La famiglia ha deciso di far sapere com’è adesso loro figlio. Ieri, durante una conferenza stampa al Senato, i genitori e la sorella di Stefano Cucchi hanno consegnato ai giornalisti le fotografie del corpo del giovane di 31 anni, fermato il 15 ottobre scorso per droga al Parco degli Acquedotti di Roma, e morto all'ospedale Sandro Pertini il 22 dopo essere passato per gli ambulatori del Tribunale, del carcere di Regina Coeli e dell’ospedale Fatebenefratelli senza avere mai la possibilità di essere visitato dai parenti.
Fotografie e disperazione
La famiglia è sconvolta, di un dolore silenzioso ma riconoscibile negli occhi sempre pieni di lacrime. Ripercorrono il trauma nello sguardo di chi sfoglia le fotografie del corpo scattate dall’agenzia funebre dopo l’autopsia. Immagini “drammaticamente eloquenti”, come le ha definite Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto” e promotore dell'iniziativa : “Da sole dicono quanti traumi abbia patito quel corpo e danno una rappresentanza tragicamente efficace del calvario di Stefano. La famiglia ha riflettuto molto se distribuirle, perché oltre ad essere scioccanti fanno parte della sfera intima”. Le foto mostrano il corpo estremamente esile (dai 43 chili del fermo è passato a 37), con il volto devastato, l'occhio destro rientrato nell'orbita, l'arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura. Raccontano che Stefano aveva avuto problemi di droga, era stato in comunità e quando ne era uscito stava meglio. Di sicuro non si meritava di morire perché tossicodipendente, anzi, avrebbero dovuto aiutarlo.
I fatti
I legali ricostruiscono l’accaduto in una memoria: giovedì 15 ottobre Stefano Cucchi viene fermato alle 23.30 dai carabinieri nel Parco degli Acquedotti di Roma. All’1.30 di notte del 16 ottobre si presentano, insieme al ragazzo, in via Ciro Urbino, dove risiede con la famiglia. Due uomini in borghese e due in divisa perquisiscono la stanza di Stefano. Il ragazzo rassicura la madre, dicendole che non troveranno nulla. In effetti escono senza niente dicendo alla signora Cucchi che il figlio era stato fermato “con poca roba addosso” (20 grammi di marijuana, poca cocaina e due pasticche che le forze dell’ordine hanno definito “di ecstasy”, secondo il padre “di Rivotril”, farmaco salvavita contro l’epilessia prescrittogli dal medico). Nella memoria si legge che i carabinieri lo portano via e comunicano alla famiglia che alle 9 si sarebbe svolto il processo per direttissima nel tribunale di piazzale Clodio.
Alle 12 Stefano arriva in aula col volto gonfio e lividi vistosi intorno agli occhi. Alle 14 viene visitato presso l’ambulatorio di palazzo di Giustizia dove riscontrano “lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore, bilateralmente” e dove il ragazzo dichiara “lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori”. Viene trasferito al carcere di Regina Coeli - si legge ancora nella ricostruzione - e affidato alla polizia penitenziaria. La visita medica in carcere rileva “ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione”. Viene quindi portato all’ospedale Fatebenefratelli per accertamenti. Diagnosticano “la frattura corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea”. Sabato 17 ottobre viene riportato al Fatebenefratelli e poi trasferito al reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini intorno alle 13.15. La famiglia viene avvisata del ricovero alle ore 21, si reca subito nella struttura ma vengono avvisati di non poter entrare “perché questo è un carcere, non sono ammesse visite”. All’ingresso li invitano a ripresentarsi lunedì successivo per parlare con i medici. Due giorni dopo, però, quando la famiglia ritorna viene allontanata “perché non è ancora arrivata l’autorizzazione del carcere”. Martedì si presentano di nuovo per parlare con i medici e scoprono che per un colloquio occorre “il permesso del giudice del tribunale di sorveglianza”. Il giorno successivo il padre riesce ad ottenere il permesso ma manca ancora il visto. Giovedì 22 ottobre Stefano muore alle 6.20 di mattina. La certificazione medica parla di “presunta morte naturale”. La madre viene informata mentre il padre è a Regina Coeli a chiedere il visto per una visita. Quando riusciranno a vederlo ciò che gli si presenterà è raccontato dalle foto.
L’inchiesta
Al momento è stata aperta un'inchiesta d’ufficio. Il legale della famiglia, Fabio Anselmo, (già avvocato del caso Aldovrandi) spiega che “l’atto di morte è stato acquisito dal Pm, per cui non abbiamo in mano nulla se non queste foto e un appunto del nostro medico legale”. L’avvocato, poi, precisa molte volte che “noi non accusiamo nessuno. Non c’è nessuna denuncia. Chiediamo di non leggere le notizie sui giornali ma di essere informati come parte offesa e di risparmiare alla famiglia un processo su quello che è stato Stefano, invece di indagare solo sull’ultima settimana della sua vita”. Il prossimo passo sarà la costituzione di un pool di medici esperti in grado di “vagliare criticamente il poco materiale che abbiamo”.
Reazioni
Anche il Parlamento si è mobilitato. All’iniziativa di ieri hanno aderito politici di tutti gli schieramenti: I radicali Rita Bernardini, Emma Bonino e Marco Perduca, Gianrico Carofiglio, Felice Casson e Livia Turco del Pd Flavia Perina, Renato Farina, Gaetano Pecorella del Pdl e molti altri. “Cose di questo genere -ha detto Perina- succedono nel far west e non in uno Stato di diritto”. Secondo Bonino, “è in gioco la credibilità delle istituzioni. Lo Stato deve rispondere all’opinione pubblica". Farina, che ha visitato il nosocomio, ha riferito infine di "una struttura peggio del carcere". E ha ricordato ai familiari di chi vivesse storie simili di provare sempre a contattare i parlamentari perché sono gli unici che possono entrare in carcere e ottenere informazioni senza bisogno di protocolli.
Fotografie e disperazione
La famiglia è sconvolta, di un dolore silenzioso ma riconoscibile negli occhi sempre pieni di lacrime. Ripercorrono il trauma nello sguardo di chi sfoglia le fotografie del corpo scattate dall’agenzia funebre dopo l’autopsia. Immagini “drammaticamente eloquenti”, come le ha definite Luigi Manconi, presidente dell’associazione “A buon diritto” e promotore dell'iniziativa : “Da sole dicono quanti traumi abbia patito quel corpo e danno una rappresentanza tragicamente efficace del calvario di Stefano. La famiglia ha riflettuto molto se distribuirle, perché oltre ad essere scioccanti fanno parte della sfera intima”. Le foto mostrano il corpo estremamente esile (dai 43 chili del fermo è passato a 37), con il volto devastato, l'occhio destro rientrato nell'orbita, l'arcata sopraccigliare sinistra gonfia e la mascella destra con un solco verticale, segno di una frattura. Raccontano che Stefano aveva avuto problemi di droga, era stato in comunità e quando ne era uscito stava meglio. Di sicuro non si meritava di morire perché tossicodipendente, anzi, avrebbero dovuto aiutarlo.
I fatti
I legali ricostruiscono l’accaduto in una memoria: giovedì 15 ottobre Stefano Cucchi viene fermato alle 23.30 dai carabinieri nel Parco degli Acquedotti di Roma. All’1.30 di notte del 16 ottobre si presentano, insieme al ragazzo, in via Ciro Urbino, dove risiede con la famiglia. Due uomini in borghese e due in divisa perquisiscono la stanza di Stefano. Il ragazzo rassicura la madre, dicendole che non troveranno nulla. In effetti escono senza niente dicendo alla signora Cucchi che il figlio era stato fermato “con poca roba addosso” (20 grammi di marijuana, poca cocaina e due pasticche che le forze dell’ordine hanno definito “di ecstasy”, secondo il padre “di Rivotril”, farmaco salvavita contro l’epilessia prescrittogli dal medico). Nella memoria si legge che i carabinieri lo portano via e comunicano alla famiglia che alle 9 si sarebbe svolto il processo per direttissima nel tribunale di piazzale Clodio.
Alle 12 Stefano arriva in aula col volto gonfio e lividi vistosi intorno agli occhi. Alle 14 viene visitato presso l’ambulatorio di palazzo di Giustizia dove riscontrano “lesioni ecchimodiche in regione palpebrale inferiore, bilateralmente” e dove il ragazzo dichiara “lesioni alla regione sacrale e agli arti inferiori”. Viene trasferito al carcere di Regina Coeli - si legge ancora nella ricostruzione - e affidato alla polizia penitenziaria. La visita medica in carcere rileva “ecchimosi sacrale coccigea, tumefazione del volto bilaterale orbitaria, algia della deambulazione”. Viene quindi portato all’ospedale Fatebenefratelli per accertamenti. Diagnosticano “la frattura corpo vertebrale L3 dell’emisoma sinistra e la frattura della vertebra coccigea”. Sabato 17 ottobre viene riportato al Fatebenefratelli e poi trasferito al reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini intorno alle 13.15. La famiglia viene avvisata del ricovero alle ore 21, si reca subito nella struttura ma vengono avvisati di non poter entrare “perché questo è un carcere, non sono ammesse visite”. All’ingresso li invitano a ripresentarsi lunedì successivo per parlare con i medici. Due giorni dopo, però, quando la famiglia ritorna viene allontanata “perché non è ancora arrivata l’autorizzazione del carcere”. Martedì si presentano di nuovo per parlare con i medici e scoprono che per un colloquio occorre “il permesso del giudice del tribunale di sorveglianza”. Il giorno successivo il padre riesce ad ottenere il permesso ma manca ancora il visto. Giovedì 22 ottobre Stefano muore alle 6.20 di mattina. La certificazione medica parla di “presunta morte naturale”. La madre viene informata mentre il padre è a Regina Coeli a chiedere il visto per una visita. Quando riusciranno a vederlo ciò che gli si presenterà è raccontato dalle foto.
L’inchiesta
Al momento è stata aperta un'inchiesta d’ufficio. Il legale della famiglia, Fabio Anselmo, (già avvocato del caso Aldovrandi) spiega che “l’atto di morte è stato acquisito dal Pm, per cui non abbiamo in mano nulla se non queste foto e un appunto del nostro medico legale”. L’avvocato, poi, precisa molte volte che “noi non accusiamo nessuno. Non c’è nessuna denuncia. Chiediamo di non leggere le notizie sui giornali ma di essere informati come parte offesa e di risparmiare alla famiglia un processo su quello che è stato Stefano, invece di indagare solo sull’ultima settimana della sua vita”. Il prossimo passo sarà la costituzione di un pool di medici esperti in grado di “vagliare criticamente il poco materiale che abbiamo”.
Reazioni
Anche il Parlamento si è mobilitato. All’iniziativa di ieri hanno aderito politici di tutti gli schieramenti: I radicali Rita Bernardini, Emma Bonino e Marco Perduca, Gianrico Carofiglio, Felice Casson e Livia Turco del Pd Flavia Perina, Renato Farina, Gaetano Pecorella del Pdl e molti altri. “Cose di questo genere -ha detto Perina- succedono nel far west e non in uno Stato di diritto”. Secondo Bonino, “è in gioco la credibilità delle istituzioni. Lo Stato deve rispondere all’opinione pubblica". Farina, che ha visitato il nosocomio, ha riferito infine di "una struttura peggio del carcere". E ha ricordato ai familiari di chi vivesse storie simili di provare sempre a contattare i parlamentari perché sono gli unici che possono entrare in carcere e ottenere informazioni senza bisogno di protocolli.
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