L’altra sera, scorgendo i ghigno-muniti Scajola e Cicchitto intenti a canzonare e aggredire un basito Alberto Asor Rosa a “Ballarò”, c’è stato modo di finalmente intuire qual è la materia obbligatoria, la più curata, la più richiesta, la più ambita presso l’altrimenti invisibile scuola-quadri del Popolo della libertà, il particolare genio militare (più zappatori che pontieri) di cui Silvio Berlusconi si serve all’occorrenza per dimostrare d’avere sempre (e comunque) ragione, come già quell’altro.
E chi se ne frega se, così facendo, si calpesta l’ovvio rispetto della persona, delle idee, la scaletta stessa.
Si tratta, sembrerebbe, di una disciplina semplice ed essenziale, la stessa che altrove, cioè in letteratura, materia notoriamente più familiare ad Asor, prende il nome di tracotanza.
Ottima e abbondante, come un certo rancio fetido. Da infliggere senza troppi scrupoli al malcapitato.
Tracotanza come capacità di dissuasione, nel senso che in certi momenti si tratta soltanto di annientare l’interlocutore, l’avversario, l’altro tout court, in pochi istanti, soprattutto se la controparte, armata soltanto di argomenti e naturale dialettica, non intuisce dov’è il trucco.
Intendiamoci, stiamo parlando di una forma particolare di tracotanza che, almeno all’apparenza, vira verso il semplice sfregio, la provocazione, la goccia dispettosa che serve a far traboccare il vaso della pazienza dell’altro, nella speranza, molto tecnica, e qui sta il brevetto professionale tutto berlusconiano, di mettere immediatamente al tappeto l’interlocutore prim’ancora che questi riesca a dimostrare lo spessore morale delle singole forze in campo.
Per farla breve, è insomma una ben dissimulata modalità di censura preventiva. In realtà, nel caso dell’altra sera, con Scajola e Cicchitto che ironizzavano sul “professor” Asor Rosa – “non vorrà mica bacchettarci tutti?”, e giù con le risatine sadiche – c’era molto di più, c’era anche un fondo di razzismo, un fare da mazzieri: dove ogni ghigno corrispondeva a sottotesto dispregiativo. Quasi in linea con il vecchio adagio nazista attribuito a Hermann Goering: “Quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola”.
Assodata la sufficienza da comprimario di Scajola nel brandire la spranga sulla testa dell’autore di “Scrittori e popolo”, lo stesso che da ministro della repubblica seppe definire Marco Biagi, assassinato dalle Brigate rosse, “un rompicoglioni”, non meno bravo ci è apparso l’eroico Fabrizio Cicchitto, per lunghi anni ritenuto invece il pupillo della sinistra socialista di Riccardo Lombardi, una risorsa della democrazia progressiva, prima di conquistare la palma di acclarato, orgoglioso piduista.
Dimenticavo, il remake dei maestri riconosciuti di simili tecniche mostra l’Elio Vito di un decennio fa, e forse anche, sia pure in veste di compagno di strada, il non meno temprato Marco Taradash. Furono proprio loro i pionieri. I Capezzone, i Belpietro, sono, infatti, materiale recente. Così come gli Scajola e i Cicchitto.
Dopo i gattopardi, direbbe Tomasi di Lampedusa, le jene e gli sciacalli.
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