
Sarà pure che il dibattito politico estivo, in Italia, non fa testo. Una volta, per distinguerlo da quello vero, si parlava di politici sotto l’ombrellone. Ma la discussione che s’è svolta ad agosto, a partire dalle proposte leghiste sull’uso e l’insegnamento dei dialetti e sulle gabbie salariali, per arrivare al tema, più complesso, delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ha prodotto una novità. Il confronto tra le posizioni, spesso eccentriche, della Lega, e quelle degli altri partiti, non è stato alla pari. Anzi, per la prima volta dopo molto tempo, s’è formato una specie di «arco costituzionale», che andava dal Pdl al Pd, alla sinistra estrema, e s’è ritrovato compatto nel condannare le posizioni del Carroccio e collocarle ai margini del sistema. Che poi al fondo di tutto, trasparente, ci fosse il tentativo di mettere in difficoltà Berlusconi, al quale in ultima istanza spetta mediare le richieste della Lega e renderle compatibili con la politica del governo, era chiaro. Ma il meccanismo con cui questo è avvenuto è curioso, e ricorda, tanto per fare un esempio, il modo in cui per decenni, nella Prima Repubblica, veniva trattato il Msi di Almirante. Fino al tentativo, fallito e controproducente al principio degli Anni Settanta, di ottenerne lo scioglimento per ricostituzione del partito fascista.
Prendiamo, appunto, la polemica sull’uso dei dialetti e sull’eventualità di incrementarne lo studio nelle scuole. E prendiamola dal lato più leggero, la singolare proposta del ministro dell’Agricoltura Zaia di impegnare la Rai a trasmettere fiction nelle diverse lingue locali. Nelle reazioni che l’hanno seguita, Zaia - che certo avrebbe dovuto accompagnare la sua iniziativa con argomenti più consistenti, evitando di confondere i dialetti con la pretesa, a suo giudizio, propaganda della «cultura gay» - è stato trattato quasi come un appestato, uno che vorrebbe «Capri in napoletano, Montalbano in siciliano, Gente di mare in calabrese, Nebbie e delitti in emiliano, Un caso di coscienza in friulano» (Fabrizio Morri, Pd), uno che «ha confuso Ferragosto con Carnevale» (Giorgio Merlo, Pd), uno che ha detto «una fesseria» (Italo Bocchino, Pdl). E così via. C’è stata perfino una precisazione del regista Peppuccio Tornatore, che sta per presentare un film dedicato al suo paese natale Bagheria - intitolato, in dialetto, Baària -, come a dire che il fatto non deve costituire un precedente. Il siciliano di Montalbano Ora, a parte il fatto che Montalbano va in onda da anni sulla Rai con una parte dei dialoghi in siciliano, e Andrea Camilleri, lo scrittore che ha inventato e descritto in dialetto il fortunato personaggio del commissario, ha gran parte dei suoi lettori al Nord, non si capisce perché una proposta, pur singolare come quella di Zaia, non possa essere discussa, e magari accantonata, senza essere sbeffeggiata, come se venisse da un «Bru-bru», e non da un qualificato membro del governo.
Analogo ragionamento si può fare sulle gabbie salariali territoriali. Passi il fatto che la parola «gabbie» è sbagliata e non è certo la più adatta per impostare un confronto con le parti sociali. Ma c’è dubbio che le gabbie, sotto forma di flessibilità, contratti a termine, lavoro in affitto, sono state introdotte da anni in Italia, anche con il consenso dei sindacati, ed hanno contribuito a creare opportunità di lavoro, a ridurre la disoccupazione, specie per i più giovani, ma anche a determinare situazioni di precarietà spesso difficili da affrontare? E se si va bene a guardare, l’articolazione di questi strumenti contrattuali flessibili non è in qualche modo «territoriale»? Non rispecchia cioè - aiutando perfino a contrastarlo - l’incerto andamento dell’economia nazionale, segnalando le aree in cui si reagisce con più prontezza alla crisi, rispetto a quelle in cui la congiuntura s’è abbattuta con conseguenze imprevedibili? E non è da qui che in autunno occorrerà ripartire per cercare, se davvero ci sarà, di agganciare la ripresa? Viene da pensare che se la proposta non fosse venuta dalla Lega, ma da uno dei nostri togati e rispettati economisti, forse avrebbe avuto più fortuna. E quando approderà su uno dei tanti tavoli di contrattazione a Palazzo Chigi, sarà gioco forza fingere, ipocritamente, che è un’altra cosa, e cambiarle nome.
Si potrebbe continuare con altri esempi. Ma prima di arrivare all’Unità d'Italia, su cui, di questo passo, è prevedibile lo scontro peggiore, c’è da capire perché oggi sta accadendo tutto questo di fronte alla Lega, un partito che esiste, ormai, da un quarto di secolo, che ha centinaia di sindaci, assessori ed amministratori, che sta al governo con una delegazione di primo piano, a cominciare dal ministro dell’Interno, e che insomma fa parte ormai stabilmente del «sistema». Si dirà che la politica della Lega in molti casi (vedi le ronde metropolitane e i problemi che stanno creando) è «anti-sistema» e incompatibile con le esigenze di una Paese democratico maturo. E per di più che la Lega ne ricava disinvoltamente consistenti vantaggi elettorali al Nord. E’ possibile, ma non basta. Di partiti «anti-sistema» che sono stati al governo, in Italia, ce n’è più d’uno, e ce ne sono anche nel centrosinistra. Senza però che questo comporti una messa al bando, o una sorta di dichiarazione di minorità, e neppure il muro che a poco a poco si cerca di costruire attorno al Carroccio, che ha portato un leader del centrosinistra come Fassino a ipotizzare sorprendentemente in Veneto una sorta di grande coalizione anti-Bossi, e che alla fine non potrà che giovare a un partito territoriale come il suo, che ormai da anni vede i suoi voti crescere a ogni elezione. I lati oscuri dell’unità d’Italia.
La politica italiana, d’altra parte, è sempre stata inclusiva. Lo era negli anni migliori della Prima Repubblica, quando in Parlamento sedevano i leader della sinistra una volta chiamata «extraparlamentare», lo è rimasta ai tempi della Seconda, quando il maggioritario ha portato ad allargare le coalizioni a tutte le forze disponibili. La svolta verso i due grandi partiti a «vocazione maggioritaria», esclusivi, chiusi verso le estreme, non ha portato, come s’è visto, Berlusconi e il Pdl a risolvere i problemi interni alla loro larga maggioranza, né Veltroni, Franceschini e il Pd a rendere più competitivo il centrosinistra e a farlo tornare al governo.
In questo quadro, le celebrazioni dell’Unità d'Italia che si preparano per il 2011 diventano un banco di prova importante. Non è pensabile - e bisogna guardarsene bene - trasformarle in un’occasione di retorica nazionale come purtroppo altre volte è accaduto. Né, chiaramente, è questo l’intendimento del presidente Napolitano che ha sollecitato la definizione di un programma, e del presidente Ciampi, che presiede il comitato addetto alla ricorrenza. Si tratta di rivisitare un’epoca così lontana cogliendone insieme l’importanza, i limiti e l’evoluzione della storia di un Paese. Senza cedimenti, una volta tanto, alla solita retorica garibaldina, che serva a coprire gli ormai accertati lati oscuri del processo unitario, a cominciare dalle conseguenze della conquista militare del Sud, e dalla cancellazione, sotto l’etichetta di «banditismo», di larga parte del dissenso politico meridionale. E senza neppure nascondere le crepe, che, a un secolo e mezzo di distanza, l’unificazione mostra ancora, in un’Europa purtroppo sempre meno unita e in cui ovunque, ormai, fioriscono partiti e movimenti locali e spinte secessioniste. Già, chi ha detto che a centocinquant’anni di distanza, l’Italia non possa celebrare insieme la sua unità e il suo nuovo assetto federalista?


Nessun commento:
Posta un commento