“Comunque la pensiate”: la biografia di Santoro
È in libreria “Comunque la pensiate”, biografia di Michele Santoro di Giandomenico Crapis. Qui di seguito il capitolo sugli anni salernitani (Aliberti editore. 256 pagg; 16 euro)
di Giandomenico Crapis
Michele Santoro nasce a Salerno nel 1951, il 2 luglio, in una casa del centro storico poco distante dal mare. Così come vicina al mare è la scuola elementare dalla quale basta poco per andare a tuffarsi. Con il mare vicino, per i ragazzi come lui i bagni cominciano già a giugno. La spiaggia e il mare diventano il surrogato della strada per giochi e divertimenti, per rubare le cozze ai pescatori, catturare i polipi, spiare le donne nelle cabine attraverso i buchi fatti di nascosto. Il desiderio di novità e quel pizzico di fisiologica rabbia generazionale minano l’adattamento dei giovani alla routine quotidiana: «Non ne potevamo più dell’insopportabile ordine dei licei, di preti e insegnanti pedanti e ignoranti… di passeggiare sul lungomare diviso in corsie, i giovani da una parte i vecchi dall’altra». Santoro al liceo è studente intelligentissimo, dice chi l’ha avuto come allievo, ma terribile sul piano disciplinare. Già leader della sua classe, una volta intavola una trattativa con l’insegnante per potere alternare a un’ora di lezione un’ora di assemblea. E naturalmente la spunta. Spirito anarchico, non è il solo enfant terrible della sua classe: non si seppe mai se fu proprio lui, o i suoi compagni, a pensare di far trovare il crocifisso nel cestino alla cattolicissima insegnante. Frequenta il liceo Tasso. Nella scuola, a metà degli anni Sessanta, tra gli studenti circola «Nuova generazione», il giornale dei giovani comunisti, che però il preside decide di sequestrare. Al giovane Santoro, che non ha alcun rapporto con la politica organizzata dei giovani comunisti, la cosa non piace per niente. Allora scrive un raccontino, lo batte a macchina e lo affigge in istituto. Nello scritto usa l’ironia, prendendo spunto dal nome della scuola, il Regio liceo Torquato Tasso: sul frontale dell’edificio la parola “Regio” era stata cancellata ma non del tutto, tanto che essa ancora s’intravede sotto la mano di pittura bianca. Lo studente Santoro costruisce il suo raccontino satirico proprio su questo fatto: quel “Regio” cancellato che però s’intravede, a dimostrazione che, per quanti sforzi faccia la scuola repubblicana, la sua cifra educativa e formativa rimane quella di una volta, complici anche presidi troppo chiusi e una scuola vecchio stampo. Siamo nel 1966, ai tempi della «Zanzara», il giornale studentesco del liceo Parini di Milano che dà scandalo nel Paese per i temi inediti che tocca in una scuola bigotta e autoritaria. Santoro, che al Tasso frequenta la prima liceo, insieme ad altri compagni dà vita a un giornalino, chiamato «Blow out», ma il solito preside ne impedisce la pubblicazione. Nel foglio scolastico – sulle cui pagine il futuro giornalista scrive un articolo sul “Che” – che è ispirato da un’idea antiautoritaria e contesta il nozionismo del sapere, covano i germi della ribellione di costume nell’ironia divertente che prende in giro, per esempio, l’abitudine che costringe le ragazze a portare ancora il grembiule in classe. Siamo nella fase embrionale di quella che due anni dopo diventerà la critica sessantottina alla scuola e alla società. Al Tasso Santoro non rimane fino alla fine degli studi, lo bocciano per motivi disciplinari. Da quel liceo, più chic e famoso, passa al De Sanctis, dopo essere stato accusato di avere rigato la macchina di una professoressa. Ma lui nega: «Ero il più turbolento» dice «e mi attribuivano qualsiasi malefatta». In seguito a questo episodio perde un anno scolastico che poi però recupera, presentandosi e superando gli esami di Stato da privatista: al suo colloquio – è già un leaderino– assiste una vera folla tra amici scolastici e compagni d lotte. Vive dunque l’adolescenza in un momento storico difficile e intenso per il Paese. Dopo le bombe di piazza Fontana lui, poco più che diciottenne, si vede persino piombare in casa la polizia che rovista dappertutto e gli sequestra un libro di teatro: di Brecht.
Il teatro, l’altro amore di quella stagione cui si dedica con particolare entusiasmo insieme a un gruppo di amici. Negli anni del liceo si scambia i primi testi con l’amico Ciccio D’Acunto: è lui che gli presta Beckett. Si dedica all’attività teatrale allestendo le prime rappresentazioni presso un circolo di gesuiti che i ragazzi utilizzano come luogo d’incontro, per poi spostarsi nella sede dell’Università popolare,
un’istituzione importante della città. Provano e mettono in scena Pirandello, poi arrivano Sartre, Brecht, Pavese, Ferlinghetti. Il teatro per il giovane Michele è una cosa seria, tanto che, lasciatosi alle spalle le prime esperienze nate sui banchi scolastici, s’impegna in una compagnia importante, il Teatrogruppo di Salerno, con cui allestisce Marat Sade di Weiss. Vorrebbe portarlo in giro per l’Italia. Per un momento pensa che sia la sua strada, ma dopo qualche titubanza decide che prima del teatro viene la politica. Per Santoro, come succede a tanti tra gli anni Sessanta e i Settanta, l’attività teatrale è “politica” in sé e riassume spesso l’impegno politico tout court. Però, proprio come succede a tanti in quell’epoca, alla fine l’iniziativa politica militante prende il sopravvento su quella artistica politicamente impegnata. Così tra il 1968 e 1969 si getta anima e corpo nella politica. Il Sessantotto, in particolare, lo vede assolutamente protagonista prima al liceo, poi fuori. È uno dei leader del movimento studentesco salernitano. Quando Jan Palach si dà fuoco immolandosi a Praga, e i fascisti che a Salerno sono forti scendono in piazza, lui non perde tempo e organizza una contromanifestazione a difesa del martire della libertà. Praga contribuirà a spostarlo su posizioni libertarie e critiche verso il socialismo reale. A differenza di altri sessantottini pentiti, di quel movimento conserverà sempre un ricordo positivo, quasi struggente… Esaurita la fase del movimento degli studenti, decide di entrare in un partito vero. Molti militanti scelgono la strada extraparlamentare e nella sua Salerno molti aderiscono al «Manifesto» (una di questi è Lucia Annunziata). Lui sceglie l’Unione marxista-leninista, che ha come organo di stampa il giornale «Servire il popolo ». L’esperienza – comune negli anni tra il ’69 e il ’72 anche ad altri volti famosi e noti del giornalismo nazionale (Polito, Mannheimer, Vicinanza solo per citarne alcuni) – a lui, più che ad altri, verrà rinfacciata nelle cronache come una sorta di peccato originale. In ogni caso intorno a lui il gruppo cresce e si insedia nella città campana. Santoro presto ne diviene uno dei dirigenti nazionali. La militanza, dunque, si affaccia sotto le insegne della sinistra cosiddetta extraparlamentare, termine sinonimo, più che di un’assenza in Parlamento, di radicalità di posizioni, di velleità rivoluzionarie più o meno mascherate, più o meno reali, e di una contrapposizione forte con il partito comunista, oramai integrato dentro il “sistema”. Di questi gruppi a sinistra del Pci l’Unione marxista-leninista di “Servire il popolo” è quella che esprime forse più di altre una visione di tipo integralista e totale della militanza. Santoro divora letture della beat generation, ma con i marxisti-leninisti l’esperienza per la verità è abbastanza breve. Partecipa nell’estate del 1971 a una scuola di partito per i membri del comitato centrale a San Pellegrino Terme: «Lavoro politico e sano divertimento», come recita la lettera d’invito al giovane dirigente salernitano. Il compagno Santoro s’accorge, a sue spese, del clima politico che si respira il quel seminario. Si discute se presentarsi alle elezioni politiche l’anno dopo, anche se ci sono poche speranze di ottenere il quorum e quindi è altissimo il rischio di disperdere voti. Michele non è per niente d’accordo e critica una scelta che giudica sbagliata. Lo isolano e lo accusano di essere di destra. Il rituale è quello collettivo delle discussioni in pubblico: lo ostracizzano, lo bollano come “nemico interno”, lo “condannano” a un periodo di rieducazione. L’esperienza a San Pellegrino è per lui traumatica. Stanco e abbastanza nauseato, decide di iscriversi al Pci: «Forse mio padre ha ragione» si dice. Approfitta di questa fase di passaggio per portare a termine gli studi universitari. È iscritto a filosofia e, a differenza delle superiori, all’università va come un treno conseguendo ottimi risultati. Segue le lezioni di Biagio De Giovanni, con il quale si laurea il 5 dicembre del 1972 con una tesi sui Quaderni dal carcere di Gramsci. Con grande cruccio paterno rinuncia a fare il professore, rifiutando la nomina che un giorno gli arriva. Tra l’altro, nel Pci presto si trova a ricoprire ruoli di primo piano. Diventa prima segretario della sezione Torre, quella del centro storico, poi viceresponsabile del comitato cittadino. Qualcuno dei militanti storici del partito rimane sorpreso dalla sua rapida ascesa, del resto con i “gruppettari” i comunisti ortodossi un po’ ce l’hanno, ma pesa sicuramente la sua storia di leader cittadino, di capo indiscusso. Diventa funzionario di partito, lo mandano nel Cilento a fare il responsabile di zona, e proprio qui si dedica e dà forza, tra le altre cose, a una pubblicazione chiamata «L’Espresso del Cilento».
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