martedì 29 settembre 2009

PD A MACCHIA DI LEOPARDO: IL PARTITO CHE NON C’E’


di Luca Telese

Dice Furio Colombo: “il Partito Democratico non proietta l’ombra”. Una immagine folgorante, per spiegare il paradosso di un congresso che non produce dibattito nel paese, di una conta che scandisce il suo appello nella stanze chiuse. Sabato e domenica si è celebrato il turno più importante si è votato in centinaia di sezioni. E cosa si scopre di nuovo? A prima vista poco.

Un voto ai raggi X. In realtà molto, su di un partito che viene passato ai raggi X di una prova elettorale. Pierluigi Bersani (per ora) vince bene con il 53%. Dario Franceschini perde, sorprendentemente con il 38%, anche se non è del tutto fuorigioco. Ignazio Marino, con il suo 8% ormai consolidato (forse di più), entra nel ballottaggio a tre ed è destinato a diventare il king maker.

Perchè? Per due motivi: perchè se nelle primarie con i cittadini Bersani non raggiungerà la soglia del 51%, i voti dei suoi delegati saranno determinanti per eleggere il vincitore della sfida. E poi perchè i numeri regione per regione dimostrano una grande potenzialità di consenso fuori dagli apparati, diventano il paradigma del congresso, e sono per certi versi clamorosi. Percentuali sballate. Ad esempio. Il chirurgo ottiene in tutte le città da Roma in su percentuali fra il 20 e il 30% (con punte del 35%). Mentre invece precipita al 3% e rotti in Puglia, Calabria, Campania. In tutto il Sud si è prodotto un risultato a macchia di leopardo”. Dove i signori delle tessere sono a favore di Franceschini, i voti si riversano sul segretario. Dove accade il contrario le percentuali si ribaltano. In pratica è stato cancellato il voto di opinione. Qualche esempio illuminante? Come è possibile che Franceschini riesca a raggiungere il 90% dei voti, non in una singola sezione, ma in una città grande come Messina? E come è possibile che Bersani superi l’80% in buona parte della Calabria e soprattutto a Reggio? Il voto del congresso, senza volerlo, disegna una geografia schizofrenica e preoccupante. Dove il partito non governa, ed è politicamente irrilevante il voto d’opinione è libero. Dove invece conta e governa, prevale il peso dei capibastone.

Voto militarizzato. I sostenitori di Marino non si fanno tanti problemi e usano parole forti: “La questione democratica - spiega Michele Meta, cuore organizzativo della mozione - si fa grave al Sud, dove il voto è controllato, e di fatto militarizzato. Possiamo dirlo senza alcuna remora, perchè noi, in questi mesi, abbiamo denunciato tutte le votazioni sospette”. E le risposte? Il sorriso si fa amaro: “Nessuna”.

Ma anche fra le due mozioni più forti c’è chi non nasconde le sue perplessità: “Il voto al sud non è libero - ha detto Pina Picierno, ex pupilla di De Mita, ex ministro ombra, oggi sostenitrice della mozione di Franceschini - posso parlare della mia provincia, che conosco bene: quando si arriva a percentuali che superano l’80 per cento, come qui è successo con la mozione di Bersani, c’è di sicuro qualcosa che non va”. Vuol dire che il voto è inquinato ? Sorriso amaro: “Mi faccia una intervista quando i dati saranno completi e glielo spiego meglio, numeri alla mano”.

Partecipazione bassa. Ma il terzo fattore di inquietudine è in un altro dato, che non è sotto i riflettori. Quello dello dell’affluenza. Se le cose continuano così, sarà molto difficile che si arrivi a 500mila votanti. il che significa che molte delle 420 mila tessere che sono arrivate solo negli ultimi mesi erano il prodotto di un effetto doping. Di più: in alcuni circoli in cui il tesseramento era sospetto, le mozioni più deboli hanno mandato i loro 007 a controllare. Il che ha prodotto effetti clamorosi. Come quello di tre circoli di Roma (solo per fare un esempio) che superavano i mille iscritti. In quegli stessi seggi (controllati a vista) hanno votato poco più di cento persone: solo uno su dieci. Una media quattro volte più bassa della media nazionale! In quanti circoli, magari dove non c’erano osservatori, si sono prodotti degli aumenti sospetti nella percentuale dei votanti? In quanti “il cappotto” è stato prodotto dalla omogeneità degli scrutatori? In europa ci sono stati due diversi tipi di crisi organizzativa che hanno preparato la sconfitta del partito socialista francese e di quello tedesco. In Francia una guerra tra leadership frammentate che non sono riuscite a conquistare autorevolezza, e che hanno innescato guerre di carte bollate e delegittimazioni reciproche. In Germania una forte convergenza intorno a un leader che ha rassicurato gli apparati, ma che non è riuscito a dialogare con il paese. Le due velocità del voto nel Pd, rischiano di riassumere in uno solo partito il peggio dei due scenari. Da un lato il voto a macchia di leopardo e la battaglia di Franceschini ricordano il modello francese. Dall’altro il successo di Bersani, che si fa plebiscitario in alcune regioni (oltre a quelle del Sud, nel modo che abbiamo visto, in quelle rosse) non è frutto di una proposta politica che ha fatto breccia, ma di un voto di rassicurazione degli apparati.

Guerra fra post. In molte sezioni il voto è stato una scelta fra due opzioni antropologiche, più che politiche, l’ultimo atto di una resa dei conti fra le due tradizioni co-fondatrici del partito, quella post-comunista e quella post-democristiana. Ma se nelle ultime congressuali questa tendenza si consolidasse, nessuno avrà abbastanza forza per tenere una linea decisa. Franceschini ha vinto la partita mediatica con trovate spesso estemporanee (ad esempio la gita con bandiera sul Po), Bersani ha riconquistato la fiducia degli iscritti sconcertati per lo smantellamento della forma partito. Ma sul caso delle dimissioni Dorina Bianchi, non appena per un solo momento si è tornato alle questioni ideali, tutto il Pd ha dimostrato difficoltà di dibattito e di tenuta. L’ala teodem scalpita, e i rutelliani non fanno mistero di considerare probabile una nuova scissione. Il partito non proietta l’ombra, è vero. Ma ci sono tante ombre sul suo futuro.

Nessun commento: