martedì 3 novembre 2009

L’equivoco sogno degli avvocati


di Bruno Tinti


Il secondo argomento di quelli che sono favorevoli (in buona fede) alla separazione delle carriere è che pm e giudici non possono essere colleghi e magari amici; perché il giudice sarà portato a privilegiare le tesi del pm suo collega più di quelle dell’avvocato.
Questo argomento è un po’ irritante: come se parzialità e favoritismo fossero normali; e fosse normale venir meno al proprio dovere. Ci sarà anche gente così; ma perché pensare che tutti si comportino in questo modo? Una volta un amico medico favorevole alla separazione delle carriere utilizzò questo argomento; e io gli chiesi se lui avrebbe curato con scarso impegno e magari facendogli volontariamente del male una persona con idee politiche diverse dalle sue o anche qualcuno con cui aveva litigato o addirittura un suo nemico, riservando tutta la sua diligenza ad amici e parenti. Non trovò niente di sensato da rispondere, mi disse solo: “Che c’entra, è un’altra cosa!”
In realtà nelle aule giudiziarie succede proprio il contrario di quello che queste persone suppongono: non solo il pm non ha un ascolto privilegiato, ma è trattato in modo molto severo e distaccato. Un po’ perché il giudice sa che questo sospetto aleggia su di lui, e quindi è particolarmente attento a non esporsi ad accuse di parzialità, anche solo da un punto di vista formale (e figuriamoci sostanziale!); un po’ perché, tra colleghi, c’è sempre una forte rivalità professionale: “Sarai mica tu che mi vieni a spiegare quello che devo fare?”
Ma mi rendo conto che questo non è un argomento, è solo una testimonianza. Così propongo questa riflessione: se c’è il pericolo che i giudici favoriscano i pm perché colleghi, allora quante carriere si dovrebbero separare? I giudici di appello, quelli che decidono se confermare o riformare le sentenze emesse dai giudici di tribunale, sono stati, magari fino al giorno prima, giudici di tribunale anche loro. Magari hanno lavorato nella stessa sezione del tribunale che ha emesso la sentenza sottoposta al loro giudizio; magari sono proprio amici dei giudici che l’hanno scritta, ci hanno lavorato fianco a fianco per anni. Che si fa, carriere separate per giudici di tribunale e giudici di appello? E i giudici di cassazione? Anche loro provengono dai tribunali e dalle corti di appello di tutta Italia; magari conoscono benissimo il collega che ha scritto la sentenza che dovranno riformare, rilevando (che è una cosa seccante per un giudice) errori di diritto. Che si fa? Carriere separate anche per i giudici della cassazione? E i giudici di tribunale che assolvono l’imputato che il gip ha rinviato a giudizio? Forse, fino a una settimana prima hanno lavorato anche loro nell’ufficio del gip, nella stanza a fianco di quello che stanno sconfessando. Carriere separate? Naturalmente no, nessuno ci ha mai nemmeno pensato.
E gli avvocati? Perché gli avvocati ci tengono tanto alla separazione delle carriere? Il fatto è che esiste un problema oggettivo che non sanno come risolvere: non riescono a sottrarsi alla loro natura di uomini di parte, chiamati a sostenere sempre e solo quello che giova al cliente. Potete anche solo immaginare un avvocato che chiede la condanna del suo cliente perché ha scoperto che è colpevole? Naturalmente no. Allora è fatale che le argomentazioni di un avvocato che difende (in maniera processualmente e deontologicamente corretta) un imputato e che ha un solo obiettivo (legittimo costituzionalmente), l’assoluzione o almeno una sentenza la meno afflittiva possibile, siano condizionate da questa esigenza. Mentre quelle del pm, che non ha interesse all’esito del processo, rispecchiano la sua imparziale valutazione dei fatti. Naturalmente entrambe le argomentazioni possono essere sbagliate o giuste e il giudice sta lì per valutarle; però è ovvio che chi ha un interesse personale si trovi un po’ svantaggiato di fronte a chi non ha padroni da compiacere.
Allora succede che, non potendo diventare anche loro imparziali perché è contrario alla natura del compito che (costituzionalmente) sono chiamati a svolgere, gli avvocati tentano l’unica mossa che li possa mettere sullo stesso piano di credibilità ed affidabilità (a questo punto relative) dei pm: ridurre il pm al loro livello; avvocati anche loro, dunque in una posizione partigiana; avvocati dell’accusa. E così, se il pm diventa anche lui uomo di parte, la parità tra accusa e difesa è finalmente raggiunta.
Eccolo il sogno degli avvocati, la parità tra accusa e difesa. E anche qui si nasconde l’equivoco.
É assolutamente vero che pm e difesa debbono essere su un piano di parità processuale. Questo vuol dire che debbono poter rappresentare al giudice le loro tesi nello stesso contesto e con le stesse modalità (in realtà gli avvocati sono favoriti: sono tanti mentre il pm è solo; e, quasi sempre, non debbono costruire una tesi difensiva, basta che smontino quella del pm, se accusatoria); e poi vuol dire che debbono avere le stesse possibilità e gli stessi mezzi per ricercare le prove a sostegno della loro tesi (ma qui il discorso si fa complicato perché l’imputato povero non avrà mai gli stessi mezzi del pubblico ministero; e quello ricco ne ha di più. É la vita ….). Ma si tratta appunto di parità tecnica, processuale; non di parità ontologica, attinente al ruolo che svolgono. La Procura della Repubblica si chiama così perché rappresenta un interesse pubblico; l’avvocato difensore, c’è poco da fare, rappresenta un interesse privato.
Quindi anche questo argomento a sostegno della separazione delle carriere è infondato. Così la domanda è sempre la stessa: perché Berlusconi e i suoi esecutori vogliono separare le carriere di pm e giudici?

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