del livello cui l’avevano lasciata Prodi e Padoa-Schioppa; e) spesa sanitaria e pensioni continueranno a crescere a un ritmo superiore al 3%, senza ridurre la loro incidenza sul Pil.

Quanto al breve periodo, la manovra di politica economica - fino al 2011 - non prevede alcun effetto (in più o in meno) sul deficit pubblico, ma semplici spostamenti di entrate e uscite da un capitolo all’altro, secondo una logica che è soprattutto di tamponamento delle situazioni sociali più allarmanti:
chiusura di fabbriche,
messa in cassa integrazione di operai e impiegati,
mancato rinnovo di contratti a tempo determinato, scarsità di credito alle imprese.
Difficile immaginare uno scenario più mesto, nonché più lontano dalla baldanza del 2001, quando - incautamente - il «Contratto con gli italiani» prometteva abbattimento della pressione fiscale, piani grandiosi sulle infrastrutture, milioni di posti di lavoro, riduzione del numero di reati. Ridotto all’osso, il Dpef ci dice che - per ora - quel che si può fare è lenire le ferite aperte dalla crisi, senza impegolarci in politiche troppo ambiziose.

Questa mestizia può anche essere giudicata positivamente, almeno in confronto alle promesse mai mantenute dai governi precedenti, sia di destra sia di sinistra. Così come si può considerare saggia, o realistica, la scelta del Dpef (esplicitata a pag. 29) di non incorporare nel quadro programmatico né gli eventuali benefici del federalismo fiscale, né i risparmi di spesa che potrebbero derivare da un futuro accordo con i sindacati sulla spesa pensionistica. Meglio non vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso, deve aver pensato il prudente Tremonti; e se poi qualcosa di meglio si riuscirà a fare, tanto di guadagnato. E tuttavia il dubbio resta: forse fra l’euforia irresponsabile del 2001 e la mestizia ragionieristica del 2009 una via di mezzo si potrebbe anche cercare. Ma quale via?

In realtà se ne possono immaginare tante, ma il punto centrale - come osservava qualche tempo fa Mario Monti - è quello di ridare agli italiani una prospettiva, una direzione di marcia, mete e scadenze con cui misurarsi.
Ad esempio:
una riforma degli ammortizzatori sociali che riduca l’incertezza e dia a tutti i lavoratori un briciolo di tranquillità;
un obiettivo preciso di riduzione della pressione fiscale su famiglie e imprese, che renda più comprensibili i tagli di spesa presenti e futuri;
un po’ di chiarezza nei conti del federalismo fiscale, nonché sulle regole con cui dovremo passare dalla spesa storica ai costi standard.
Ma soprattutto: qualche segnale meritocratico in più, sul genere di quello che pochi giorni fa il ministro Gelmini ha indirizzato alle Università, quando ha deciso di premiare gli atenei virtuosi e penalizzare quelli inefficienti. Gli sprechi, le inefficienze, gli abusi non ci sono solo nell’Università e nella scuola, ma anche nella sanità, nell’assistenza (false pensioni di invalidità), nella giustizia civile e penale, nelle carceri, nella burocrazia pubblica. Forse è venuto il momento di dirlo a voce alta, con la chiarezza dei numeri. E di farci capire che, ormai, quegli sprechi e quelle inefficienze non possiamo più permettercele.

2 commenti:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

C.V.D. (Come Volevasi Dimostrare).

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Ridacchio: qui si incagliano i neo riformisti del PD!