mercoledì 30 settembre 2009

Tutte le carte di Don Vito su Berlusconi


di Vincenzo Vasile

Le pagine che seguono sono state appena estromesse dal processo d’appello in corso contro Marcello Dell’Utri, perché la Corte di Palermo ha giudicato “confuse e contraddittorie” le dichiarazioni sul conto dello stesso senatore e su Berlusconi rese – nell’ambito di un’altra inchiesta - alla Procura di Palermo da Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, ex-sindaco mafioso, che nel 2002 si portò nella tomba molti segreti su stragi e trattative. Il rampollo quarantacinquenne di don Vito comparve il 30 giugno e il primo luglio scorso, accompagnato dai suoi legali, davanti ai pm della Dda di Palermo, Antonino Ingroia e Antonino Di Matteo. Si impappinò, chiese tempo per consultare gli avvocati. Ma poi ritrattò alcune mezze bugie e omissioni, che aveva inanellato nella prima fase, e fornì infine una sua lucida ricostruzione, che forma un affresco inquietante dei mesi dal 1991 al 1993, la fase delle bombe, dei massacri e dei negoziati occulti. Apprensione che pesa su Ciancimino jr.: se ha cincischiato, è perché – così spiega ai magistrati – “se dobbiamo parlare di questo argomento, io ho tanta paura”. Questo fatto mi fa molta paura, perché” si riferisce “al periodo stragista di mio padre”, e perché “è un discorso cento volte più grande di me”. “Ho un terrore folle”.

Il primo shock avviene ad apertura di interrogatorio, il 30 giugno. I magistrati mostrano all’”imputato di reato connesso”, Massimo Ciancimino, un documento che è stato sequestrato qualche tempo fa presso un magazzino della sua azienda di divani. E’ la metà di un foglio formato A4, sembrerebbe la seconda metà di un manoscritto vergato su un block notes. C’è scritto: “Posizione politica. Intendo portare il mio contributo che non sarà di poco, perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento, onorevole Berlusconi, vorrà mettere a disposizione una delle sue rete televisive”. E’ la seconda metà di uno scritto, come mai? E l’ha mai visto prima il giovane Ciancimino? Di chi è la grafia? Qualcuno deve avere strappato il primo foglio, certo che l’ho già visto nella sua versione integrale – risponde Ciancimino- l’abbiamo conservato insieme a mio padre scollando un foglio nella controcopertina di un volume della Treccani nella casa di via san Sebastianello a Roma, sì l’ha scritto mio padre quel testo, chissà, nel 1999…

Dopo un’ora di interrogatorio Massimo Ciancimino chiede un rinvio all’indomani, promette di portare altre carte, e di spiegare meglio come mai in quell’appunto si parli di un “triste evento”, che sembra essere la minaccia di Cosa Nostra di sequestrare un figlio di Berlusconi. Ma le date non quadrano, particolari non combaciano. Solo l’indomani Ciancimino spiega di essere stato “impaurito” il giorno prima, non solo dalla stranezza di un documento trovato monco, ma perché era “convinto che questo documento non venisse mai fuori: mi avete trovato non solo impreparato, più che altro impaurito, difatti come avete notato all’inizio ho addirittura detto che era la grafia di mio padre….”. Macché, non è né la grafia, né la prosa di Ciancimino, che non faceva errori di sintassi e grammatica. Si tratta di un “pizzino” di Bernardo Provenzano, che qualificandosi come il “signor Lo Verde” usava durante la latitanza il suo compaesano corleonese come mediatore in un complesso giro. Il pizzino sui “tristi eventi” fa parte di un gruppo di almeno tre lettere: la prima che risale al 1991-1992, è precedente alla redazione del famoso “papello” con cui Riina pretendeva la fine del carcere duro e misure draconiane contro i pentiti, fu ritirata a San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, ”una busta chiusa, non incollata”, nella villa di un braccio destro di Provenzano, Vito Lipari; un’altra in un’auto parcheggiata sotto lo studio di un medico e affidatagli personalmente da Provenzano; e una terza assieme a un pacco con 50 milioni, che Massimo poi distribuì ai fratelli. La lettera esibita dai pm durante l’interrogatorio dovrebbe essere, appunto, la terza. E’ indirizzata a Ciancimino sr, che in quel momento si trova in carcere, le altre due sono per il “dottor Marcello Dell’Utri”. Perché Ciancimino veniva interpellato così spesso, sebbene agli arresti domiciliari e poi in carcere? “Per dare un parere”. Ciancimino era contrario a dar seguito alle minacce: sia le avvisaglie di stragi, sia la sfida dell’eliminazione del figlio del Cavaliere. “Io chiedevo a mio padre: perché? Che c’entra il figlio?”, e papà conveniva che era meglio “toccargli il polso, tastarici u pusu” a Berlusconi, e in genere “alle persone”. “Nel senso di scuoterle”, cioè esercitare pressioni. Ma non passare al “braccio forte”. “Si preoccupava di non passare mai alla seconda fase”. “Mio padre era per la non attuazione delle minacce”, sebbene “il soggetto fosse irriconoscente” per certi favori, “certi vantaggi avuti, certe robe varie” che aveva ricevuto e non aveva ricambiato. Quale “soggetto”? Il dottor Berlusconi. Poi il padre si confida con Massimo: “era non dico rassegnato”, aveva un progetto per recuperare “un patrimonio elettorale che si stava disperdendo”, era come un “idealista”. Ma si sentì scaricato, proprio lui che “voleva essere l’uomo della chiusura, come il salvatore, che doveva siglare un nuovo patto”.

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