Il giudice Paolo Borsellino, prima di essere ucciso, era venuto a conoscenza della trattativa in corso tra la mafia e pezzi dello Stato. A rivelarlo è Claudio Martelli, allora ministro della giustizia, intervistato da Annozero. Racconta che Liliana Ferrraro, poco dopo la morte di Falcone, ricevette la visita del capitano del Ros Giuseppe De Donno. De Donno l'aveva informata che Massimo Ciancimino (il figlio di Vito ndr) aveva una volontà di collaborazione ma voleva delle garanzie politiche. «Prima di chiedere garanzie politiche vada a riferire queste cose al giudice competente, cioè Paolo Borsellino», gli rispose Liliana Ferraro. L'incontro avviene il giorno del trigesimo di Falcone. Il 22 o il 23 giugno. Lei stessa, stretta collaboratrice di Falcone, provvide a informare Paolo Borsellino di quanto le aveva detto De Donno. Martelli ne è certo. Non ha dubbi.
È un'ulteriore conferma che la famosa trattativa non fu tentata all'indomani delle stragi ma prima. E che anche Paolo Borsellino era venuto a conoscenza di quei tentativi condotti dall'allora comandate del Ros Mario Mori.
Il cambio di registro non poteva essere più forte. Via le escort, in scena la mafia. La terza, serissima puntata, di Annozero la apre Agnese Borsellino, la vedova del giudice Paolo Borsellino. Lancia un appello, 17 anni dopo. Chiede la verità sulle stragi. Quella in cui persero la vita Falcone, sua moglie e la scorta. E quella in cui perse la vita suo marito. Lei non la chiama strage, la chiama: azione di guerra. Dice: «Dopo 17 anni chiedo in ginocchio ai collaboratori di giustizia complici e non di far luce sui mandanti». Invoca «collaborazione» come «un atto d'amore». Chiede: «prove fatte pervenire agli onesti». Dice: «Restituiranno dignità alla nazione e ci renderanno liberi dai ricatti» e da quegli «interessi personali che coincidono con la cultura della morte».
Un salto all'indietro di sedici anni, a quei terribili giorni del 1992. Quando Berlusconi ancora non era sceso in campo. E la mafia era a caccia di nuovi interlocutori. Ma intanto parlava all'Italia con le bombe.
In studio, c'è Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, il sindaco di Palermo. Racconta come iniziò la trattativa, di cui suo padre, Vito, fu il perno e il tramite. Quando, all'indomani della strage di Capaci, proprio lui, Massimo, incontrò il capitano Giuseppe De Donno. «Lo incontro su un aereo, mi chiede cosa ne pensava di quella strage mio padre e mi chiese se mio padre fosse disposto a ricevere lui e il comandante Mori per tentare di aprire un canale privilegiato con i vertici di Cosa Nostra». «Con che fine?», gli chiede Massimo Ciancimino. «Per mettere termine a questo momento stragista e magari giungere alla cattura dei due capi di Cosa Nostra», gli risponde De Donno.
Quel primo contatto Mario Mori a processo non lo ha raccontato così. Soprattuto, lo ha datato 5 agosto 1992: dopo la strage di Capaci e dopo, soprattutto, la strage di via D'Amelio. «Quella di far iniziare i rapporti il 5 agosto era la versione concordata con mio padre anche a mia tutela», spiega Ciancimino, che racconta poi del "papello". Fu proprio Massimo Ciancimino a consegnarlo al padre dopo averlo ricevuto da Antonino Cinà. «Mio padre lo apre e dice: il solito testa di minchia, espressione spesso usata per parlare di Riina». Le richieste - spiega - erano assolutamente "inattuabili". «Mio padre capisce subito che era stato sbagliato cercare la trattativa con questo personaggio, che la cosa lo aveva fatto infuocare, disse che quando tratti con questa gente fai un grande sbaglio». Quando poi fu ammazzato anche Borsellino
In studio c'è anche Ghedini, l'avvocato, che all'ultimo ha opportunamente sostituito Castelli. Non è un ministro la persona migliore a rappresentare il Capo del governo in certe situazioni. L'avvocato Ghedini prende appunti e poi replica come fosse in un'aula di tribunale. Al pubblico televisivo concede però il suo: «Mavalà», guardando fisso nella telecamera.
Davanti a lui il figlio di Vito Ciancimino racconta anche di quella lettera di minacce a Berlusconi scritta da Bernando Provenzano da recapitare a Dell'Utri. E di come finì la trattativa. Quella sensazione che aveva suo padre di non essere più lui il punto di riferimento. Bernardo Provenzano glielo confermò: «Gli disse che non poteva essere lui, che il nuovo punto di riferimento era Marcello Dell'Utri». «Su questo suggerisco a Santoro un'altra puntata, le stragi si fermarono, nel frattempo un interlocutore l'avevano trovato», chiosa l'ex pm Antonio Di Pietro, anche lui in studio. «C'era una informativa del Ros che avvertiva del pericolo che Falcone e Borsellino correvano, il terzo in quella lista ero io».
09 ottobre 2009
3 commenti:
VEDERE QUEI DUE MAGISTRATI UCCISI DALLA MAFIA MI FA VENIRE UN MAGONE ENORME.
Idem,però finalmente gli italiani sanno che il terzo doveva essere Di Pietro, ora ci crederanno finalmente! Spero!
Ma quanti schifi, credo che in nessun'altra Nazione democratica ci sia tanto marciume.
INSOMMA, E' UNA BELLA LOTTA.
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