C’è un complotto contro Vittorio Feltri. E, quel che è peggio, è una cospirazione dall’interno: il popolare Littorio si sta allevando qualche serpe in seno. Solo un perfido agente del nemico può avere avuto l’idea della campagna promozionale annunciata da Il Giornale, che farà dono ai suoi lettori delle prime pagine del Giornale delle origini, quello vero, fondato da Indro Montanelli nel 1974. E, per giunta, di presentarla con lo slogan “Come eravamo. E come siamo diventati”.
Appena i lettori più giovani o più smemorati vedranno com’era Il Giornale, si renderanno conto dell’involuzione della specie. E forse comprenderanno per quale strano motivo, nel gennaio ‘94, vent’anni dopo averlo fondato, Montanelli lasciò il suo Giornale mentre Berlusconi scendeva in campo: come disse lui stesso, “per non ridurmi a megafono e trombetta di un editore in fregola di avventure politiche”.
Cioè per non diventare, a 85 anni, un Feltri qualunque.
Appena uscì da via Negri per fondare la Voce, sul fu Giornale che aveva ospitato negli anni le migliori firme della cultura liberaldemocratica europea, da Aron a Fejto, da Revel a Ionesco, da Abbagnano a De Felice a Romeo, cominciarono a scrivere intellettuali del calibro di Pomicino, De Lorenzo, Frigerio, con ficcanti rubriche dell’ex fidanzata di Paolo B..
Oggi della vecchia guardia sopravvivono Granzotto e Cervi, che continuano a scrivere a un prezzo modico: dire l’esatto contrario di quel che diceva Montanelli. Il quale, quando gli chiedevano della sua creatura ormai dannata, allargava le braccia: “Il Giornale lo guardo nemmeno, per non avere dispiaceri. Mi sento come un padre che ha un figlio drogato e preferisce non vedere. Feltri asseconda il peggio della borghesia italiana. Sfido che trova i clienti”.
Intanto il fu Giornale inanellava scoop memorabili: “Alluvione: colpa dei Verdi”, “P2, il golpe se l’è inventato la Anselmi”, “Berlusconi cede la Fininvest”, “Su Mani pulite intervenga Amnesty International”, “La lebbra sbarca in Sicilia”, “L’Arno è pronto ad allagare Firenze per la cattiva gestione del Pds”. Accusava Piercamillo Davigo di aver ricattato un collega (falso), Ilda Boccassini di aver “rapito i bambini di una somala” (balle), Di Pietro di aver preso tangenti (“Raggio dice che Pacini Battaglia ha dato una valigetta con 5 miliardi per Di Pietro”), salvo poi dovergli chiedere scusa in prima pagina (“Caro Di Pietro, ti stimavo e non ho cambiato idea”, firmato Vittorio Feltri; “Di Pietro è immacolato”, era una “bufala”, una “ciofeca”, una “smarronata”). Berlusconi non gradì le scuse al suo arcinemico e Feltri fu accompagnato alla porta. Ora però è tornato sul luogo del delitto, anzi del relitto. Portandosi dietro l’agente Betulla, al secolo Renato Farina. E producendosi in altre memorabili campagne: Dino Boffo è gay, Fini è “un compagno”, Augias una spia cecoslovacca, Bobbio era “fuori dalla storia” e produceva “banali luoghi comuni”, il conte Cavour era un bel mascalzone, mentre Brachino è un gran figo. E il papello “è una bufala”. E “vogliono uccidere Berlusconi”. Basta accostare le prime pagine di oggi con quelle delle origini per notare una lieve differenza. L’anonimo congiurato voleva intitolare la promozione “Come eravamo e come ci siamo ridotti”, ma poi ha soprasseduto: è tutto fin troppo chiaro. L’agente Betulla, intanto, indaga.
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