Per dare un giudizio sulla legge appena approvata di riforma dei servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, trasporti, distribuzione di gas) è necessario far prima chiarezza sui termini “pubblico” e “privato”. Con i due termini si intende di solito la proprietà degli strumenti di produzione ma ai fini del benessere collettivo non conta la proprietà bensì l’uso che ne viene fatto: quella pubblica non ne garantisce l’utilizzo per fini pubblici mentre quella privata, se vi è adeguata concorrenza, può raggiungere finalità collettive.
Non è necessario aver letto “La ricchezza delle nazioni” di Adam Smith per sapere che il fornaio e il birraio non ci offrono i loro beni per altruismo e benevolenza ma per desiderio di guadagno; tuttavia poiché i birrai e i fornai sono numerosi non potranno praticare prezzi troppo elevati. Non è neppure necessario essere liberisti incalliti per sapere che i partiti che governano non usano di solito i beni di proprietà pubblica nell’interesse della collettività bensì per favorire nella migliore delle ipotesi i propri elettori e nella peggiore interessi inconfessabili. Il pubblico diviene quasi sempre il perseguimento volontario di interessi privati con beni di proprietà di tutti mentre il privato, se associato alla concorrenza, realizza il perseguimento involontario di interessi collettivi con beni di proprietà dei singoli.
Ben vengano pertanto le privatizzazioni se riescono a ripristinare, attraverso le liberalizzazioni che rendono contendibili i mercati, le finalità collettive lungamente disattese dalla politica. Ci riuscirà la riforma dei servizi pubblici locali appena approvata? Temiamo di no. I servizi pubblici locali sono monopoli naturali su base territoriale dato che non è tecnicamente possibile o economicamente conveniente avere una pluralità di operatori. Non è quindi realizzabile la concorrenza “sul” mercato ma solo quella “per” il mercato: poiché dobbiamo accontentarci di un monopolista allora scegliamo il più bravo (che ci garantirà la qualità desiderata ai prezzi minori e farà gli investimenti necessari per l’efficienza della rete) garantendogli il ruolo per un numero limitato di anni (né troppi, per riservarci la possibilità di sostituirlo con uno migliore, né troppo pochi, per evitare che persegua solo i suoi guadagni di breve periodo e lasci decadere la rete).
La riforma Ronchi introduce in maniera condivisibile lo strumento delle gare come metodo ordinario di assegnazione del servizio ma prevede troppe eccezioni: 1) l’intera riforma non si applica, e non se ne comprendono le ragioni, alla distribuzione di energia elettrica e al trasporto ferroviario regionale; 2) permette l’affidamento “in house”, e quindi senza gara, a imprese a totale partecipazione pubblica in situazioni ‘eccezionali’ che non vengono tuttavia tipizzate; 3) prevede un esteso regime transitorio nel quale gli affidamenti esistenti non conformi con la nuova disciplina sono conservati sino alla fine del 2011 e proseguono anche oltre, sino alla scadenza del contratto di assegnazione, se entro la fine del 2011 l’ente proprietario cede a soci privati, attraverso procedure di gara, almeno il 40 per cento del capitale; 4) gli affidamenti in favore di società quotate rimangono invece in vigore sino alla scadenza a condizione che la partecipazione pubblica nel capitale scenda sotto il 40 per cento, entro il 30 giugno 2013 e sotto il 30 per cento entro il 31 dicembre 2015. La “liberalizzazione” risultante è molto timida: nel prossimo biennio le gare non si faranno, dopo continueranno a non farsi se vi sarà un socio di minoranza a puntellare il monopolista pubblico, infine si faranno forse (se nel frattempo qualcuno non peggiorerà la legge) ma l’ente pubblico concedente si ritroverà di fronte soggetti ancora a controllo pubblico i quali, nella quasi totalità dei casi, saranno anche di sua proprietà. Difficile che assegni ad altri il servizio. É un copione già recitato con la riforma dei trasporti pubblici locali negli anni Novanta: a distanza di un decennio le poche gare effettuate hanno riconfermato i monopolisti uscenti e oggi i gestori sono ancora tutti pubblici e inefficienti come prima. Purtroppo senza una vera privatizzazione delle imprese pubbliche le liberalizzazioni sono destinate a non funzionare.
La riforma Ronchi è come una diligenza del Far West indirizzata sulla strada giusta ma così lenta da permettere a chi desidera assalirla di appostarsi sul percorso, tanto più che ci si è dimenticati di mandare lo sceriffo a presidiarlo. Lo sceriffo delle utilities si chiama Autorità di regolazione: esiste ed è molto efficace per energia e gas. Era stato previsto anche per i settori dell’acqua e dei trasporti nell’originaria formulazione della legge 481 del lontano 1995, ma poi non se ne fece nulla. Come si sa, in Italia l’eccesso di virtù rappresenta un vero peccato.
*Università di Milano Bicocca
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