martedì 20 ottobre 2009

«Provenzano disse sì alla trattativa»



Ciancimino jr al pm: definì Riina pazzo ma invitò mio padre ad andare avanti
Giovanni Bianconi


Dopo aver rice­vuto il papello con le richieste dettate da Totò Riina per far ces­sare l’offensiva stragista, Vito Ciancimino incontrò l’altro Padri­no corleonese: Bernardo Proven­zano, col quale l’ex sindaco con­dannato per mafia aveva un rap­porto più stretto. E davanti alle pretese in dodici punti contenu­te in quel pezzo di carta anche «il ragioniere» di Cosa nostra (o «il trattore», o «il signor Lo Verde» come si presentava a casa Cianci­mino) scosse la testa. Erano pre­tese improponibili, che lo Stato non avrebbe mai accettato, ma per Provenzano la strada della trattativa non andava abbando­nata.

«Lei ingegnere vada avanti — disse Provenzano a «don Vito», che in realtà era geometra —, e poi vediamo di convincere il paz­zo». Il pazzo era Riina, ma secon­do il suo compaesano bisognava ugualmente coltivare il contatto con le istituzioni. Per questo Ciancimino continuò a incontra­re i carabinieri, consapevole che dall’altra parte, come interlocuto­re, non c’era solo il «dittatore» di Cosa nostra, ma anche Provenza­no. Il quale avrebbe preso in ma­no le redini della «trattativa» do­po l’arresto di Riina; forse provo­cato da lui stesso, come sostiene il pentito Nino Giuffrè. In questa ricostruzione che sta prendendo forma nelle stanze della Procura di Palermo dove viene condotta l’inchiesta sui rap­porti tra Stato e mafia nell’estate del ’92 e subito dopo, c’è però un problema che gli stessi magistra­ti sono consapevoli di dover ri­solvere quanto prima: l’attendibi­lità di Massimo Ciancimino, il fi­glio dell’ex sindaco che da circa un anno sta raccontando i retro­scena di quella stagione. Tra cui, da ultimo, la storia di Provenza­no d’accordo con suo padre sulla «pazzia» di Riina e sui colloqui coi carabinieri. Ieri Ciancimino jr è stato nuovamente ascoltato da­gli inquirenti palermitani e di Caltanissetta che indagano sui «mandanti occulti» dell’omici­dio Borsellino. Doveva portare l’originale del papello , per con­sentire quegli accertamenti che non si possono fare sulla fotoco­pia recapitata via fax la settima­na scorsa, ma ha di nuovo rinvia­to.

Sostiene di essere «stanco» e di vedere attorno a sé troppe co­se che non gli piacciono, Massi­mo Ciancimino. Da ultimo due persone armate nelle vicinanze della sua casa bolognese che, in­terpellate dai poliziotti che lo pro­teggono, hanno mostrato i distin­tivi da carabinieri sostenendo di essere in servizio al Ros; cioè il Raggruppamento operazioni spe­ciali di cui facevano parte Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli ormai ex ufficiali dell’Arma che lo stesso Ciancimino jr tira in bal­lo per la presunta trattativa avvia­ta tramite suo padre. Il comando provinciale dei carabinieri di Bo­logna ha però precisato che gli uomini controllati non sono del Ros, e si trovavano in quella zo­na per attività di polizia giudizia­ria che nulla hanno a che fare col figlio dell’ex sindaco mafioso. Le testimonianze del giovane Ciancimino — che su altri aspet­ti, secondo gli inquirenti, sono state riscontrate — divergono da quelle rese in passato da Mori e De Donno. In particolare su un dettaglio decisivo: la «trattati­va » sarebbe iniziata dopo la strage di Capaci (23 maggio ’92) ma pri­ma di quella di via D'Amelio (19 lu­glio). L’allora co­lonnello Mori, in­vece, afferma di essere andato la prima volta da Vito Ciancimino in agosto. È una discordanza mol­to rilevante perché può ripercuo­tersi sul movente dell’eliminazio­ne di Paolo Borsellino, alla quale se ne aggiungono altre. Mori e De Donno, ad esempio, hanno sempre negato di aver mai visto il papello o di averne conosciuto il contenuto. E continuano a so­stenere che per loro l’ex sindaco era soltanto un confidente dal quale cercavano di avere notizie per la ricerca dei latitanti; per questo non avevano avverti­to nessuno dei loro collo­qui, nemmeno Borsellino col quale s’erano incon­trati per avviare una nuova indagine, ma su questo sono arrivate le smentite dell’ex mini­stro della Giustizia Mar­telli e della sua collabo­ratrice di allora, Liliana Ferraro.

Recentemente Agnese Borsellino, vedova del magi­strato assassinato, ha riferito ai magistrati di Caltanissetta che suo marito — pochi giorni prima di morire — le confidò di avere dei dubbi sul generale Antonio Subranni, all’epoca comandante del Ros. Ieri il generale ha detto che gli «riesce difficile credere» che la signora Agnese abbia det­to qualcosa di simile. E ricorda di aver avuto molti e cordiali incon­tri col giudice, fino all’ultimo av­venuto il 10 o 11 luglio ’92, una cena, e poi, l’indomani, un viag­gio in elicottero da Roma a Saler­no.


20 ottobre 2009

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