lunedì 28 settembre 2009


di Marco Galvani

Monza, 28 settembre 2009 - Si è sparato un colpo in pieno petto con la pistola d’ordinanza, chiuso nella camera della caserma in cui da 18 anni viveva, all’interno del carcere di Monza. Così sabato notte ha deciso di farla finita A.B., 38 anni, assistente capo della polizia penitenziaria.

Alla base del gesto disperato, la depressione dopo quella che per lui era l’ennesima beffa subita. Da anni chiedeva il trasferimento in un carcere più vicino a casa e ai suoi genitori, a Calciano, piccolo centro lucano di poco più di 900 abitanti, in provincia di Matera. Alcuni giorni fa gli era finalmente arrivata la comunicazione del suo trasferimento, ma alla casa circondariale di Perugia.

Ancora troppi, evidentemente i 560 chilometri che l’avrebbero separato dalla famiglia. "Si è sentito quasi preso in giro - raccontano i colleghi -. Continuava a ripetere che per lui cambiava poco stare a Monza o a Perugia, perché sarebbe stato comunque troppo lontano da casa. L’ideale sarebbe stato Matera, ma anche Potenza o Taranto gli sarebbero andati bene".

Invece no. Perugia. "Purtroppo era celibe e quindi la precedenza nei trasferimenti, secondo la prassi, viene data a chi ha moglie e figli. Era solo, però non aveva mai dato segnali di cedimento. Un gran lavoratore, ben visto da tutti", continuano gli agenti.

È stato proprio un collega a scoprire la tragedia. Iera mattina ha bussato più volte alla porta della camera, esortandolo ad alzarsi per prendere servizio. Non ricevendo risposta è entrato in stanza e si è trovato davanti il corpo ormai senza vita dell’assistente capo. Il pm di turno Salvatore Bellomo ha posto sotto sequestro la camera, i rilievi effettuati dalla Scientifica dei carabinieri.

Sgomento, dolore ma soprattutto rabbia fra gli amici-colleghi di Monza e in generale di tutto il corpo di polizia penitenziaria. "Oggi è un momento di grande dolore e non intendiamo strumentalizzare la morte suicida di un collega - la premessa di Eugenio Sarno, segretario generale della Uil Penitenziari -.

"Tuttavia non possiamo nascondere che gli agenti operano costantemente in situazioni di grande disagio, schiacciati da carichi di lavoro e turni massacranti". E "il fatto che quest’ultimo suicidio, il tredicesimo negli ultimi due anni, sia accaduto a Monza - rimarca Sarno - deve far riflettere".

Fa riflettere perché la casa circondariale di via Sanquirico "è una delle realtà più difficili dal punto di vista ambientale e lavorativo". Sono i numeri a fotografare le denunce del sindacato degli agenti: la polizia penitenziaria dovrebbe avere una pianta organica di 462 unità ma effettivamente in servizio ce ne sono solo 342. E questo vuol dire arrivare a macinare anche 60 ore di straordinario al mese per garantire tutte le attività di un istituto di pena.

Pochi agenti ma celle sempre sovraffollate: i detenuti sono costantemente sopra quota 800, un centinaio di donne, il resto uomini, quasi la metà stranieri. Ma la capienza regolamentare del carcere - stabilita dal Ministero - è di 409 reclusi, che sale a 730 se diventa "capacità tollerata".

In ogni caso sono 390 i detenuti in esubero. Troppi. Innanzitutto perché al sovraffollamento spesso si risponde facendo dormire i detenuti col materasso per terra, ma anche perché si creano inevitabilmente disagi: 38 sono stati i casi di autolesionismo fra i reclusi a Monza, mentre a livello regionale 800 gli agenti feriti negli ultimi 18 mesi da detenuti spesso esasperati.

Situazione esplosiva che inevitabilmente si riflette sul lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. E gli sfollamenti in altre carceri della Lombardia a volte è impossibile perché "tutta la situazione regionale è al collasso": in venti istituti che, per capienza regolamentare, dovrebbero ospitare 5.913 detenuti, sono rinchiuse 8.425 persone. A controllarli, solo 3.953 agenti invece che 5.520.

Ma "nessuno interviene". Adesso, però, "il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, non può più perpetrare un silenzio che indigna e offende".

Marco Galvani

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