sabato 21 novembre 2009

Caso Orlandi, il rapitore ha un nome


di MASSIMO LUGLI


Ha un nome e un volto uno dei rapitori di Emanuela Orlandi. Ed è questo il vero risultato dell'indagine riaperta, un anno fa, dagli agenti della mobile sulla ragazza scomparsa il 23 giugno del 1983, un giallo senza fine tornato alla ribalta con l'avviso di garanzia a "Mario", uno dei telefonisti che chiamò la famiglia della quindicenne nei giorni successivi al sequestro.

L'uomo (che potrebbe essere arrestato a giorni) è una delle persone che avvicinò Emanuela all'uscita della scuola di musica. Alcuni testimoni, interrogati a lungo in questura, ne avrebbero riconosciuto le foto (di com'era all'epoca, ovviamente) senza ombra di dubbio. Indagine classica, fatta di pedinamenti, estenuanti colloqui coi testimoni, appostamenti. Con un piccolo stratagemma che, probabilmente, la notizia filtrata giovedì da piazzale Clodio ha neutralizzato in partenza.

Chi indaga, infatti, aveva intenzione di aspettare ancora qualche tempo prima di rendere noto l'avviso di garanzia a "Mario", un pesce piccolo che nuotava sulla scia della Banda della Magliana senza farne veramente parte a pieno titolo. A quel punto il vero obiettivo degli investigatori avrebbe potuto fare una mossa falsa e tradirsi definitivamente. Ormai la frittata è fatta ed è possibile che la mobile e la procura siano costrette ad accelerare i tempi.

La perizia fonica che ha incastrato "Mario", del resto è un'arma spuntata perché gli strumenti tecnici (rappresentazioni grafiche del segnale, "waveform", spettrogrammi e formanti) sono solo indizi, quando la voce è registrata, specialmente se si tratta di un nastro inciso 26 anni fa. All'indagato basterebbe negare e nessuna giuria potrebbe mai condannarlo. La speranza degli inquirenti è che l'uomo, messo alle strette dopo l'identificazione del complice, si decida a parlare. "Anche se tutto va bene, saremo sempre al primo livello - ammette uno degli inquirenti - se il rapimento di Emanuela è stato organizzato come quelli di mafia o delle Br, a compartimenti stagni, sarebbe molto difficile risalire a tutta la verità, perché i manovali, in questo caso, non sapevano chi c'era dietro, chi muoveva i fili".

L'ipotesi più probabile resta quella di un tentativo di ricatto al Vaticano. Il giudice Rosario Priore va oltre e parla di "Un prestito fatto dalla Banda della Magliana per la causa di Solidarnosc, una somma di 15-20 miliardi di lire su cui c'era un'istanza di restituzione". La gang di "Renatino" e compagni, secondo Priore, "probabilmente voleva rientrare in possesso del denaro".

Tornando al telefonista, una prima perizia effettuata dalla squadra mobile di Nicola Cavaliere nella prima fase delle indagini (ed eseguita, ironia della sorte, da una ditta che lavora proprio per il Vaticano) portò alla conclusione che "Mario" e "Pierluigi" (le prime due voci che parlarono con i familiari di Emanuela) erano la stessa persona. Entrambi, probabilmente per prendere tempo, cercarono di convincere i genitori che la ragazza se n'era andata spontaneamente.

Quanto all'"amerikano", l'uomo con uno spiccato accento straniero che telefonò ben 16 volte sfuggì alla cattura per un soffio. Il pool investigativo di Cavaliere, assieme alla Sip, mise fuori uso gran parte delle 800 cabine telefoniche di Roma e tenne le restanti 300 sotto controllo. L'ultima chiamata arrivò a luglio da un telefono pubblico della zona di Porta Pia e fu immediatamente localizzata dalla polizia. Gli agenti piombarono sul posto ma rimasero bloccati nel traffico e fecero in tempo a vedere un uomo alto, con un cappello calato sul viso, che si allontanava a grandi passi. Se fossero arrivati un minuto prima il giallo sarebbe stato risolto. E, forse, Emanuela sarebbe stata ritrovata. Forse.

(21 novembre 2009)

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