
Il manifesto tarocco di Barack Obama con i baffetti di Hitler è apparso già da alcuni mesi. Condannato, irriso, denunciato.
Eppure, il fantasma del Grande Dittatore non accenna ad andar via da questa vera e propria campagna elettorale innescatasi intorno alla riforma dell’assistenza sanitaria proposta dal Presidente americano.
In stile esercito della salvezza, il manipolo di seguaci dell’ottantaseienne e semidemente Lyndon LaRouche espone Obama-Hitler ogni giorno agli angoli delle strade.
Nelle ormai famose assemblee cittadine il grido di Obama-Hitler è inevitabile. La reintroduzione dell’eutanasia nazista contro i vecchi e i disabili nella riforma di Obama (i «Comitati della morte») è denunciata da eminenti repubblicani, come il senatore Chuck Grassley, che pure è parte della squadra bipartisan al lavoro sul testo della riforma, e la ex governatrice Sarah Palin. Di politiche di eutanasia nazional-autoritarie (ma senza nominare i Nazi) parlano tuttavia anche il democratico ex sindaco di New York Ed Koch e Camille Paglia, la saggista liberal-radical. L’ombra del Grande Dittatore, uscita dalla scatola della storia, semplicemente sembra rifiutare di ritornarvi.
Il fenomeno può essere preso molto o poco sul serio. Vi si può costruire sopra una teoria della cospirazione anti-Obama. O lo si può declassare al livello del solito folklore americano. Entrambe le tentazioni sono presenti nelle parole dei protagonisti della scena di Washington. Ma se si va al di là della cronaca, il richiamo al nazismo nella polemica americana è importante per una diversa ragione: l’evocazione di Hitler in questo Paese non è affatto una novità, è anzi una presenza costante del panorama emotivo-politico.
Non bisogna andare molto indietro nel tempo per ritrovare l’ombra del Führer. Negli anni di Bush il fotomontaggio del presidente in camicia con svastica è stata un’icona della protesta dei democratici e del mondo pacifista. L’ironia dell’odierna inversione di ruoli intorno a Hitler non può sfuggire. D’altra parte, fu proprio Bush a invocare Hitler per spiegare la natura di Saddam Hussein e la necessità della guerra in Iraq. Il capo del Terzo Reich è anche l’ispiratore di uno dei gruppi terroristi americani di maggiore pericolosità e continuità - i White Supremacist, alla cui influenza è stato attribuito il maggior attentato terroristico sul suolo americano prima dell’11 settembre, la bomba di Oklahoma City del 1995, in cui morirono 168 persone. Ancora più indietro: la simpatia del patriarca Kennedy per il fondatore della nuova Germania venne spesso usata per attaccare il presidente Kennedy.
Insomma, c’è un Hitler quasi per ogni stagione Usa. E proprio questa ubiquità del nazismo è un elemento rivelatore della formazione politica americana e della sua memoria. Perché questa permanenza? Perché proprio Hitler, e non - in un Paese così anticomunista - Stalin, i cui baffi, dopotutto, avrebbero forse fatto su Obama, accusato di essere un criptosocialista, miglior figura?
La prima risposta a questi interrogativi è molto facile: la lotta al nazismo è stato l’avvenimento definitorio del «Secolo americano». Un paese nato contro ogni intervento e interventismo europeo, in nome della fine di qualunque ingerenza imperialistica nei confronti della libertà dei popoli, trovò nell’opposizione al nazismo la forza e la ragione per intervenire in un conflitto mondiale e, alla fine, per reinventarsi come superpotenza. Includendo, in questo processo, la grande influenza intellettuale ebraica nella formazione dell’arena pubblica Usa.
Il nazismo come Male supremo è l’epitome della politica nella coscienza comune americana. Il brillante lavoro di Charlie Chaplin sul Grande Dittatore è forse il miglior testimonial di questo tipo di sensibilità. Tuttavia, questa onnipresente figura di Hitler non è sempre la stessa. In varie epoche e nelle varie polemiche il Male simbolizzato dal nazismo si presenta in forme diverse. Seguirne le diverse versioni diventa così un’utile mappa per capire cosa cova sotto le ceneri dei malumori di ieri e di oggi.
L’esempio da cui partire è proprio quello di cui abbiamo già parlato, cioè l’uso fattone, in questi ultimi anni, alternativamente, da democratici e repubblicani, contro Bush e contro Obama. Stesso Hitler, significati diversi.
Prendiamo un documento circolato molto nel 2004 , stilato dal professor Edward Jayne, ex attivista degli Anni Sessanta, in cui si elencavano ben 31 somiglianze fra Bush e Hitler. Il cuore del parallelismo era la guerra. «Come Hitler, Bush ha usato un pubblico disastro per tagliare le libertà civili: nel caso di Hitler fu l’incendio del Reichstag, nel caso di Bush l’11 settembre»; «Come Hitler, Bush è ossessionato dalla visione di un conflitto fra il Bene (il patriottismo Usa) e il Male (l’antiamericanismo)»; e, come Hitler, Bush «ha usato il meccanismo delle guerre “preventive”». Il razzismo si rivela alla fine la vera base di queste identiche concezioni: la distorsione del darwinismo, «nel caso di Hitler trattando la razza ariana come superiore su base evoluzionista, nel caso di Bush rifiutandone la scienza a favore di un creazionismo fondamentalista».
Per un Hitler perfetto da usare contro Bush, abbiamo oggi un altro Hitler la cui evocazione ci spiega i sentimenti profondi che albergano contro Obama in una parte della popolazione americana. L’equivalente del manifesto citato è un sito collettivo, «America vs Obama», e si intitola «Obama the black Hitler». L’Hitler che si evoca per il presidente attuale è quello che arriva al potere tramite la manipolazione delle emozioni, della verità e dei media. Queste alcune delle citazioni del Reich valide per Obama: «Solo colui che conquista i giovani ha in mano il futuro», «Io uso le emozioni per le masse e riservo la ragione per pochi», «Di’ una bugia, una bugia grande, continua a ripeterla, e alla fine ti crederanno».
Obama e Hitler, in questa interpretazione, condividono una visione dello Stato collettivista e autoritaria: «La salvezza individuale dipende dalla salvezza collettiva». Condividono dettagli della loro vita: «Hitler era vegetariano, pro aborto, un promotore dell’assistenza medica universale». Condividono la frode sulle loro origini miste: «Hitler aveva sangue ebreo, e Obama sangue arabo».
Ma alla fine, anche questa volta, è il razzismo che cementa le somiglianze: in questo caso, il comune odio contro gli ebrei. A Obama viene attribuito «l’arrivo di un secondo Olocausto», quello dell’Iran contro Israele, e una politica di «eliminazione degli indesiderabili». Dall’autoritarismo al dominio dello Stato, fino alla riforma medica, tutto alla fine si tiene. Con l’evocazione dell’eutanasia come sigillo finale di un percorso solo apparentemente irrazionale. Rivisitando l’ombra di Hitler, si capisce bene di quali sentimenti si nutra l’attuale tensione di base, dei vari movimenti e delle assemblee cittadine, nei confronti di Obama. E su cui molti rappresentanti repubblicani lavorano.
La prossima domanda è: questa tensione, così radicale nelle sue evocazioni, può anche diventare pericolosa? La traduzione in altre parole di questo interrogativo è se Obama rischia o no la vita - ma nessuno lo dice così direttamente. Questo è lo spettro vero che circola, ma tutti hanno il pudore di non dargli forma. Si evoca dunque Hitler. Metafora che, ogniqualvolta appare sulla scena americana, come abbiamo cercato di dimostrare, è comunque il segno che il termometro della discussione pubblica si alza.
1. Continua
Eppure, il fantasma del Grande Dittatore non accenna ad andar via da questa vera e propria campagna elettorale innescatasi intorno alla riforma dell’assistenza sanitaria proposta dal Presidente americano.
In stile esercito della salvezza, il manipolo di seguaci dell’ottantaseienne e semidemente Lyndon LaRouche espone Obama-Hitler ogni giorno agli angoli delle strade.
Nelle ormai famose assemblee cittadine il grido di Obama-Hitler è inevitabile. La reintroduzione dell’eutanasia nazista contro i vecchi e i disabili nella riforma di Obama (i «Comitati della morte») è denunciata da eminenti repubblicani, come il senatore Chuck Grassley, che pure è parte della squadra bipartisan al lavoro sul testo della riforma, e la ex governatrice Sarah Palin. Di politiche di eutanasia nazional-autoritarie (ma senza nominare i Nazi) parlano tuttavia anche il democratico ex sindaco di New York Ed Koch e Camille Paglia, la saggista liberal-radical. L’ombra del Grande Dittatore, uscita dalla scatola della storia, semplicemente sembra rifiutare di ritornarvi.
Il fenomeno può essere preso molto o poco sul serio. Vi si può costruire sopra una teoria della cospirazione anti-Obama. O lo si può declassare al livello del solito folklore americano. Entrambe le tentazioni sono presenti nelle parole dei protagonisti della scena di Washington. Ma se si va al di là della cronaca, il richiamo al nazismo nella polemica americana è importante per una diversa ragione: l’evocazione di Hitler in questo Paese non è affatto una novità, è anzi una presenza costante del panorama emotivo-politico.
Non bisogna andare molto indietro nel tempo per ritrovare l’ombra del Führer. Negli anni di Bush il fotomontaggio del presidente in camicia con svastica è stata un’icona della protesta dei democratici e del mondo pacifista. L’ironia dell’odierna inversione di ruoli intorno a Hitler non può sfuggire. D’altra parte, fu proprio Bush a invocare Hitler per spiegare la natura di Saddam Hussein e la necessità della guerra in Iraq. Il capo del Terzo Reich è anche l’ispiratore di uno dei gruppi terroristi americani di maggiore pericolosità e continuità - i White Supremacist, alla cui influenza è stato attribuito il maggior attentato terroristico sul suolo americano prima dell’11 settembre, la bomba di Oklahoma City del 1995, in cui morirono 168 persone. Ancora più indietro: la simpatia del patriarca Kennedy per il fondatore della nuova Germania venne spesso usata per attaccare il presidente Kennedy.
Insomma, c’è un Hitler quasi per ogni stagione Usa. E proprio questa ubiquità del nazismo è un elemento rivelatore della formazione politica americana e della sua memoria. Perché questa permanenza? Perché proprio Hitler, e non - in un Paese così anticomunista - Stalin, i cui baffi, dopotutto, avrebbero forse fatto su Obama, accusato di essere un criptosocialista, miglior figura?
La prima risposta a questi interrogativi è molto facile: la lotta al nazismo è stato l’avvenimento definitorio del «Secolo americano». Un paese nato contro ogni intervento e interventismo europeo, in nome della fine di qualunque ingerenza imperialistica nei confronti della libertà dei popoli, trovò nell’opposizione al nazismo la forza e la ragione per intervenire in un conflitto mondiale e, alla fine, per reinventarsi come superpotenza. Includendo, in questo processo, la grande influenza intellettuale ebraica nella formazione dell’arena pubblica Usa.
Il nazismo come Male supremo è l’epitome della politica nella coscienza comune americana. Il brillante lavoro di Charlie Chaplin sul Grande Dittatore è forse il miglior testimonial di questo tipo di sensibilità. Tuttavia, questa onnipresente figura di Hitler non è sempre la stessa. In varie epoche e nelle varie polemiche il Male simbolizzato dal nazismo si presenta in forme diverse. Seguirne le diverse versioni diventa così un’utile mappa per capire cosa cova sotto le ceneri dei malumori di ieri e di oggi.
L’esempio da cui partire è proprio quello di cui abbiamo già parlato, cioè l’uso fattone, in questi ultimi anni, alternativamente, da democratici e repubblicani, contro Bush e contro Obama. Stesso Hitler, significati diversi.
Prendiamo un documento circolato molto nel 2004 , stilato dal professor Edward Jayne, ex attivista degli Anni Sessanta, in cui si elencavano ben 31 somiglianze fra Bush e Hitler. Il cuore del parallelismo era la guerra. «Come Hitler, Bush ha usato un pubblico disastro per tagliare le libertà civili: nel caso di Hitler fu l’incendio del Reichstag, nel caso di Bush l’11 settembre»; «Come Hitler, Bush è ossessionato dalla visione di un conflitto fra il Bene (il patriottismo Usa) e il Male (l’antiamericanismo)»; e, come Hitler, Bush «ha usato il meccanismo delle guerre “preventive”». Il razzismo si rivela alla fine la vera base di queste identiche concezioni: la distorsione del darwinismo, «nel caso di Hitler trattando la razza ariana come superiore su base evoluzionista, nel caso di Bush rifiutandone la scienza a favore di un creazionismo fondamentalista».
Per un Hitler perfetto da usare contro Bush, abbiamo oggi un altro Hitler la cui evocazione ci spiega i sentimenti profondi che albergano contro Obama in una parte della popolazione americana. L’equivalente del manifesto citato è un sito collettivo, «America vs Obama», e si intitola «Obama the black Hitler». L’Hitler che si evoca per il presidente attuale è quello che arriva al potere tramite la manipolazione delle emozioni, della verità e dei media. Queste alcune delle citazioni del Reich valide per Obama: «Solo colui che conquista i giovani ha in mano il futuro», «Io uso le emozioni per le masse e riservo la ragione per pochi», «Di’ una bugia, una bugia grande, continua a ripeterla, e alla fine ti crederanno».
Obama e Hitler, in questa interpretazione, condividono una visione dello Stato collettivista e autoritaria: «La salvezza individuale dipende dalla salvezza collettiva». Condividono dettagli della loro vita: «Hitler era vegetariano, pro aborto, un promotore dell’assistenza medica universale». Condividono la frode sulle loro origini miste: «Hitler aveva sangue ebreo, e Obama sangue arabo».
Ma alla fine, anche questa volta, è il razzismo che cementa le somiglianze: in questo caso, il comune odio contro gli ebrei. A Obama viene attribuito «l’arrivo di un secondo Olocausto», quello dell’Iran contro Israele, e una politica di «eliminazione degli indesiderabili». Dall’autoritarismo al dominio dello Stato, fino alla riforma medica, tutto alla fine si tiene. Con l’evocazione dell’eutanasia come sigillo finale di un percorso solo apparentemente irrazionale. Rivisitando l’ombra di Hitler, si capisce bene di quali sentimenti si nutra l’attuale tensione di base, dei vari movimenti e delle assemblee cittadine, nei confronti di Obama. E su cui molti rappresentanti repubblicani lavorano.
La prossima domanda è: questa tensione, così radicale nelle sue evocazioni, può anche diventare pericolosa? La traduzione in altre parole di questo interrogativo è se Obama rischia o no la vita - ma nessuno lo dice così direttamente. Questo è lo spettro vero che circola, ma tutti hanno il pudore di non dargli forma. Si evoca dunque Hitler. Metafora che, ogniqualvolta appare sulla scena americana, come abbiamo cercato di dimostrare, è comunque il segno che il termometro della discussione pubblica si alza.
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1 commento:
Su La Stampa di ieri Lucia Annunziata si è spesa in un commento intricato (volutamente oscuro?) della mobilitazione americana contro la "riforma" sanitaria proposta dai consiglieri presidenziali e da Obama stesso.
Impegnata a giochicchiare con qualche balocco sociologico, Lucia si pone una prima domanda: perché Obama è stato paragonato "proprio [a] Hitler?"
Se è vero che l'icona del folle dittatore appare di frequente, nelle battaglie politiche interne al Paese che lo sconfisse, questa volta sembra che il paragone abbia colpito nel segno.
Il vero problema di Lucia è come spiegare il fenomeno, omettendo di proposito la sua concausa principale. Benché in apertura abbia riconosciuto il ruolo essenziale del movimento di Lyndon LaRouche nel creare la mobilitazione, ella si svilisce facendo eco ad attacchi personali a LaRouche, basati sulla sua veneranda età (quella stessa età alla quale la "larouchiana" Amelia Boynton Robinson incontrò l'Annunziata, in uno dei suoi tour in Italia) e ad una ipotetica "semidemenza", cioè a quella condizione della mente di LaRouche che i suoi veri nemici detestano e che molti amici gli invidiano.
Poi, sicura di aver allontanato l'attenzione del lettore dall'unico economista che seppe prevedere questa crisi economica globale, passa a divagare su razzismi vari e su altre cosucce di minor rilievo politico.
Soltanto verso la fine del pezzo Lucia fa apparire la parola "eutanasia", in un compromesso forzato: non poter negare fino in fondo, ma sminuire l'importanza della cosa.
Questo comportamento è un chiaro segno dei tempi, tempi in cui le soluzioni fasciste alla crisi finanziaria ed economica trovano eco nella compiacenza dei commentatori, anche se si professano di altra ispirazione.
Sarebbe molto più facile per Lucia, volendo - come si dice - "fare informazione" e lasciando che l'informazione si diffondesse liberamente, se indicasse al lettore la videoconferenza del I agosto, in cui LaRouche ha spiegato chiaramente che cosa stia accadendo, e perché sia necessario educare rapidamente la popolazione a riconoscere le ragioni della sottomissione dell'esecutivo alle esigenze dell'Impero Britannico (vedi anche Newsweek, con L'Inghilterra ha sfasciato il mondo?), anziché farsi prendere dalle pure emozioni.
C'è infatti, come dice nelle sue ultime righe, il rischio che "questa tensione, così radicale nelle sue evocazioni, [possa] anche diventare pericolosa [...] La traduzione in altre parole di questo interrogativo è se Obama rischia [sic] o no la vita".
Peccato che menta un'ultimissima volta: "ma nessuno lo dice così direttamente". Che legga gli avvertimenti di inizio anno ("Perché i Britannici assassinano i Presidenti Americani") e le ultime dichiarazioni di LaRouche, in proposito: il rischio è molto più alto adesso, che la riforma è stata opportunamente frenata.
Per lo scompiglio seguente, la morte del presidente potrebbe servire all'Impero, sempre teso a riassorbire la "repubblica ribelle".
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