sabato 21 novembre 2009

L’ACQUA PRIVATIZZATA, IL VERO PROBLEMA E GLI SCEMI DEL VILLAGGIO GLOBALE



DIRETTORE ROBERTO ORMANNI

di Roberto Ormanni

Lo scontro politico – ma a tratti appare ideologico – sulla cosiddetta privatizzazione dell’acqua ci lascia un po’ perplessi. Non siamo – gli amici e i nostri venticinque lettori lo sanno – filogovernativi. Non siamo, per la precisione, mai “filo” per nessun motivo preconcetto. Crediamo che la caratteristica dell’Uomo essendo la ragione, questa debba essere utilizzata prima di esprimere un giudizio. Per ragionare però è necessaria l’informazione. Ecco perché, scusate la digressione, tanti si danno da fare per controllarla, umiliarla, deviarla: al diminuire dell’informazione cala proporzionalmente la capacità di ragionare e, spesso, lo spazio rimasto vuoto viene occupato dall’ideologia che, come diceva il grande saggista e linguista Roland Barthes, sostituisce l’intelligenza.
Torniamo alla privatizzazione dell’acqua.
Avvertiamo i lettori che il ragionamento è complesso, articolato, e dunque non riconducibile ad uno slogan. Anche perciò nessuno ragiona più: perché lo spazio a disposizione sui giornali, nei programmi televisivi (porteaporte o annizeri non c’è differenza) e nelle aree commenti dei blog non basta a contenere un ragionamento che vada oltre l’elementare formulazione di dieci pensierini.
Il punto di partenza del ragionamento non può che essere la normativa comunitaria e l’indicazione che contiene: le amministrazioni pubbliche – dicono i legislatori comunitari (che, è bene ricordarlo, non sono una categoria dello spirito ma gli stessi che rispettivamente legiferano nei loro singoli Paesi di provenienza e su questa oggettiva osservazione si innesta il vecchio problema tutto italiano dell’assoluta ignoranza di cosa è e come funziona l’Unione Europea) – devono essere lasciate libere di scegliere se affidare i servizi pubblici ai privati o gestirli direttamente.
E già quest’affermazione, in Italia, viene giudicata con schizofrenico sospetto.
Perché schizofrenico? Perché siamo un Paese che oscilla tra il disprezzo del pubblico causato dalle sue secolari inefficienze (accompagnato dall’apologia del privato, tanto da affidare la guida del governo ad un imprenditore sostenendo – così si diceva all’inizio – che chi riesce a far funzionare la sua azienda finalmente riuscirà a far funzionare lo Stato), e il disprezzo – allo stesso tempo – del privato ritenendo, in particolare, di non poter fare affidamento sul privato scelto da “quel” pubblico, ossia da quella stessa amministrazione che disprezziamo.
Come potrà mai funzionare, senza coltivare interessi occulti, inconfessabili e contrari ai bisogni dei cittadini, un servizio affidato ad un privato scelto da quell’amministrazione che non funziona? Soprattutto – e questa equazione si è dimostrata spesso vera nella storia recente – il privato viene scelto non per le sue capacità ma solo in base agli interessi personali: nella migliore delle ipotesi in nome di quel costantemente presente conflitto d’interessi privato-pubblico (che tuttavia noi stessi abbiamo creato affidando il governo pubblico ad un governatore privato…), e nella peggiore in base alla capacità corruttiva da un lato e alla disponibilità ad essere corrotti dall’altro.
Così non ci fidiamo dei risultati di un concorso pubblico, di una gara d’appalto, di una qualunque gestione – appunto – privatizzata. In sostanza, non ci fidiamo della correttezza (tecnica) e della legalità (etica prima ancora che giuridica) delle decisioni del pubblico.
E però, contemporaneamente – e per gli stessi motivi – consideriamo il pubblico incapace. Si tratta ovviamente di un’inconciliabile contraddizione: qualcuno, pubblico o privato che sia, dovrà pur gestire qualcosa per conto della collettività. L’unico modo, in una democrazia che funziona, per comporre tale contraddizione è nella scelta dei rappresentanti pubblici che decidono, all’occorrenza, quando, cosa e come affidare ai privati. Ma la gente d’Italia non è capace nemmeno di trarre le necessarie conseguenze dalle sue stesse convinzioni (giuste o sbagliate non importa: in questo caso, ma solo in questo, è vero che la volontà popolare è sovrana). Allorché infatti si tratta di scegliere i propri rappresentanti, quegli stessi cittadini che riempiono i blog, le email, le piazze di contestazione e disprezzo, vanno ordinatamente a depositare nell’urna il proprio voto per le stesse persone che il giorno prima erano oggetto di quel disprezzo. E non vale, come alibi, sostenere che “tanto sono sempre ‘loro’ che decidono”, che “tanto questo o quello noi lo prendiamo sempre nel…” e così via. Questa è filosofia da autobus (e gli autobus sono un servizio pubblico che non accontenta quasi nessuno ma quegli stessi scontenti lo sarebbero ancora di più se si proponesse di affidarlo ai privati). L’alibi non vale semplicemente perché è falso. Ad ogni consultazione elettorale le formazioni, i simboli, le alleanze, le liste civiche, gli improbabili partiti dell’ultim’ora sono più di quanti se ne possa contare. Eppure mai una volta che, ad esempio, la Lega per la salvaguardia dei cani marroni, abbia miracolosamente ottenuto il 30 per cento dei consensi, non fosse altro che per protesta. Al massimo, sale vertiginosamente la percentuale di astensioni, che equivalgono ad una cambiale in bianco firmata dalla massa a beneficio di un singolo: se la metà della popolazione non vota, di fatto si rimette alla scelta dell’altra metà e anzi, visti gli ovvi meccanismi di un’elezione, a quel 25 per cento più 1 che porterà al successo una delle parti in gioco. In teoria il governo di 100 milioni di cittadini potrebbe essere scelto, così facendo, da 25 milioni e 1 persona così che gli altri 75 milioni meno 1 potrebbero dichiararsi insoddisfatti. Peccato però che, in questo caso, perderebbero il diritto (sul piano etico-sociale) di protestare: potevano pensarci prima (a patto che non abbiano perso la capacità di pensare).
E allora: senza dimenticare queste premesse – che non sono opinioni ma constatazioni – riprendiamo l’affermazione dell’Unione Europea.
Il compito principale della Ue, il motivo per cui è nata, è garantire la circolazione delle risorse – umane, finanziarie, industriali – nella convinzione che lo sviluppo può essere favorito soltanto da una crescente integrazione tra privato e pubblico, da un sempre maggiore impegno del privato, guidato e vigilato dal pubblico – questo inciso è importante: nei ragionamenti ci sono cose importanti da ricordare, a differenza dei pensierini - affinché l’utile del singolo coincida sempre più con l’interesse collettivo. Non a caso il Mercato Europeo Comune (ricordate? Il Mec) era tra le prime formazioni “operative” di quella che un tempo era la Comunità economica europea. E, sempre non a caso, la Comunità europea, prima di essere “Unione”, era “economica”. Come dire: l’unione (che, è proverbiale, fa la forza) si salda in nome dell’economia. Anche Marx, dal suo punto di vista, aveva già capito che l’economia è ciò che fa funzionare il mondo. In ambito politico e internazionale, soprattutto, l’economia sta al “primo motore immobile” dantesco o al sesso nelle teorie di Sigmund Freud. Dunque l’Unione europea funziona – e garantisce il funzionamento – in nome dell’economia e del bilanciamento degli interessi tra privati e tra pubblico e privato (alla faccia di chi continua a sfondare le vetrine di McDonald ritenendo che sia un simbolo dell’America, anzi Amerika, capitalista).
In quest’ottica la Ue non si spiega perché (la componente italiana è soltanto una piccola parte del consesso legislativo europeo dove, di conseguenza, negli interrogativi e nelle soluzioni prevale la coerenza, la legalità e il senso dello Stato) ci debba essere un Paese che non prevede la possibilità di “mettere sul mercato” (comune) i suoi servizi pubblici. In questo modo, pensa un legislatore abituato a vivere in un sistema amministrativo che funziona e non in una videocrazia monarchica piena di cittadini-sudditi, se l’ente pubblico ritiene di poter – o di dover – gestire direttamente il servizio, può farlo ma ciò non impedisce a un altro ente pubblico di affidarlo invece a un privato che, magari, ha competenze che l’ente (perché piccolo, perché povero) non ha e dunque può garantire un buon servizio a buone condizioni. Buone condizioni non significa gratis, ma con una politica tariffaria che tenga conto sia della “economicità” (nel senso della matrice economica) della gestione, sia del fatto che comunque quel servizio è di interesse pubblico. Insomma una gestione privata sotto la vigilanza e d’accordo con il pubblico e dunque un bilanciamento tra interessi e garanzie, diritti e opportunità.
In Italia però nessuno si fida. E già, pensano, figuriamoci cosa succede: l’acqua viene affidata a imprenditori senza scrupoli amici degli amici che la fanno pagare un occhio della testa e tutti i poveri restano, è il caso di dire, a bocca asciutta.
Più le critiche dilagano più scende il coefficiente dell’informazione che dovrebbe dare senso alla critica. Si scivola così, ancora una volta, verso quel pollaio starnazzante fatto di blog, email e rigurgitante di quella informazione “che viene dalla base” grazie alla cloaca telematica della “Rete” dove tutti dicono tutto e dunque nessuno capisce niente (da Facebook ai siti di presunta informazione che dopo aver dato una notizia tanto sintetica quanto mistificata invitano il lettore: “dì la tua”, come se fossimo in un bar dello sport dove il buon vecchio e inoffensivo scemo del villaggio è stato sostituito da un esercito di moderni e devastanti scemi del villaggio globale).
Su un punto alcuni dei galli di questo pollaio hanno ragione. E non è un punto secondario, quanto a valenza profetica: mentre l’Unione Europea ha raccomandato agli Stati di favorire la libera scelta delle amministrazioni su chi dovesse gestire i servizi, il disegno di legge che il 19 novembre scorso ha convertito il decreto legge approvato a settembre, prevede senza mezzi termini che la gestione dei servizi pubblici locali deve essere conferita agli imprenditori. Detta così, puzza lontano un miglio di affare da spartirsi.
Però: dice proprio così la legge? E poi: cosa cambia realmente rispetto alla situazione attuale? Inoltre: cosa c’è di nuovo rispetto ad altri servizi ugualmente primari e di interesse pubblico?
Vediamo.
Il secondo e il terzo comma dell’articolo 15 del decreto legge approvato a settembre scorso, convertito dal disegno di legge Ronchi, nel richiamare sostanzialmente il secondo comma dell’articolo 23bis del decreto legge 25 giugno 2008 numero 112, così dicono: “Il conferimento della gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria:
a) a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità;
b) a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l'attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento.
3. In deroga alle modalità di affidamento ordinario di cui al comma 2, per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l'affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico, partecipata dall'ente locale, che abbia i requisiti richiesti dall'ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta “in house” e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell'attività svolta dalla stessa con l'ente o gli enti pubblici che la controllano
”.
Ora possiamo provare a rispondere alle tre domande che ci siamo posti. Prima domanda: è vero, nella legge è scritto che “la gestione dei servizi pubblici locali avviene, in via ordinaria, a favore di imprenditori o di società in qualunque forma costituite…” (e tralasciamo il rilievo linguistico secondo il quale la gestione non “avviene” ma “viene affidata”). Quell’in via ordinaria vuol dire che normalmente deve essere così: la regola generale è questa. Però, sempre per restare alla prima domanda, la legge non dice solo questo. Dice anche che, sempre in via ordinaria, cioè sempre per regola generale, la gestione di quegli stessi servizi viene affidata a “società a partecipazione mista pubblica e privata”. Potrà in sostanza verificarsi indifferentemente sia l’una che l’altra ipotesi.
Vengono poi fissati dei “paletti”, delle condizioni, da rispettare nella scelta di questi soci privati (bisognerà cioè ricorrere ad una sorta di gara d’appalto per scegliere il migliore).
Ancora: si precisa che questi soci privati non potranno avere una partecipazione inferiore al 40 per cento. Mentre non viene stabilito un tetto massimo di azioni della società di gestione che potranno andare ad un privato.
Per capirsi: potrà esserci una società al 90 per cento privata e al 10 per cento pubblica, ma non il contrario. L’ipotesi più… pubblicistica possibile è 60 per cento al pubblico e 40 al privato.
Ma ancora non è finita: sempre lo stesso articolo, al comma successivo ci spiega che “per situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato, l'affidamento può avvenire a favore di società a capitale interamente pubblico”. E anche in questo caso vengono poste delle condizioni formali che possiamo lasciar perdere.
Ricapitolando: se è vero che la regola generale prevede indifferentemente sia l’affidamento della gestione ai privati sia a società miste pubblico-privato, è anche vero che se si tratta di territori disagiati o – anche, e questo è importantissimo – caratterizzati da particolari condizioni economiche e sociali (quindi: zone depresse, comunità in via di sviluppo che hanno bisogno della “mano pubblica” che garantisca trattamenti di favore che non possono essere imposti all’economia d’impresa privata altrimenti l’Europa si arrabbia), i privati restano a casa e ci pensa l’ente pubblico a distribuire l’acqua.
La risposta alla prima domanda impone una prima conclusione: le comunità in difficoltà, che temono di essere penalizzate dai privati, possono fare affidamento sui loro rappresentanti pubblici e pretendere che l’acqua resti un servizio controllato interamente dal pubblico. In questo caso l’interesse (collettivo) ad una gestione pubblica pur con tutti i suoi eventuali limiti è superiore all’interesse (sempre collettivo) all’efficienza privata.
Se nonostante questa evidente conclusione si continua a protestare, allora il punto, come si vede, non è più: non ci fidiamo dei privati. Bensì: non ci fidiamo del pubblico. Insomma, chi protesta in questi giorni lo fa per la ragione sbagliata.
Così torniamo alla questione del pubblico che non funziona ma che continua ad essere nutrito dal consenso di chi, pur non fidandosi, continua ad appoggiarlo (in cambio di posti di lavoro, raccomandazioni, vantaggi più o meno illeciti, tutela per gli orticelli personali).
In pratica: il problema è un altro ma viene cancellato dalle polemiche starnazzanti, dalle patriziedaddario ai capi d’imputazione del capo del governo.
Seconda domanda: cosa cambia rispetto alla situazione attuale? Per rispondere non serve imparare a leggere (le leggi o anche soltanto il Corriere dei Piccoli), ma è sufficiente guardarsi attorno, magari rinunciando all’ultima puntata di X Factor o della Ruota della fortuna.
Basta un esempio a chiarire le idee (dove ci sono): a Roma, la capitale d’Italia come ci insegnano a scuola – per chi c’è andato – la gestione del servizio idrico, l’acqua del rubinetto, è affidata ad una società mista pubblico privato: l’Acea. Il pubblico, cioè il comune di Roma, possiede il 51 per cento di questa società: la nuova legge gli consentirebbe di aumentare addirittura la partecipazione fino al 60 per cento. La nuova e vituperata legge cioè è più favorevole al pubblico di quanto lo sia la realtà attuale a Roma.
Per il resto, il pacchetto azionario dell’Acea, che è quotata in Borsa, è nelle mani della società francese – tutta privata – Gdf Suez (9,9 per cento), della famiglia Caltagirone (7,5 per cento) che come tutti sanno è molto privata anche se spesso molto vicina al pubblico, di una delle maggiori banche svizzere, la Pictet Funds del gruppo Banque Pictet (3,8 per cento) che più privata di così… e per il restante 27,8 per cento è collocata sul mercato borsistico. Anche chi sta leggendo queste righe potrebbe possedere qualche… litro dell’acqua che bevono i romani.
La situazione di Roma è comune a molte altre grandi città. E dove invece la società che gestisce l’acquedotto è a intera partecipazione pubblica, ad esempio a Napoli con l’Arin, si tratta pur sempre di una società per azioni. Cioè di un organismo di diritto privato che, sebbene di proprietà pubblica, può prendere le sue decisioni (e ad esempio aumentare le tariffe) in piena autonomia. Così come in piena autonomia decide quanto, dove e perché investire. Cosa che pare spaventi molto coloro che parlano della nuova legge senza conoscere il mondo che li circonda.
In alcuni casi infatti il costo dell’acqua, nonostante la società di gestione abbia un azionariato tutto pubblico, è elevatissimo. L’Acquedotto Lucano, una Spa di proprietà regionale, per dirne uno, ha fissato tariffe solo in apparenza ridotte. Portando al limite minimo i consumi standard, tutto quello che esce in più dai rubinetti viene classificato come eccedenza, con relativa impennata dei costi. A ciò bisogna aggiungere i costi, fissati regione per regione, del servizio fognario (anche l’acqua potabile finisce nelle fogne e dunque con la fattura dell’acqua paghiamo la componente fognaria), e tutti gli altri che concorrono al prezzo finale. Morale della favola: in Lucania un metro cubo d’acqua può arrivare a costare, di fatto, tutto compreso, anche 3 euro e 50 centesimi. Anche se, in teoria, il costo “secco”, ossia senza le altre voci aggiunte, è di poco inferiore ad un euro. Stessa fine per l’acqua di Napoli (la tanto decantata acqua che sarà per merito suo se il caffè è così buono o anche la pizza, a sentire i luoghi comuni): il prezzo base è di quasi 1 euro e 50 a metro cubo. Risultato: aggiungendo le altre voci si arriva anche a 4 euro. Sia a Napoli sia in Lucania, lo ricordiamo, le società di gestione sono interamente pubbliche. Ma sono società per azioni. Si comportano cioè come se fossero dei privati. E ciò è previsto già dalle attuali norme.
In pratica, di nuovo, il problema è un altro e viene cancellato dalle polemiche starnazzanti.
Terza domanda: cosa ci sarà di nuovo, e di diverso, rispetto ad altri servizi di interesse pubblico? Anche in questo caso basta saper leggere e non serve nemmeno il Corriere dei Piccoli. Prendiamo l’ultima bolletta della luce, del gas, del telefono: risulta che le società di gestione siano pubbliche? Sfidiamo chiunque a sostenere che si tratta, in realtà, di beni non primari come l’acqua. Certo, in teoria sì, ma provate a fare a meno della luce, del gas e perfino del telefono. La definizione di bene primario rientra in una categoria relativistica: dipende dal contesto nel quale si vive. Diogene, tanti anni fa, dimostrò (anzi, lo imparò da un bambino) che anche una tazza di legno da riempire con l’acqua da bere può essere superflua. In teoria anche l’acqua, intesa come rubinetto che si apre e fa scorrere acqua potabile, non è un bene primario. Basta andare indietro di cento anni per scoprire che le fontane in piazza servivano anche per fare il bucato, oltre che per prendere l’acqua da portare a casa. E soltanto le famiglie più ricche potevano permettersi di avere un pozzo in cucina o nel cortile da dove costruire il loro acquedotto personale (privato).
In pratica, non si riesce a fare a meno di questa conclusione, il problema è un altro e viene cancellato dalle polemiche starnazzanti.
E’ vero che la Francia, pioniera nella privatizzazione del servizio idrico (ma come ci dicono i fatti anche in Italia da anni siamo sostanzialmente privatizzati) ora sta facendo marcia indietro verso la “statalizzazione”. Perché la gestione privata si è dimostrata un crogiuolo di sprechi, imbrogli, corruzioni, aumento ingiustificato di tariffe, servizi carenti.
Eppure sono decenni che si sente ripetere che l’acquedotto comunale di questa o quella città, soprattutto del sud Italia, si dimostra buono soltanto per gli sprechi, gli imbrogli, le corruzioni, l’aumento ingiustificato di tariffe, i servizi carenti.
Si torna, come dei muli che girano la macina, al punto di partenza: non ci fidiamo del pubblico e non sappiamo cambiarlo, non ci fidiamo del privato perché scelto da quel pubblico di cui non ci fidiamo.
Non è però contestando la privatizzazione dell’acqua, in quanto tale, che si viene fuori da questo dilemma. Come diceva Cesare Pavese: i problemi sono iniziali. Le polemiche starnazzanti non sono l’inizio del problema, sono la conseguenza. Per zittire le galline bisogna cacciare la volpe dal pollaio, non discutere di come obbligarle al silenzio.
Sarebbe meglio concentrare le energie, anche quelle dell’opposizione politica, in un serio controllo parlamentare (anche se i termini “serio” e “parlamentare” appaiono anch’essi inconciliabili).
Basterebbe introdurre l’obbligo per il pubblico di controllare la politica tariffaria e l’efficacia e l’efficienza del servizio privatizzato. Nei Paesi anglosassoni esiste il difensore civico. Esiste anche in Italia. Lì funziona ed è temuto dalle istituzioni. Qui viene nominato dalle istituzioni tra i raccomandati servendosi del manuale Cencelli.
La legge, anche questa legge contestata, continua a prevedere che l’acqua resta un bene pubblico. Dunque ciò che diventa privato è la sua gestione. Sul piano giuridico, il proprietario di un bene affidato in gestione a qualcuno ha tutto il diritto di stabilire dei tetti massimi ai prezzi di vendita. Non sarebbe una novità nemmeno per l’Italia: i prezzi dei quotidiani (indubbiamente privati) sono stabiliti dal pubblico, le tariffe telefoniche, del gas, dell’elettricità, perfino delle autostrade e dei treni (tutti beni o servizi privati spesso non solo nella gestione ma anche nella proprietà, a differenza dell’acqua che resta di proprietà pubblica) sono controllati e monitorati da autorità garanti e commissioni. Per non parlare della benzina o dei carburanti: più privato dei petrolieri…
Senza dimenticare che il cosiddetto decreto Ronchi, emesso in nome della legge Comunitaria del 2008, potrà essere corretto, dove è necessario, anche nei prossimi due anni. Lo prevede proprio la legge Comunitaria del 2008 che all’articolo 1, comma 5, dice: “Entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore di ciascuno dei decreti legislativi di cui al comma 1 (quelli cioè che danno attuazione ai principi indicati dall’Unione, tra i quali l’affidamento dei servizi ai privati), il Governo può adottare disposizioni integrative e correttive”.
E allora invece di starnazzare nel pollaio della Rete, controlliamo il legislatore, come prevedono le regole della democrazia.
Alla fine ci accorgiamo che volendo articolare qualcosa di più (di più utile) di una paginetta di frasette sull’acqua, scopriamo che parlare di privatizzazione dell’acqua ci fa scontrare con temi assai più ampi che riguardano la vita pubblica, la società, i diritti e i doveri, la democrazia. Non siamo però i primi ad accorgercene: se ne sono accorti, prima di noi, due persone di cui spesso leggiamo nei libri (se non ci limitiamo a guardare le figure) che si chiamavano Socrate e Aristotele. Accade sempre così quando si prova ad avere uno sguardo d’insieme.
Accade sempre così quando non si vuole fare la fine di quello scemo che, di fronte al dito che gli indicava la luna, guardava il dito.

6 commenti:

Mela Rossa ha detto...

boh...forse il giornalista non ha mai visitato il sito "Forum Italiano dei movimenti per l'acqua".
(http://www.acquabenecomune.org/index.php)

...mi pare che oltre a starnazzare (come dice lui), loro stanno ben tenendo d'occhio il legislatore, con proposta di legge da loro stessi articolata e già presentata in Commissione ambientale della Camera...

bah! forse sono io che non ho ben inteso l'articolo...

LUIGI A. MORSELLO ha detto...


"FORMIDABILE!
Merita rilettura e riflessione.
Ha ragione:"nessuno ragiona più"
per colpa di quell'informazione che non ci viene più data o, se ci viene data, non è corretta...o ancora la nostra attenzione è distratta ad arte da altro tipo di notizie.
Insomma, come fa il cittadino comune a non andare in confusione?

Scrive Ormanni:
"E allora invece di starnazzare nel pollaio della Rete, controlliamo il legislatore, come prevedono le regole della democrazia.
Alla fine ci accorgiamo che volendo articolare qualcosa di più (di più utile) di una paginetta di frasette sull’acqua, scopriamo che parlare di privatizzazione dell’acqua ci fa scontrare con temi assai più ampi che riguardano la vita pubblica, la società, i diritti e i doveri, la democrazia."

Perciò, andrò sempre a votare.

Madda"

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

IL COMMENTO CHE PRECEDE NON E' MIO, MA DI MADDA"

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

SAI, MELA, MI PARE EVIDENTE CHE ROBERTO ORMANNI CERCA DI PROVOCARE UNA DISCUSSIONE, CON QUALCHE FRASE AD EFFETTO, CHE PER ORA HANNO TROVATO LA TUA REAZIONE (MI SEMBRA UN PO' INDIGNATA).
PUO' ESSERE CHE NON ABBIA MAI VISITATO IL FORUM CHE TU CITI E CHE IO RIPORTO:
http://www.acquabenecomune.org/index.php
MA CREDO CHE LA SUA ANALISI, CHE VA BEN OLTRE LA GESTIONE DEL BENE COMUNE DI PRIMA NECESSITA', COME L'ACQUA, AFFONDI NEI MALI DELLA CLASSE POLITICA ITALIANA E DEI LORO ELETTORI (COMPRESO ME E TE),
MI APRREBBE OPPORTUNO RILEGGERE L'ARTICOLO, CHE E' DI GRANDE SPESSORE CULTURALE.
IN OGNI CASO, GIRO LA TUA OSSERVAZIONE ALL'INTERESSATO, INTERESSATO CKME CREDO ANCHE TU, A LEGGERE IL SUO COMMENTO.
TI SUGGERISCO DI LEGGERE ANCHE IL POST SUL MIO BLOG A QUESTO LINK (E IL COMMENTO DI ORMANNI):
http://ilgiornalieri.blogspot.com/2009/11/riforma-dellart-15-ripubblicizzare-si.html
L'ARTICOLO CHE HO RIPORTATO LO PUOI TROVARE QUI:
http://www.ilparlamentare.it/
O.T.: QUALCUNO HA GIA' NOTATO CHE HO CAMBIATO L'IMMAGINE SUL DESKTOP.
NON HO ANCORA AVUTO TEMPO (CONTINUE INTERRUZIONI) DI SPIEGARE IL PERCHE', ADESSO L'HA NOTATO E HA DETTO: "BELLISSIMO!".
E' MIA MOGLIE.
DOMANI VEDIAMO SE LO NOTERANNO MIO FIGLIO E LA MOGLIE.

Mela Rossa ha detto...

Ecco Luigi, vedi, non ho proprio inteso :-(

E' meglio che me lo rilegga un'altra volta !!!!

Si, mi è sembrato provocatorio, ma non mi sono affatto indignata.
Solo che l'appellativo "scemi" mi è parso un po' forte...anche perchè credo nella "rete" e nella possibilità che ci offre per la ricerca delle informazioni e quindi di ragionare autonomamente su di esse.

Comunque, lo rileggerò sicuramente con più attenzione ;-)
Sullo spessore culturare, non ho certamente dubbi!

O.T.: bella vero? mi accompagna ormai da più di un'annetto.
Le icone del desktop le ho messe tutte ai lati, così la foto si vede bene ;-)
Saluti a tua moglie!
Buona notte a tutti!

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

VEDI MELA, ORMANNI NON E' UN GIORNALISTA DA QUOTIDIANO QUANDO SCRIVE COSI', NON FA IL PEZZETTINO, MATURA DELLE RIFLESSIONI PROFONDE, PROFONDE CULTURA NON SOLO GIURIDICA.
QUESTO ARTICOLO L'HO PROVOCATO IO QUANDO GLI HO CHIESTO LUMI SULLA FACCENDA DELLA PETIZIONE.
MI HA RISPOSTO IN MODO COSI' ORIGINALE E INASPETTATO CHE GLI HO SUGGERITO DI CHIARIRE BENE LE COSE.
IL RISULTATO E' QUESTO.
RIFATTI ALLA FIGURA DI UN TEMPO, DEL SEMPLICIOTTO CHE VENIVA CHIAMATO 'LO SCEMO DEL VILLAGGIO', TOGLI LA VALENZA DISPREGIATIVA DEL CONCETTO E VEDILO RIPROPOSTI AL TEMPO D'OGGI, DEL VILLAGGIO GLOBALE.
ORMANNI NON PENSA CHE LA RETE SIA UN BLATERARE INUTILE O PEGGIO ANCORA DANNOSO, PERO' NON V'E' DUBBIO CHE DEI MILIONI DI BLOG TEMATICI IN CUI SI PARLA DI POLITCA, ECONOMIA, IN QUANTI DI ESSI I CONTENUTI SONO DAVVERO APPREZZABILI? OGNUNO SI IMPROVVISA GIORNALISTA, ANALISTA, RICERCATORE, SENTENZIANO, IN PERFETTA BUONA FEDE, MA NON SONO CONOSCITORI.
TUTTI NE SAPPIAMO DI MENO DEI PROFESSIONISTI.
IO HO APERTO QUESTO BLOG A MAGGIO 2008, DOPO VARIE ESPERIENZE ALCUNE MOLTO POSITIVE, IN CUI SCRIVEVO IN MODO DIVERSO, DOCUMENTANDOMI, DI TUTTO CIO' CHE SUSCITAVA IL MIO INTERESSE.
ERA DIVERSO CHE GESTIRE UN BLOG, COME FACCIO ADESSO.
IL MIO PARE ESSERE UN BLOG CHE PIACE, PERCHE' OFFRE UNA PANORAMICA CORRETTA ATTRAVERSO LA COMPULSAZIONE DI CINQUE-SEI QUOTIDIANI E UN SETTIMANALE, OFFRENDO DEL MEDESINO ARGOMENTO, OVE POSSIBILE, I DIVERSI PUNTI DI VISTA.
COSI' FACEDNO HO INIZIATO, FORZAMENTE IN QUANTO LEGGO ED EVIDENZIO GLI ARTICOLI, A CAPIRE QUALCOSINA DI POLITICA E FACCIO IO PER PRIMO DEI COMMENTI.
MA QUANDO INCAPPO IN UN ARGOMENTO, COME QUESTO, IN CUI NON MI POSSO MISURARE PER MANCANZA E DIFFICOLTA' (PER MANCANZA DI TEMPO: O FACCIO RICERCHE O AGGIORNO IL BLOG, MATTINA E POMERIGGIO FINO ALLE ORE 24 - DDIFFICOLTA' DI REPERIRE LE FONTI, STUDIARLE E POI TENTARE UNA SINTESI, MI RIVOLGO A CHI NE SA ENORMENENTE PIU' DI ME, HO QUESTA FORTUNA CHE ORMANNI E' UNA PERSONA PAZIENTE E UN VERO GENTILUOMO.
SE VAI ALLA CARTELLA SUL MIO BLOG A LUI INTESTATA, TROVERAI DI CHE LEGGERE VERAMENTE.
TI SUGGERISCO UNA LETTURA,A QUESTO LINK:
http://ilgiornalieri.blogspot.com/2009/09/quando-il-falso-e-vero.html
MA ANCHE SUL DELITTO DI VIA POMA HA SCRITTO RECENTISSIMANENTE IN MODO MIRABILE.
PROVA A LEGGERE QUESTO PEZZO STRAORDINARIO DELL'AVV. ALBERTO LIGUORI.
HO IO FATICATO E SOFFERTO UNO SFORZO DI CONCENTRAZIONE ENORME PER RIUSCERE A CAPIRE QUALCOSA CHE NON SARO' MAI CAPACE DI RIPETERE O DI RIASSUMERE.
PER DIRLA CON ALBERTO LIGUORI, MI MANCA IL KNOW HOW.
PERO' LI LEGGO.
TE NE SEGNALO UN ALTRO, A QUESTO LINK:
http://ilgiornalieri.blogspot.com/2009/11/il-filmato-shock-sconvolge-il-mondo-i_03.html
L'IMPORTANTE E' NON ARRENDERSI, MISURARSI CON LA MENTE APERTA A CAPIRE.
SONO SICURO CHE TU LO FARAI.