lunedì 2 novembre 2009

Bersani a ostacoli



di Marco Damilano


L'uscita di Rutelli. La questione morale. Il rebus delle regionali. le ambizioni dei big. Il difficile compito del neo leader. Che punta sul modello emiliano. E una squadra rosso antico Pier Luigi Bersani

Il primo abbraccio da neo-segretario del Pd di Pier Luigi Bersani, alle 22.13 di domenica 25 ottobre, è per un uomo di 84 anni che aspetta emozionato. "È finita una fase. Abbiamo di nuovo un partito", esulta a mezza bocca il vecchio Alfredo Reichlin, uno che le fasi della travagliata storia della sinistra italiana le ha attraversate tutte, dal Pci di Palmiro Togliatti al Pd di Walter Veltroni. Intorno a lui festeggiano l'intellettuale organico Giuseppe Vacca e il figlio Ignazio, Luciano Violante in camicia nera e Nicola Latorre, Livia Turco, il tesoriere Ugo Sposetti e l'ex ministro Vincenzo Visco, e naturalmente Massimo D'Alema. Scendono le scale del palazzo di Santi Apostoli, che fu sede dell'ufficio di Romano Prodi e teatro di trionfi e sconfitte dell'Ulivo, luogo ostile. Ma questa è l'ora dell'orgoglio per gli eredi di Botteghe Oscure, "siamo tornati in campo", scandisce D'Alema, il figlio dell'apparato premiato dalle primarie che non ha mai amato. E il nuovo Pd? Arriverà.

Modello Bersani. Più rosso che tricolore. Più laburista che democratico. Ben piantato nel presente, altro che "il futuro è l'unico posto dove dobbiamo andare", come vagheggiava Veltroni con lo sfondo verde nella valle di Spello. Quello del nuovo leader è forgiato sul carattere emiliano, "un individualista che crede nel gioco di squadra, un concreto legato ai valori e ai fatti", come lo racconta e si ritrae l'uomo di Bettola, microscopico comune della valle del Nure in provincia di Piacenza dove Bersani è nato nel 1951, figlio di un benzinaio. Chiamato ora a rimettere carburante in un motore che da mesi gira a vuoto, stremato da sconfitte elettorali e baruffe pre-congressuali. E che, nonostante i tre milioni di nuovo coraggiosamente in fila nei gazebo, rischia di impallarsi.

La prima giornata di Bersani segretario è trascorsa in riunione con i notabili del Pd laziale Nicola Zingaretti, Esterino Montino e Roberto Morassut per dare il via libera alle dimissioni di Piero Marrazzo, l'ormai ex presidente della Regione inguaiato in un'incredibile odissea di trans, carabinieri, video, bugie e ricatti. L'ennesima tegola sul fronte della questione morale, insieme all'arresto dell'ex capogruppo Pd al Comune di Firenze Alberto Formigli accusato di corruzione. Neppure il tempo di un panino e arriva l'annuncio dell'addio di Francesco Rutelli che non aspetta neppure i risultati ufficiali delle primarie per abbandonare il partito di cui è stato co-fondatore. Una piccola scissione, in termini numerici, quasi un mutamento genetico, però, dal punto di vista dell'identità del Pd che si ritrova spinto a sinistra. Anche perché, nelle stesse ore, si rifanno vivi gli antichi compagni di partito, ora interessati a rientrare. Fabio Mussi, Claudio Fava, Marco Fumagalli. Pietro Folena, abbronzatissimo, arriva a Montecitorio per un colloquio con il suo successore alla guida della Fgci negli anni Ottanta Gianni Cuperlo, probabile uomo comunicazione del Pd di Bersani. Abbraccio tra i due e scambio del cinque, all'americana. Gli amici di Veltroni che sono andati via durante la leadership dell'ex sindaco di Roma bussano alla porta del Pd dopo la vittoria degli odiati dalemiani. Il richiamo della Ditta, evidentemente.

I numeri della nuova maggioranza che guida il Pd sono indiscutibili, segnati su un foglio di carta che circola nel quartier generale della mozione Bersani. Il segretario può contare sul 53 per cento della futura assemblea nazionale, così diviso: il 65 per cento spetta agli ex ds di D'Alema, il 30 per cento alla coppia Rosy Bindi e Enrico Letta, il restante cinque a una pattuglia di ex popolari radunati attorno ai calabresi Nicodemo Oliverio e Gigi Meduri, già fedelissimi di Franco Marini. Accanto al bilancino delle correnti c'è la geografia delle regioni che contano: la Campania, che ha consegnato a Bersani il 61 per cento nonostante i 150mila votanti in meno rispetto alle primarie del 2007 che elessero Veltroni, la Lombardia, il Veneto, l'Emilia. Numeri esoterici, nomi sconosciuti per gli elettori dei gazebo, eppure decisivi per stabilire gli assetti interni, la nomenklatura che guiderà il Pd nella campagna nei prossimi mesi.

Bersani è il primo segretario da tempo che non porta con sé al vertice del partito uno staff ingombrante e invadente, affiancato soltanto dal portavoce Stefano Di Traglia e dall'addetta stampa Chiara Muzzi. I nomi pesanti del suo Pd sono altri: l'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati, che nella notte delle primarie mostrava a tutti il risultato del collegio di Milano dove si era candidato, "prendiamo più del cinquanta...". E soprattutto il cervello politico del gruppo, il presidente dell'Emilia Vasco Errani, una quantità spropositata di sigarette fumate in attesa del risultato finale: per lui è in caldo l'incarico di coordinatore della segreteria in caso decidesse di non correre per la terza volta per la carica di governatore regionale. A chiudere il cerchio più stretto dei bersaniani c'è il ravennate Miro Fiammenghi, l'uomo-macchina inseparabile dell'ex ministro. Qualcuno lo indica come possibile tesoriere del partito.

La cassa a un bersaniano, la comunicazione al dalemiano Cuperlo e poi l'organizzazione: in corsa c'è il calabrese Nico Stumpo, un passato tra i comunisti unitari negli anni Novanta, ribattezzato dagli amici il "camionista unitario". E i tre posti-chiave sono appaltati agli uomini della Quercia. Una cordata che pesca nella Sinistra giovanile dei primi anni Novanta: l'economista Stefano Fassina, direttore della fondazione Nens creata da Bersani e Visco, il deputato ligure Andrea Orlando, fassiniano poi veltroniano ora bersaniano, un percorso tortuoso condiviso da gran parte dei coetanei ex ds. Uniti ai pulcini di ultima generazione: il leader dei giovani democratici Fausto Raciti, un dalemino. Al punto da imitare il suo mito politico nell'avversione per i giornalisti: "Da oggi l'aria è cambiata, sull'ascensore non vi faremo più salire", ha annunciato ai cronisti la notte delle primarie nella sede di largo del Nazareno indicando le scale. Scherzava, diciamo.

La leva '09 targata Bersani, con i virgulti che arrivano dalle regioni. Il genovese Lorenzo Basso, informatico, occhiali e ciuffo da giovane vecchio stile Bill Gates, seguace di Enrico Letta, che a 33 anni ha quasi doppiato i voti di un mostro sacro come Sergio Cofferati. Il napoletano Enzo Amendola, 35 anni, eletto in Campania con il 70 per cento, chiamato a gestire il dopo-Bassolino ("Niente discontinuità, meglio rinnovamento", gioca con le parole con una disinvoltura degna di De Mita che ha mezzo secolo più di lui: "Io e Ciriaco ci stimiamo, ci hanno fatto fuori nella stessa stagione", quella di Veltroni, s'intende). La veneta Rosanna Filippin, che snocciola i mondi da conquistare, gli artigiani, le partite Iva, finora off limits per il Pd.

Accanto agli esordienti ci sono i big: per la Bindi è pronta la presidenza del partito, per dare visibilità all'anima cattolica e ulivista. Nella notte della vittoria, mentre la pasionaria brindava con gli amici nel ristorante 'Ciro' a due passi dalla sede del Pd, è arrivata la telefonata più gradita, quella di Romano Prodi da New York: quasi un passaggio di consegne. Per il giovane Letta c'è il posto di capogruppo alla Camera, postazione scomoda data la prevalenza di deputati di osservanza veltroniana-franceschiniana e le possibili partenze in direzione Rutelli.

Più complicato accontentare l'ultimo dei cavalli di razza, Massimo D'Alema. Nell'ultima fase l'ex premier si è offerto come interlocutore di Gianfranco Fini, ma anche di Giulio Tremonti, e non ha disdegnato un fugace incontro con Silvio Berlusconi. E nel Pd può contare sulla rete messa in piedi nel periodo buio della segreteria Veltroni, il partito parallelo composto dall'associazione Red, dalle fondazioni che hanno ereditato il patrimonio immobiliare degli ex Ds e dalla tv satellitare Red Tv, oltre che dalla fondazione Italianieuropei. Senza dimenticare 'Il Riformista' di Antonio Polito, così felice per la vittoria da colorare di nuovo la testata di arancione, che si candida al ruolo di house organ del nuovo corso.

Una corazzata che punterà a condizionare Bersani con una non dichiarata distinzione di ruoli: al segretario l'organizzazione, a D'Alema la grande politica. "Pier Luigi è più un tecnico che un politico, con gli scenari si annoia", riconosce Paolo Gentiloni. Ma di scenari, alleanze e strategie in politica si vive e si può anche morire. L'uscita di Rutelli e l'avvio della manovre al centro, con l'Udc di Casini sempre più intezionato a correre da solo rischiano di trasformare la partita delle regionali in un Vietnam per il Pd. Tocca a Bersani dare un senso a questa storia, come recitava lo slogan della sua campagna congressuale. Se un senso ce l'ha, ancora.

(30 ottobre 2009)

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