Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi»
Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta colonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Specie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversario è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tutti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vecchio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segreteria, senza aver definito ancora le alleanze.
E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fossero al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democratici avevano lanciato il tema della riforma degli ammortizzatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sanatorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifonico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al confronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — commenta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centralismo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una cosa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».
Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaffezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «partito mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una volta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi mali. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il dopo chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizione al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».
Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va messa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il direttore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvivranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riaccenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavaliere.
Francesco Verderami
17 ottobre 2009
Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta colonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Specie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversario è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tutti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vecchio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segreteria, senza aver definito ancora le alleanze.
E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fossero al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democratici avevano lanciato il tema della riforma degli ammortizzatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sanatorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifonico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al confronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — commenta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centralismo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una cosa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».
Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaffezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «partito mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una volta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi mali. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il dopo chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizione al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».
Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va messa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il direttore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvivranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riaccenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavaliere.
Francesco Verderami
17 ottobre 2009
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