La Bindi possibile presidente
di Luca Telese
di Luca Telese
E allora entrate anche voi nella sede di Largo del Nazzareno in un giorno di fine ottobre, entrate anche voi a sentire il clima del cambio di stagione dettato dalle primarie: “E’ tornato D’Alema...” sospira quasi rassegnato all’ineluttabile un veltronian-Franceschiniano come Adriano Paniccia, uno degli uomini della comunicazione del Pd. Allora entrate a largo del Nazzereno, nel tempo in cui non si potrà più dire: “Bersani chi, il cantante?”. Adesso il primo Bersani è lui, Pierluigi da Bettole, il primo padano che viene dalla storia del Pci che è riuscito a farsi leader, uno che appena insediato dice: “Questo risultato è una prova di fiducia nel Pd che è un partito nuovo e non vecchio". E subito dopo: “E’ nato il grande partito popolare dei tempi moderni, è tempo di ritornare all’Ulivo”.
Sondaggi & voti. Si sente forte, Bersani. Le primarie, quasi magicamente, gli hanno consegnato il 53.3%, dei voti, quasi la stessa percentuale che aveva ottenuto nei congressi. Nei corridoi della sede, ieri, si aggirava raggiante anche l’uomo macchina della sua battaglia, l’ex presidente della provincia di Milano Filippo Penati. Penati è uno dei vincitori, l’uomo forte dell’organizzazione che ha tessuto le fila della sfida per sei mesi. Adesso scherza: “L’unico merito che ho è quello di aver protetto Pierluigi da tutti quelli che gli volevano dare consigli. Come si vede, ha fatto benissimo da se’, senza dar retta a nessuno”. Bersani e Penati si sono fidati molto dei numeri dell’Ipr marketing, uno dei pochi istituti di sondaggi che in questi anni ha azzeccato un pronostico: “Hanno avuto ragione, hanno previsto persino il numero di chi è andato ai seggi!”. Penati prende un respiro: “Sapete che vi dico? Forse il caso Marrazzo ha portato a votare qualcuno in più: arrabbiato, magari. Ma questo è un popolo che vuole venirti a dire come la pensi”.
Incazzati & democratici. E infatti la prima cosa che va raccontata, di questa lunga domenica, è la gente. File da un capo all’altro dell’Italia, dal nord al sud, un fiume di persone che volevano partecipare e contare. Alcuni anche incazzati, anche critici. Ma in ogni caso tantissimi: ieri notte, a scrutinio ancora non compiuto, erano due milioni. Alle sei di sera Maurizio Migliavacca, il responsabile dell’organizzazione, sale al terzo piano della sede con una griglia di dati in mano. Sopra c’è scritto: “Proiezione lineare: 2.826.114”. E’ il dato finale che si ipotizza: quasi tre milioni, insomma. Migliavacca sorride ancora : ”Sono numeri elaborati da gente che ci capisce, vedrete che arriveremo fino a lì”.
Ascensori & teste tagliate. Entri a via del Nazzareno e senti subito l’aria del cambio di regime. Anche in modo drammatico: qualcuno dice addio all’ufficio, qualcun altro cerca nuovi impieghi. Altri molto correttamente (ad esempio il capoufficio stampa Roberto Roscani) dice: “Rimetto il mio incarico, deciderà Pierluigi”. Sarà interessante capire come si comporterà il nuovo leader.
Piero, viso pallido. Andava scrutata, per farsi un’idea, la faccia di Piero Fassino, ieri. Pallido, sbattuto come uno straccio, apparentemente incredulo: eloquente. Piero aveva fatto l’impossibile: in Piemonte si era attaccato al telefono, sezione per sezione, per mobilitare l’anima militante: “Ci sono io, quindi c’è la storia della sinistra”, diceva. E’ stato battuto due volte, a livello nazionale, e poi anche in casa, in Piemonte, travolto dall’exploit incredibile della mozione Marino.
Nei corridoi erano quasi festanti i sorrisi dei ragazzi della Sinistra Giovanile, che, con in testa Fausto Raciti sono stati i primi ad insorgere contro “il potere veltroniano”. Raciti fu eletto contro la designazione del segretario, poi mesi lui e i suoi hanno lavorato senza nemmeno lo stipendio. Adesso la loro scommessa paga: “Basta con la plastica, adesso si ritorna al partito vero”. Sarà questo il tormentone del nuovo Pd?
Nel gioco di chi sale e chi scende, Migliavacca è un altro che ha vinto: bisogna guardare la sua mascella, incurvata al sorriso. Veniva dall’area fassiniana, l’ha lasciata per Bersani. Molte teste cadranno, è certo.
Tutti pazzi per Rosy. Una vera trionfatrice è Rosy Bindi. Le scorse primarie, per lei, furono il tempo della battaglia solitaria e controcorrente. Molti leader l’hanno spesso blandita e messa da parte, le toccò subire anche l’onta di una sostituzione al governo: ma poi lei risorge sempre in qualche modo, ad esempio dopo le ingiurie di Berlusconi. Stavolta torna da vincitrice: in Lombardia è la più votata della regione, nel Lazio la vogliono al posto di Marrazzo (lei non ci pensa), da più parti la indicano come capogruppo (ha già detto di no). Il ruolo che preferisce è quello a cui per lei pensa da tempo Bersani: “Presidente del partito”, come ha ipotizzato, Livia Turco. Diventa lei la garante dell’ala cattolica, soprattutto se se ne vanno Rutelli e i neocons.
I voti di Ignazio. Ha vinto anche Ignazio Marino, l’unico che ha incrementato i suoi sostenitori, tra il congresso e le primarie. Resta un outsider, ma ha dimostrato di avere un peso: 250mila voti. E poi alla fine, è quello che ha sottratto consensi “innovatori” a Dario Franceschini. Una candidatura nata da una battaglia simbolo e dall’investitura di una vecchia volpe come Goffredo Bettini, si è strutturata strada facendo.
Walter Franceschini. Infine Dario Franceschini. “Su-Dario”, come beffardamente lo definisce Dagospia. Dove ha sbagliato? Poteva vincere? Penati, senza buonismi, non gli rende l’onore delle armi: “Quella dei calzini era una pagliacciata, non certo roba da segretario. E la nomina di Touadì, è stata percepita come un gesto disperato”. C’è del vero. Di sicuro Franceschini ha dimostrato grandi capacità di comunicare e di bucare sui media. Ma non è stato altrettanto chiaro cosa volesse comunicare. Si è rappresentato come un “segretario guerrigliero” (ma aveva mediato), come un rinnovatore che veniva dal passato, un centrista radicale. E non è riuscito a separare la sua storia da quella di Walter Veltroni. Già: perchè ieri sera, nei corridoi aleggiava un’altra sentenza: Si torna all’Ulivo, alle coalizioni, al partito. L’insostenibile leggerezza del veltronismo è finita, forse per sempre. Lo sconfitto di ieri era Walter, Franceschini.
Ascensori & teste tagliate. Entri a via del Nazzareno e senti subito l’aria del cambio di regime. Anche in modo drammatico: qualcuno dice addio all’ufficio, qualcun altro cerca nuovi impieghi. Altri molto correttamente (ad esempio il capoufficio stampa Roberto Roscani) dice: “Rimetto il mio incarico, deciderà Pierluigi”. Sarà interessante capire come si comporterà il nuovo leader.
Piero, viso pallido. Andava scrutata, per farsi un’idea, la faccia di Piero Fassino, ieri. Pallido, sbattuto come uno straccio, apparentemente incredulo: eloquente. Piero aveva fatto l’impossibile: in Piemonte si era attaccato al telefono, sezione per sezione, per mobilitare l’anima militante: “Ci sono io, quindi c’è la storia della sinistra”, diceva. E’ stato battuto due volte, a livello nazionale, e poi anche in casa, in Piemonte, travolto dall’exploit incredibile della mozione Marino.
Nei corridoi erano quasi festanti i sorrisi dei ragazzi della Sinistra Giovanile, che, con in testa Fausto Raciti sono stati i primi ad insorgere contro “il potere veltroniano”. Raciti fu eletto contro la designazione del segretario, poi mesi lui e i suoi hanno lavorato senza nemmeno lo stipendio. Adesso la loro scommessa paga: “Basta con la plastica, adesso si ritorna al partito vero”. Sarà questo il tormentone del nuovo Pd?
Nel gioco di chi sale e chi scende, Migliavacca è un altro che ha vinto: bisogna guardare la sua mascella, incurvata al sorriso. Veniva dall’area fassiniana, l’ha lasciata per Bersani. Molte teste cadranno, è certo.
Tutti pazzi per Rosy. Una vera trionfatrice è Rosy Bindi. Le scorse primarie, per lei, furono il tempo della battaglia solitaria e controcorrente. Molti leader l’hanno spesso blandita e messa da parte, le toccò subire anche l’onta di una sostituzione al governo: ma poi lei risorge sempre in qualche modo, ad esempio dopo le ingiurie di Berlusconi. Stavolta torna da vincitrice: in Lombardia è la più votata della regione, nel Lazio la vogliono al posto di Marrazzo (lei non ci pensa), da più parti la indicano come capogruppo (ha già detto di no). Il ruolo che preferisce è quello a cui per lei pensa da tempo Bersani: “Presidente del partito”, come ha ipotizzato, Livia Turco. Diventa lei la garante dell’ala cattolica, soprattutto se se ne vanno Rutelli e i neocons.
I voti di Ignazio. Ha vinto anche Ignazio Marino, l’unico che ha incrementato i suoi sostenitori, tra il congresso e le primarie. Resta un outsider, ma ha dimostrato di avere un peso: 250mila voti. E poi alla fine, è quello che ha sottratto consensi “innovatori” a Dario Franceschini. Una candidatura nata da una battaglia simbolo e dall’investitura di una vecchia volpe come Goffredo Bettini, si è strutturata strada facendo.
Walter Franceschini. Infine Dario Franceschini. “Su-Dario”, come beffardamente lo definisce Dagospia. Dove ha sbagliato? Poteva vincere? Penati, senza buonismi, non gli rende l’onore delle armi: “Quella dei calzini era una pagliacciata, non certo roba da segretario. E la nomina di Touadì, è stata percepita come un gesto disperato”. C’è del vero. Di sicuro Franceschini ha dimostrato grandi capacità di comunicare e di bucare sui media. Ma non è stato altrettanto chiaro cosa volesse comunicare. Si è rappresentato come un “segretario guerrigliero” (ma aveva mediato), come un rinnovatore che veniva dal passato, un centrista radicale. E non è riuscito a separare la sua storia da quella di Walter Veltroni. Già: perchè ieri sera, nei corridoi aleggiava un’altra sentenza: Si torna all’Ulivo, alle coalizioni, al partito. L’insostenibile leggerezza del veltronismo è finita, forse per sempre. Lo sconfitto di ieri era Walter, Franceschini.
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