La prossima uscita nelle sale cinematografiche di un film ispirato al terrorista e assassino Sergio Segio impone una riflessione (per chi non vive di "grandifratelli" e "porteaporte")
Pubblichiamo un articolo del nostro collaboratore – e amico di battaglie di verità e giustizia – Alberto Liguoro, avvocato a Milano, ex magistrato del pubblico ministero, preceduto da una sua lettera. Ci sono tre ragioni per le quali pubblichiamo anche la lettera, che era indirizzata al direttore. La prima è nell’autorizzazione dell’autore: da giornalisti – superstiti – riteniamo che il rispetto dei sentimenti sia condizione per raccontare la realtà, e non il contrario. In secondo luogo perché serve a capire meglio e più a fondo l’articolo che segue. Infine perché condividiamo parola per parola la riflessione di Alberto sul film di prossima uscita ispirato all’assassino e terrorista Sergio Segio.
A beneficio di chi volesse querelare, precisiamo che la definizione di “assassino” non è contenuta nello scritto di Alberto Liguoro. Dunque la querela spetta al direttore. E per chiarezza, per evitare che si possa fraintendere ripeto la definizione: assassino. Sono stanco dell’ipocrisia linguistica dell’italietta sempre pronta a offendersi di fronte alla verità e incapace di rinunciare a difendere i propri torti.
L’abietto assassino Sergio Segio, ora libero perché “pentito”, ha naturalmente tutto il diritto, anzi direi il dovere, di reinserirsi nella società: la pena deve tendere sempre alla rieducazione. Lo dice la Costituzione e noi siamo accesi sostenitori della Costituzione. Farei inoltre torto al mio editore, la Fondazione Paolo di Tarso, se negassi altresì il diritto di chiunque, a maggior ragione di un assassino, a ritrovare una nuova vita all’interno della sua stessa vita. Una cosa però è ritornare al tavolo della vita e della civiltà in punta di piedi, consapevoli di aver sbagliato e convinti – almeno nella volontà – di non farlo più. Altro conto è scrivere la propria storia, prestarla a produttori-speculatori del botteghino strizzando l’occhio al fascino perverso del male approfittando di un pubblico ormai rincoglionito da grandifratelli, porteaporte, giochiapremi e annizeri.
Non è di Baudelaire che stiamo parlando, ma di un assassino (repetita iuvant). Gli assassini possono ravvedersi, ma questo non trasforma le nefandezze in “gesta”.
Lungi da me, anche, negare all’arte (e il cinema e la narrativa sono arti) il diritto di raccontare ciò che vuole: ci mancherebbe. Sono uno dei 25 giornalisti che paga quotidianamente la propria scelta di libertà e verità.
Ma c’è modo e modo: indulgere al “tenebroso” raccontando di un assassino è come se la fiction sul mostro di Firenze recentemente prodotta dal canale satellitare Fox Crime ammiccasse, alla Dario Argento, al genere “splatter” condito di esoterismo alla pummarola.
Pubblichiamo un articolo del nostro collaboratore – e amico di battaglie di verità e giustizia – Alberto Liguoro, avvocato a Milano, ex magistrato del pubblico ministero, preceduto da una sua lettera. Ci sono tre ragioni per le quali pubblichiamo anche la lettera, che era indirizzata al direttore. La prima è nell’autorizzazione dell’autore: da giornalisti – superstiti – riteniamo che il rispetto dei sentimenti sia condizione per raccontare la realtà, e non il contrario. In secondo luogo perché serve a capire meglio e più a fondo l’articolo che segue. Infine perché condividiamo parola per parola la riflessione di Alberto sul film di prossima uscita ispirato all’assassino e terrorista Sergio Segio.
A beneficio di chi volesse querelare, precisiamo che la definizione di “assassino” non è contenuta nello scritto di Alberto Liguoro. Dunque la querela spetta al direttore. E per chiarezza, per evitare che si possa fraintendere ripeto la definizione: assassino. Sono stanco dell’ipocrisia linguistica dell’italietta sempre pronta a offendersi di fronte alla verità e incapace di rinunciare a difendere i propri torti.
L’abietto assassino Sergio Segio, ora libero perché “pentito”, ha naturalmente tutto il diritto, anzi direi il dovere, di reinserirsi nella società: la pena deve tendere sempre alla rieducazione. Lo dice la Costituzione e noi siamo accesi sostenitori della Costituzione. Farei inoltre torto al mio editore, la Fondazione Paolo di Tarso, se negassi altresì il diritto di chiunque, a maggior ragione di un assassino, a ritrovare una nuova vita all’interno della sua stessa vita. Una cosa però è ritornare al tavolo della vita e della civiltà in punta di piedi, consapevoli di aver sbagliato e convinti – almeno nella volontà – di non farlo più. Altro conto è scrivere la propria storia, prestarla a produttori-speculatori del botteghino strizzando l’occhio al fascino perverso del male approfittando di un pubblico ormai rincoglionito da grandifratelli, porteaporte, giochiapremi e annizeri.
Non è di Baudelaire che stiamo parlando, ma di un assassino (repetita iuvant). Gli assassini possono ravvedersi, ma questo non trasforma le nefandezze in “gesta”.
Lungi da me, anche, negare all’arte (e il cinema e la narrativa sono arti) il diritto di raccontare ciò che vuole: ci mancherebbe. Sono uno dei 25 giornalisti che paga quotidianamente la propria scelta di libertà e verità.
Ma c’è modo e modo: indulgere al “tenebroso” raccontando di un assassino è come se la fiction sul mostro di Firenze recentemente prodotta dal canale satellitare Fox Crime ammiccasse, alla Dario Argento, al genere “splatter” condito di esoterismo alla pummarola.
Roberto Ormanni
di Alberto Liguoro
In quest’Italia dai mille volti sbuca fuori, in questi giorni, il film LA PRIMA LINEA su (alcune delle) bravate di Sergio Segio che, scampato ad una ben più triste sorte che gli avrebbe riservato un qualsiasi altro Paese civile, può qui, ora, pentirsi, scrivere guadagnando, inserirsi a buon diritto nel contesto sociale e niente niente passare alla storia, mentre le sue vittime dirette si sono viste privare rapidamente della propria vita, le indirette, i familiari sono rimasti increduli, bloccati, in preda al dolore e a notevoli pesi esistenziali da trascinare.
Che bel Paese è questo!
Viene fuori il film, dicevo, suscitando varie polemiche, ricavandone peraltro enorme pubblicità, del quale mi astengo dal parlare. Se ne potrà discutere se del caso, dopo averlo visto con particolare attenzione; sembrerebbe trascinarsi un po’, il che è peggiorativo perché vuol dire che si è puntato cinicamente tutto sull’effetto.
Dirò solo che è abbastanza singolare che si delinei a tutto tondo la figura del bel tenebroso, idealista maledetto nonché eroticamente spregiudicato, così come la sua compagna (e qui mi meraviglio non poco e sono deluso della disponibilità a girare per girare - ma la pagnotta è pagnotta - della attrice italiana da me più adorata), laddove a tutt’oggi resta ancora irrisolto il cruciale e, oserei dire, assorbente problema dei mandanti.
Tutto ciò con denaro pubblico in quanto film di interesse culturale nazionale, così come con denaro pubblico era pagato chi a suo tempo avvertì il padre di Marco Donat-Cattin, collega di caffè parlamentari, che quest’ultimo si era messo nei guai e quindi era il caso che sparisse dalla circolazione per un po’.
Quale aggettivo può rendere l’idea più di “singolare”? Vergognoso? Scandaloso? Forse è sempre poco.
Ti scrivo con un certo turbamento che avrai colto, perché ero amico di Emilio Alessandrini e ancora oggi sono amiche le nostre famiglie e un particolare affetto mi lega a Marco, ma non solo per questo.
Devo dirti che tempo fa inviai a Marco (il figlio di Emilio Alessandrini, NdD), sollecitato da discorsi in atto con comuni amici, un mio scritto dal titolo KNOW HOW, per chiarire il senso di quanto segue.
Mi domando: è giusto che abbia risalto, che venga proposta ad ascoltatori e spettatori la storia di chi ha cambiato la vita di altre persone?
Racconteresti mai, epicamente e non con l’intento dell’orrore, le gesta di chi ha ordinato e messo in atto riduzioni in schiavitù per droga o sfruttamento lavorativo o sessuale, stupri, stermini, rapimenti di persone (minori in genere) per tratta di organi o prostituzione? Di chi ha comandato o fatto parte di squadroni della morte, plotoni di esecuzione freddamente calibrati per eseguire rappresaglie, centri di comando e forze di azione per pulizia etnica e così via?
L’azione di questi terroristi non è forse assimilabile a tali situazioni? Altro che sguardi alla Scamarcio e languidi gemiti alla Giovanna.
Chi vuol raccontare una storia sa che cosa vuol dire prendere coscienza di essere diversi dagli altri per essere uguali agli altri?
KNOW HOW
E’ una parola questa che, abbastanza frequentemente, ricorre nel linguaggio della mia attività professionale di avvocato in una città industriale come Milano.
Know how, sapere come. I know how, io so come. Ho il know how, la tecnologia, l’esperienza.
L’altro giorno, trovandomi a colazione con il mio amico Ennio Di Francesco, e trovandomi a parlare, con lui, in modo fitto e attento di varie cose, in particolare del nostro giovane amico Marco Alessandrini e del nostro vecchio amico Emilio Alessandrini, suo padre, morto per un atto di terrorismo troppo noto perché debba ripercorrerlo qui, allorché Marco, oggi trentasettenne, aveva circa otto anni, ho scoperto un nuovo senso, una nuova connotazione del termine know how.
E’ come trovarsi, in un laboratorio, sotto la lente del microscopio, inaspettatamente, un nuovo batterio, e quindi voglio qui parlarne, indotto da Ennio che, in modo pressante, per i motivi che più avanti dirò, insisteva affinché io lo facessi.
Devo premettere, ancora, che c’è una forte attinenza tra il know how (probabilmente in modo speciale per quanto riguarda quello inteso come appresso si chiarirà) e l’Io, l’Ego.
I know how, dicevo; io ho il know how; io so, io conosco, j care, io credo, io capisco, io voglio e così via.
Ma parliamo qui di un “io” non egocentrico, o egoistico, ma che ha una spiccata proiezione verso l’esterno.
Non può parlarsi di un io “sociale”, almeno nel senso diretto del termine: “Io quale eletto, o candidato alle elezioni politiche, io quale dirigente di un ufficio di pubblica utilità o interesse, quale presidente di una associazione benefica o fondazione ecc. prometto che opererò nel seguente modo, secondo il seguente programma e così via”.
Non è a questo che mi riferisco; piuttosto ad un io “generale” che solo indirettamente ha riguardo al sociale, nel senso che si auspica, si opera, si formulano istanze di modo che la Società, resa edotta dell’esistenza di quell’io “generale”, di quel know how di cui di qui a poco dirò, faccia tutto quello che può non già per espanderlo, rinforzarlo, esaltarlo, come da più segni sembrerebbe oggi accadere, ma per comprimerlo al massimo, ridurlo, nei sogni, nelle speranze, nelle utopie, forse, quasi ad un NULLA.
E’ giunto il momento di venire al “dunque”.
Io ho questo know how.
Ma di quale know how parliamo?
Bisogna fare un salto indietro nel tempo di molti anni:
11 settembre 1943
Nola – Quartiere dell’Esercito Italiano, affiancato fino a pochi giorni prima dall’Esercito Tedesco.
Situazione incerta, tesa, i Tedeschi considerano ormai nemici gli Italiani.
Ci sono forse primi spunti di Resistenza; viene ucciso un soldato tedesco.
Tafferugli, baraonda, ordini contraddittori, probabilmente, ed ordini diversi, ben precisi, per i Tedeschi.
Con uno stratagemma questi ultimi disarmano il contingente italiano.
L’ordine è 10 italiani da fucilare per 1 tedesco.
Scelgono gli ufficiali, partendo dal grado più alto.
Un soldato italiano viene ucciso per aver tentato di opporsi.
C’è un ufficiale che si sacrifica al posto di un altro, straziato dal dolore di quest’ultimo.
Alla fine vengono giustiziati 10 ufficiali, tra cui mio padre.
Il resto della truppa viene disperso.
Pochi giorni dopo, la notizia giunge in modo improvviso e dirompente a mia madre, incinta.
Grande, insopportabile dolore di morte solo da rinviare.
Dopo qualche mese nasco, in condizioni estreme, mia madre muore da lì a poco non senza avermi prima dato lo stesso nome di mio padre.
Vengo nutrito da una brava donna di S.Marco dei Cavoti, il piccolo paese dove sono nato, contemporaneamente, più o meno, alla mia “sorellina di latte”, allevato per i primi 3 anni da una generosa famiglia, successivamente via da lì, Maddaloni, adottato dai genitori più affettuosi di questo Mondo, ormai anch’essi morti.
Questo è il mio know how, anzi il “nostro” know how, caro Marco, mi rivolgo a te, avendo anche tu perso tuo padre, ancora bambino, in condizioni del tutto particolari, e non siamo gli unici.
Noi abbiamo il know how di essere figli di eroi per caso.
Devo avvicinarmi di più al punto in questione:
Oltre che di vecchiaia, si può morire giovani per tanti motivi, come è noto: un incidente stradale più o meno grave e prevedibile, una malattia più o meno rapida e inattesa, un viaggio e i relativi incidenti o imprevisti, un incidente sul lavoro, in una miniera, la guerra, perché no? Il Mondo è sempre stato pieno di guerre, tanto per menzionarne alcuni; oppure si può essere particolarmente esposti e predisposti ai rischi: esistono gli agenti segreti, gli esploratori, i mercenari ecc.
Che cosa accade a chi rimane in vita?
Mi riferisco ai figli giovani e, in modo più specifico, a chi è molto giovane; ma, con le dovute caratterizzazioni e differenze riguarda anche gli altri familiari, e persone particolarmente vicine sopravvissute (ecco… la morte di un figlio, di un discendente, merita un discorso a parte, questo è – deve essere – un altro know how che qui non affrontiamo).
Qui il passaggio è delicato e merita attenzione e maturità di giudizio: Tutti soffrono allo stesso modo. Non c’è differenza nella sofferenza; quello che Totò diceva a proposito della morte, vale anche per la sofferenza; un po’ di sgomento in più per lo stupore, la rabbia, in condizioni particolari, stento a credere che costituisca una vera e propria differenza.
E allora quale è la differenza, il know how, per chi è figlio di un “eroe per caso” (ma non solo come vedremo), vittima di un atto di terrorismo, di una rappresaglia, di una esecuzione della criminalità organizzata, per fare alcuni esempi?
Che cosa ci si può attendere dalla vita, con la luce degli occhi?
Nessuna certezza, solo imprevisti e comunque ci si atteggi rispetto ad essa.
Peggio, forse se si sta particolarmente attenti a non mettere piede fuori di casa per evitare di scivolare su una buccia di banana o che una tegola cada sulla testa.
Quindi, oltre a quanto di buono ci dà la vita, perché altrimenti nessuno emetterebbe più neanche il primo vagito: incidenti, malattie, guerre, aggressioni, di cui si può essere vittime o figli di vittime. Se si accetta o si desidera il rischio della morte, si accetta anche la morte stessa, o la grave menomazione; i figli, in età idonea, sapranno quale era il relativo contesto.
Puoi aspettarti anche di essere abbandonato, nelle prime settimane di vita, in un parco o vicino ad un portone; si sa, nella vita quotidiana, se ne parla, oltre che nella pubblicità-progresso, nella storia, nelle leggende. Puoi aspettarti (al giorno d’oggi, per la verità un po’, anzi molto, meno) che una donna muoia di parto o, a seguito di complicazioni connesse.
Che cosa, invece, non ci si aspetta? E, come si è visto, a torto o a ragione; fin qui più a torto che a ragione. Ma si deve lottare, si deve fare in modo che sia “a ragione”!
Per dirlo bisogna esserci dentro; bisogna avere il know how; si deve poter dire: “io non mi aspettavo” e, oserei dire, “avevo il diritto” o “avrei dovuto avere il diritto” di non aspettarmi.
Dovrei avere il diritto di non aspettarmi.
Non ci si aspetta di finire davanti ad un plotone di esecuzione, non per aver commesso qualcosa di male, o in quanto vittima di un errore giudiziario, o di truci leggi di un paese straniero nel quale ci si trovi, ma perché qualcuno ha deciso così in modo imperscrutabile: Uomo divenuto Dio.
Non ci si aspetta di venire ucciso per strada, non per rapina, per vendetta, per scontro armato, ma perché col tuo stile di vita, la tua serenità, fiducia nelle umane possibilità, dai fastidio, trasmetti un ottimismo contagioso.
Non ci si aspetta di saltare per aria, non perché ci si trova in zona di operazioni militari, si fa parte di un commando, di uno schieramento esposto ad attacchi nemici, ma per dare un monito, affermare una superiorità verso i cittadini, scongiurando, semmai, contestazioni o ribellioni.
Non ci si aspetta di essere in altre analoghe situazioni.
Conseguentemente non ci si aspetta di essere figli delle vittime dei suddetti efferati atti criminali.
Che cosa cambia?
Ti cambia la vita caro Marco.
Tuo padre, che io ben conoscevo, mai più pensava di “passare alla storia”, mai più pensava di dare un significativo contributo al potenziamento della vita democratica in questo Paese; lui pensava di passare belle vacanze con gli amici, serate allegre, avere le gioie della famiglia, vederti crescere, giocare con te, e tante altre cose. Invece: commemorazioni, ricorrenze, intitolazioni e così via.
Conseguentemente è cambiata la tua vita, in tutti sensi: tanto per cominciare probabilmente oggi saresti un rompiscatole milanese anziché un valente e un po’ annoiato pescarese, e tutte le altre cose che puoi immaginare e che, comunque, fanno parte del tuo stretto privato.
Mio padre non mirava a guadagnarsi una medaglia conquistando una base nemica, non era votato all’amor di Patria; era ingegnere, amava dipingere, scolpire e sognava, probabilmente, tranquille domeniche di picnic, con me, mia madre (non parliamo qui della morte di lei, se non per sottolineare l’evidente collegamento con la morte di mio padre; anche questo è un capitolo a parte). Ci sono, poi stati cerimoniali e riconoscimenti ai quali ho partecipato, e ancora oggi, sia pure con la patina che inesorabilmente il tempo stende, partecipo, con un diverso cognome, gravato da una certa inquietudine, da giovane, poi uomo di legge campano; laddove, probabilmente non avrei mai partecipato a nessun memoriale, da torinese, forse un po’ snob, e tutto il resto che fa parte del mio stretto privato.
Io e te forse non ci saremmo mai conosciuti, ma non ce ne saremmo accorti e, almeno di questo, non avremmo sofferto.
Attenzione la vita cambia anche per gli altri! Per i figli dei morti rientranti nella “normalità” dell’esistenza, diciamo così, però… però… però… c’è un grande PERO’.
Nei nostri cambiamenti, caro Marco, te lo leggo addosso, me lo leggo addosso, C’E’ UNA PERVERSIONE; qualcosa di più, qualcosa di diverso, che ci ha accompagnato e, probabilmente, ci accompagnerà per tutta la vita; qualcosa di indefinibile, per questo parlavo di un nuovo batterio osservato al microscopio.
E’ qualcosa che ci fa essere diversi, ci rende più sensibili, ci espone di più alle tempeste che ci circondano, ma ce le fa anche capire di più.
Una sensibilità, questa, che può manifestarsi in vari modi; nel mio caso, ad esempio, c’è quel forte senso di distacco ricorrente dalle persone care, dalle cose, dai luoghi cari, i tempi lieti, e con forte accentuazione, via via che il tempo passa; una sensazione di vuoto improvviso, quel precipitare da un grattacielo, che è come se mi attanagliasse il cuore, accelerandone i battiti. Qualcosa che fa male, ma c’è anche una ricerca di essa; un vano istinto, potrebbe dirsi, di andare a cercare a ritroso il tempo e il distacco, fino a quel suo iniziale manifestarsi; un caparbio, irrazionale, ricominciare sempre da capo, un bisogno di sostituire la realtà con una finzione: la speranza che, ricominciando da capo, vada tutto bene.
Non ti parlo di quel contare il tempo per poi subito dimenticarsene che tu ancora non conosci, per legge di natura, che è qualcosa di diverso, potenzialmente di tutti, essendo di tutti il proustiano “tempo perduto”; una abitudine o, meglio, una mania incalzante, quanto più si accavallano le stagioni, che sa anche di rimpianto. Così è vedere la gioventù che sempre più si allontana. Un altro distacco, qualcosa di diverso, come dicevo, o forse la stessa cosa con una motivazione, un’impronta diversa; nel nostro caso, quando sarà lo vedrai, c’è un po’ anche di quella rimasta impressa o, comunque, risalente proprio a quello che immagini, a quello di cui stiamo parlando.
E’ il nostro know how, e di quelli come noi, ma non solo, ad un più attento esame.
E’ con tutta probabilità il know how, non solo dei figli degli ”eroi per caso”, ma di tutti coloro che sono orfani di persone, semmai semisconosciute o del tutto sconosciute, che nessuno mai ricorderà o commemorerà, ma che sono morte in condizioni assolutamente ed estremamente abnormi.
Penso al figlio di una persona che la mattina prende il treno per andare a lavorare; si può temere che muoia in un incidente ferroviario, che muoia attraversando la strada, che gli venga improvvisamente un infarto, che sia vittima di un infortunio sul lavoro. Ma si può temere che qualcuno metta una bomba sul treno, così, a scopo dimostrativo, provocando decine se non centinaia di morti, tra cui quella persona?
Si può morire per mano di un vicino di casa solo perché si tiene la radio troppo alta? Per mano di un depravato, catturato e poi rilasciato per scadenza termini (pigrizia, iattanza, assoluta strafottenza, come in altri casi, in definitiva equiparabili, di morti, ad es. in ospedale, sul posto di lavoro, ecc.) mentre si sta tranquillamente in un campo a coltivare, in una giornata di sole, o seduti in giardino, sotto un patio a leggere un libro, a passeggio in un viottolo di campagna e così via?
Al di fuori di un incubo o un sortilegio che riporti indietro l’Umanità, nella barbarie di tempi remoti, si può accettare senza sentirsi sanguinare il cuore e scoppiare il cervello, di essere in una nuova, originale, fantasiosa barbarie che prevede migliaia e migliaia di morti nei forni crematori o scaraventati in profonde fenditure di altipiani, per prendersi il gusto di “togliere” una razza, un’etnia, dalla faccia della Terra, o “depurare” un fazzoletto di Terra da una tradizione, un linguaggio, un gruppo omogeneo, e quindi considerare l’eventualità di essere tra le vittime? O che prevede la sparizione definitiva di centinaia di persone, semplicemente perché pensano ed, essendo per sua natura libero il pensiero, si trovano occasionalmente a pensare in modo diverso, inaccettabile per chi “decide il modo di pensare”?
Ecco: un buon parametro può essere, emblematicamente, quello delle “morti inutili”.
Morire per nulla. Questo non deve essere. Questo non può essere.
Si può dire, in senso convenzionale, che esiste in proposito un confine ideale, al di sopra del quale i figli (o altre persone care, come detto) dei morti, riescono, prima o poi, in qualche modo a farsi una ragione dell’accaduto. Al di sotto di esso, invece, c’è la particolarità, la “perversione”, di cui si è detto e si può comprendere, ma non si riesce mai a farsi una ragione del cambiamento della propria vita. Si può solo portare l’accaduto nel proprio animo, come una componente, una caratteristica spirituale, come, nell’assetto fisico, avere i capelli biondi o scuri, essere alti o bassi, robusti o magri.
Il fissare l’attenzione sul CAMBIAMENTO, questa è l’essenza della perversione.
Andando oltre si può addirittura ipotizzare che, nell’originaria vita, se non ci fosse stato alcun cambiamento, magari, per vicissitudini varie, si sarebbe già morti, o si sarebbero patite gravi sofferenze, problemi o diminuzioni. Si dovrebbe, forse, per questo essere lieti e grati del cambiamento? No, c’è poco da fare, in ogni caso era quella la nostra vita originaria. Non se ne deve neanche parlare per il comune senso del pudore, della decenza e, in definitiva per il buon senso delle cose. Questa sarebbe una perversione nella perversione che non aiuterebbe, ma ancora di più punirebbe noi portatori del know how e chi ritiene che sia giusto e un arricchimento della vita e della coscienza sociale, starci a sentire, cercare di comprenderci.
Ora che noi orfani di padre o di madre, o di ambedue, abbiamo definito questo know how, abbiamo constatato come siamo bravi a portarci dentro una vita non vissuta, accanto a quella vissuta, come siamo, indubbiamente proprio per questo, sensibili, anzi sottilmente, profondamente sensibili, e come tutto questo si sostanzi in una tenacia, una persistenza che non può che definirsi “perversione”, nel rivedere sempre i nostri momenti, fare lo spelling delle possibilità, alternative, potenzialità, virtualità, ripercorrerle incessantemente, febbrilmente con le perplessità e gli interrogativi che affiorano muti, inespressi, senza risposte, dentro le nostre menti, il tutto in dipendenza delle modalità della morte dei nostri genitori, alle quali, in una remota dimensione interiore, più o meno costantemente e caparbiamente pensiamo e ripensiamo, senza potercene distaccare mai; ora che abbiamo visto come è che non ci possiamo passare e, contemporaneamente, non ne possiamo fare a meno; che NON POSSIAMO DIMENTICARE per definizione, mettendoci anche la particolare sottolineatura delle MORTI INUTILI, facciamo una scoperta: Nella categoria dei know how questo è, forse, l’unico che non serve a nulla. E’, a sua volta, INUTILE.
E’ triste questo? No, è semplicemente un dato di fatto.
Mi spiego meglio.
Il know how, lo sfruttamento dell’esperienza, la tecnologia, serve (in genere, per la verità, non proprio sempre) a produrre qualcosa di nuovo o di maggiore definizione, a vendere meglio ecc. il nostro know how, invece, per sua natura non serve assolutamente a nulla; non fa vendere e non fa produrre nulla.
Ma occorre una precisazione.
Esso serve a noi, caro Marco, a comprendere che cosa abbiamo dentro, e solo dopo averlo capito, solo allora, noi abbiamo inquadrato, ingoiato, assorbito senza condizioni, quella differenza che ci portiamo dentro; e questa comprensione, questa COSCIENZA, ci fa essere uguali agli altri.
Facci caso: noi non solo siamo diversi, ma siamo considerati “diversi” dagli altri.
Immaginati questa scena, in ambito di simulazione (ma non troppo) del vero: tu arrivi, magari sei adolescente, se non appena bambino uscito dalla prima infanzia, e tutti bisbigliano qualcosa tra loro che al tuo arrivo svanisce. Anche se non è vero, chi ti toglie dalla testa che stanno parlando di te, della sciagura a te capitata? Questa è la tua diversità che non puoi fronteggiare.
Ma se sai, se hai capito (purtroppo ahimé, in genere sei, a questo punto, ormai adulto) non ci fai neanche caso, o magari sei in grado di dire la tua, raccontare tu stesso la tua storia.
Se ciò accade (come spesso è per motivi collegati ai tempi della crescita) quando sei adulto, non esito a dire che puoi recuperare e dare una connotazione ed un tono, addirittura alla tua trascorsa infanzia (ti parla uno che solo tardissimo si è sentito di parlare liberamente e apertamente della propria storia, e forse, ancora oggi ha delle remore, delle paure di essere frainteso, che si possa credere che, in qualche modo, voglia farsene un vanto o una bandiera, se non un biglietto di presentazione per qualche vantaggio sociale o professionale). In ogni caso non è mai troppo tardi per riallacciare i fili con se stesso, per sentirsi uguale, come è giusto che sia, in quanto corrispondente alla realtà dei fatti, agli altri.
Nell’esempio di prima ti troveresti nelle stesse condizioni di qualsiasi tuo coetaneo che si trovasse in quel contesto, dove oggetto della curiosità o dell’attenzione sono i riferimenti di tutti: lo studio, le ragazze o i ragazzi, il lavoro, il rapporto con gli altri, più giovani, più anziani, magari professori, persone dotate di autorità ecc.
Questo ti rende uguale, non essendoci nulla di diverso nel parlare di quella che è una tua peculiarità, ma da te resa evidente, portata alla luce del sole: l’essere tu orfano di un “eroe per caso”.
Conoscere bene la nostra differenza ci fa essere uguale agli altri.
Ecco a che cosa serve il nostro know how; e, in questa chiave, ha anche una funzione sociale, come vedi.
Che cosa crea la diversità immotivata, oscura, irrisolta, se non scompensi, scontento, disagio diffuso?
A questo punto ti lascio, caro Marco, non ho da dirti altro. Non c’era nulla di didattico o di imbonitorio in quello che ti ho detto, ma semplicemente di spontaneo; come sai, non ho mai voluto, in qualche modo, fare della mia figura un simulacro di quella di tuo padre, perché penso che bisogna vivere senza trucchi o mezzi trucchi, e non intendo iniziare adesso. Quindi ci lasciamo così con l’affetto di sempre, l’affetto degli amici, ma attenzione: cari, carissimi amici.
Riprendo il mio discorso con te, caro Ennio per dirti varie cose… mi si affolla la mente, ma, come da buona regola antica, che sia una cosa alla volta.
Questo mio scritto, derivato direttamente dal nostro ultimo incontro e da altri incontri personali, epistolari, telefonici, con te e Marco, è la prova provata di quanto spesso si afferma con decisione, ma si trova poi difficoltà ad esemplificare, e cioè che stando da soli su un’isola deserta, con tutto il tempo che si vuole a disposizione, non si riesce a far affiorare nulla nella mente, che valga poi la pena di tradurre in scritto; mentre invece stando con gli altri, confrontandosi, dialogando, rimescolando e rivangando i concetti, le idee, le riflessioni, pur con il tempo a spezzoni, stracciato, tiranno e risicato, si riempie da solo il foglio bianco.
Esso non è, quindi, solo opera mia, ma anche tua e di Marco in modo particolare, e di altri ancora, anche inconsciamente, anche se vengono dimenticati, ma conservati in piccole particelle del proprio essere.
Come vedi ho colto il tuo suggerimento e il tuo invito, fattomi quando hai ascoltato la mia storia, ma non posso andare oltre. Tu premevi per qualcosa di più, poi ho capito perché. Hai ragione, non lo nascondo, però, scusami ed abbi pazienza, devo fare il mio percorso, perché lo sento come qualcosa di irrazionale e irresistibile, di metafisico quasi, dettato dai morti.
La realtà, però, forse è un’altra, alla quale, più o meno inconsciamente, ancora sfuggo.
Tu sai che io scrivo romanzi, poesie, ma non ho mai potuto, e con tutta probabilità, mai potrò scrivere compiutamente della morte dei miei genitori naturali e della mia infanzia perché per mio carattere, forse per mia limitatezza, mi manca il necessario distacco (neanche della morte di un figlio o di un nipote, per la verità, sarei capace di scrivere; ci ho provato, anzi non ci ho neanche provato, essendomi sempre fermato al primo rigo. Credo che sarà sempre così. Possono esserci più tabù in una sola vita). Ne ho anche parlato in un pubblico consesso in occasione della presentazione di un libro di una scrittrice che ha avuto, invece, la forza d’animo di addentrarsi in tali argomenti.
Il mio modo di scrivere, che nel mio particolare caso è, poi, come dire “la mia vita” (un po’ magistrato, un po’ avvocato, giornalista, romanziere, poeta, lasciando stare l’ambito strettamente privato), dove da una parte mi soffermo, mi dilungo, approfondisco, e da un’altra parte vado di fretta, appaio sfuggente e restio è questo e, con tutta probabilità lo sarà per sempre: un tutt’uno in cui si mescolano determinismo e libero arbitrio, alcuni errori, il rifiuto che portavo dentro di me nel passato, e, probabilmente, la fuga da esso.
Quindi, anche dopo le cose chi ci siamo detti, le tue parole, solo in questi termini posso parlare di tutto quanto sopra (ho scritto, a dire il vero, sporadicamente qualcosa, ma poche cose, voglio qui fare cenno, in particolare, ad una poesia indirettamente dedicata anche a mio padre, un’altra poesia dedicata direttamente a mia madre, peraltro in modo alquanto sfumato, e poco di più).
Fuggo e probabilmente fuggirò sempre? Può darsi. Vedi come tutto quello che s’è detto mi ha cambiato la vita? E come, c’è da credere, l’ha cambiata a Marco e ad altri, più di quanto ci si accorge o di quanto essi stessi si accorgano.
Se non del tutto inevitabile, questo è solo in parte evitabile. Ma si può certo capire, conoscere, interpretare, e quindi, portarsi dentro un bagaglio, o meglio scartabellare, mettere in ordine, guardare che cosa contiene il bagaglio che si ha dentro, una caratteristica dell’animo, come dicevo.
Questa è la “nostra” storia. E in questo senso io, paradossalmente, mi sento più vicino a Marco che non ad Emilio, fin dai primissimi tempi, quando iniziai a raccontare storie immaginarie, per distrarlo da quella dirompente e tragica sciagura, poi durate anni, nelle quali, forse neanche me ne rendevo conto, noi vivevamo come se si trattasse di vita reale.
Noi siamo il nuovo cinema Paradiso della Morte, che, a differenza della Vita, che principia sempre dall’anno zero e allinea le età, e le stagioni in ogni età, non ha inizio né fine, non ha età né stagioni, né differenza alcuna di sesso, razza, religione, latitudine, cultura, potere, ricchezza.
Lo vedo bene ora che ho 64 anni, o forse già qualche anno fa; ma se avessi capito che volevano dire quando, da ragazzo, mi dicevano “sei saggio come un vecchio”! Allora ero ragazzo e, probabilmente mi avrebbe fatto bene, forse, ulteriormente, mi avrebbe cambiato la vita ristabilendo l’equilibrio, forse non sarebbe accaduto nulla, o forse sì. L’ignorante, nel senso di chi ignora, non potrà saperlo mai; chi invece cerca di sapere, si adopera per sapere, almeno qualcosa sì. Tutto questo è, certo, più di una piccola differenza.
Ed è proprio per questo, caro Ennio, che ora mi rivolgo a te che sei sempre stato molto vicino a tutto quanto sopra, e non solo con quello che scrivi o dici, ma col tuo operato, il tuo lavoro, il tuo impegno. Quale uomo di lettere, ti sarai certamente accorto che tutto è scritto praticamente di getto, in tempo breve e senza alcun corposo e approfondito ampliamento, e non può essere altrimenti.
Ma io ho capito, non sono un ignorante qui, ho capito perché così insistentemente mi inducevi a parlare, in modo ampio e compiuto, della mia storia. Era per aiutarmi a trovare il coraggio di scriverne e così uscirne, non fuggire da essa e, quindi, non uscirne mai. Un atto di bontà d’animo e di affetto il tuo. Hai probabilmente notato la mia apertura e schiettezza, pur nell’odissea della vita che a volte, come nel nostro caso, separa in modo abissale, per poi riunire in modo imprevedibile e incontrollabile. Un segno, forse, della Divinità.
Finisce, dunque, qui, questo mio scritto, con un “grazie” a te, per quello che mi hai comunicato; grazie Ennio, anche della partecipazione e dell’attenzione con cui mi hai ascoltato (e che desidererai mettere nel leggere).
Finisce qui, questo mio scritto, così, mentre intorno è tutto fermo, non si muove una foglia, la natura sembra bloccata in un pomeriggio immobile. Si sente solo lo scandire i secondi di un orologio da tavolo.
Che bel Paese è questo!
Viene fuori il film, dicevo, suscitando varie polemiche, ricavandone peraltro enorme pubblicità, del quale mi astengo dal parlare. Se ne potrà discutere se del caso, dopo averlo visto con particolare attenzione; sembrerebbe trascinarsi un po’, il che è peggiorativo perché vuol dire che si è puntato cinicamente tutto sull’effetto.
Dirò solo che è abbastanza singolare che si delinei a tutto tondo la figura del bel tenebroso, idealista maledetto nonché eroticamente spregiudicato, così come la sua compagna (e qui mi meraviglio non poco e sono deluso della disponibilità a girare per girare - ma la pagnotta è pagnotta - della attrice italiana da me più adorata), laddove a tutt’oggi resta ancora irrisolto il cruciale e, oserei dire, assorbente problema dei mandanti.
Tutto ciò con denaro pubblico in quanto film di interesse culturale nazionale, così come con denaro pubblico era pagato chi a suo tempo avvertì il padre di Marco Donat-Cattin, collega di caffè parlamentari, che quest’ultimo si era messo nei guai e quindi era il caso che sparisse dalla circolazione per un po’.
Quale aggettivo può rendere l’idea più di “singolare”? Vergognoso? Scandaloso? Forse è sempre poco.
Ti scrivo con un certo turbamento che avrai colto, perché ero amico di Emilio Alessandrini e ancora oggi sono amiche le nostre famiglie e un particolare affetto mi lega a Marco, ma non solo per questo.
Devo dirti che tempo fa inviai a Marco (il figlio di Emilio Alessandrini, NdD), sollecitato da discorsi in atto con comuni amici, un mio scritto dal titolo KNOW HOW, per chiarire il senso di quanto segue.
Mi domando: è giusto che abbia risalto, che venga proposta ad ascoltatori e spettatori la storia di chi ha cambiato la vita di altre persone?
Racconteresti mai, epicamente e non con l’intento dell’orrore, le gesta di chi ha ordinato e messo in atto riduzioni in schiavitù per droga o sfruttamento lavorativo o sessuale, stupri, stermini, rapimenti di persone (minori in genere) per tratta di organi o prostituzione? Di chi ha comandato o fatto parte di squadroni della morte, plotoni di esecuzione freddamente calibrati per eseguire rappresaglie, centri di comando e forze di azione per pulizia etnica e così via?
L’azione di questi terroristi non è forse assimilabile a tali situazioni? Altro che sguardi alla Scamarcio e languidi gemiti alla Giovanna.
Chi vuol raccontare una storia sa che cosa vuol dire prendere coscienza di essere diversi dagli altri per essere uguali agli altri?
KNOW HOW
E’ una parola questa che, abbastanza frequentemente, ricorre nel linguaggio della mia attività professionale di avvocato in una città industriale come Milano.
Know how, sapere come. I know how, io so come. Ho il know how, la tecnologia, l’esperienza.
L’altro giorno, trovandomi a colazione con il mio amico Ennio Di Francesco, e trovandomi a parlare, con lui, in modo fitto e attento di varie cose, in particolare del nostro giovane amico Marco Alessandrini e del nostro vecchio amico Emilio Alessandrini, suo padre, morto per un atto di terrorismo troppo noto perché debba ripercorrerlo qui, allorché Marco, oggi trentasettenne, aveva circa otto anni, ho scoperto un nuovo senso, una nuova connotazione del termine know how.
E’ come trovarsi, in un laboratorio, sotto la lente del microscopio, inaspettatamente, un nuovo batterio, e quindi voglio qui parlarne, indotto da Ennio che, in modo pressante, per i motivi che più avanti dirò, insisteva affinché io lo facessi.
Devo premettere, ancora, che c’è una forte attinenza tra il know how (probabilmente in modo speciale per quanto riguarda quello inteso come appresso si chiarirà) e l’Io, l’Ego.
I know how, dicevo; io ho il know how; io so, io conosco, j care, io credo, io capisco, io voglio e così via.
Ma parliamo qui di un “io” non egocentrico, o egoistico, ma che ha una spiccata proiezione verso l’esterno.
Non può parlarsi di un io “sociale”, almeno nel senso diretto del termine: “Io quale eletto, o candidato alle elezioni politiche, io quale dirigente di un ufficio di pubblica utilità o interesse, quale presidente di una associazione benefica o fondazione ecc. prometto che opererò nel seguente modo, secondo il seguente programma e così via”.
Non è a questo che mi riferisco; piuttosto ad un io “generale” che solo indirettamente ha riguardo al sociale, nel senso che si auspica, si opera, si formulano istanze di modo che la Società, resa edotta dell’esistenza di quell’io “generale”, di quel know how di cui di qui a poco dirò, faccia tutto quello che può non già per espanderlo, rinforzarlo, esaltarlo, come da più segni sembrerebbe oggi accadere, ma per comprimerlo al massimo, ridurlo, nei sogni, nelle speranze, nelle utopie, forse, quasi ad un NULLA.
E’ giunto il momento di venire al “dunque”.
Io ho questo know how.
Ma di quale know how parliamo?
Bisogna fare un salto indietro nel tempo di molti anni:
11 settembre 1943
Nola – Quartiere dell’Esercito Italiano, affiancato fino a pochi giorni prima dall’Esercito Tedesco.
Situazione incerta, tesa, i Tedeschi considerano ormai nemici gli Italiani.
Ci sono forse primi spunti di Resistenza; viene ucciso un soldato tedesco.
Tafferugli, baraonda, ordini contraddittori, probabilmente, ed ordini diversi, ben precisi, per i Tedeschi.
Con uno stratagemma questi ultimi disarmano il contingente italiano.
L’ordine è 10 italiani da fucilare per 1 tedesco.
Scelgono gli ufficiali, partendo dal grado più alto.
Un soldato italiano viene ucciso per aver tentato di opporsi.
C’è un ufficiale che si sacrifica al posto di un altro, straziato dal dolore di quest’ultimo.
Alla fine vengono giustiziati 10 ufficiali, tra cui mio padre.
Il resto della truppa viene disperso.
Pochi giorni dopo, la notizia giunge in modo improvviso e dirompente a mia madre, incinta.
Grande, insopportabile dolore di morte solo da rinviare.
Dopo qualche mese nasco, in condizioni estreme, mia madre muore da lì a poco non senza avermi prima dato lo stesso nome di mio padre.
Vengo nutrito da una brava donna di S.Marco dei Cavoti, il piccolo paese dove sono nato, contemporaneamente, più o meno, alla mia “sorellina di latte”, allevato per i primi 3 anni da una generosa famiglia, successivamente via da lì, Maddaloni, adottato dai genitori più affettuosi di questo Mondo, ormai anch’essi morti.
Questo è il mio know how, anzi il “nostro” know how, caro Marco, mi rivolgo a te, avendo anche tu perso tuo padre, ancora bambino, in condizioni del tutto particolari, e non siamo gli unici.
Noi abbiamo il know how di essere figli di eroi per caso.
Devo avvicinarmi di più al punto in questione:
Oltre che di vecchiaia, si può morire giovani per tanti motivi, come è noto: un incidente stradale più o meno grave e prevedibile, una malattia più o meno rapida e inattesa, un viaggio e i relativi incidenti o imprevisti, un incidente sul lavoro, in una miniera, la guerra, perché no? Il Mondo è sempre stato pieno di guerre, tanto per menzionarne alcuni; oppure si può essere particolarmente esposti e predisposti ai rischi: esistono gli agenti segreti, gli esploratori, i mercenari ecc.
Che cosa accade a chi rimane in vita?
Mi riferisco ai figli giovani e, in modo più specifico, a chi è molto giovane; ma, con le dovute caratterizzazioni e differenze riguarda anche gli altri familiari, e persone particolarmente vicine sopravvissute (ecco… la morte di un figlio, di un discendente, merita un discorso a parte, questo è – deve essere – un altro know how che qui non affrontiamo).
Qui il passaggio è delicato e merita attenzione e maturità di giudizio: Tutti soffrono allo stesso modo. Non c’è differenza nella sofferenza; quello che Totò diceva a proposito della morte, vale anche per la sofferenza; un po’ di sgomento in più per lo stupore, la rabbia, in condizioni particolari, stento a credere che costituisca una vera e propria differenza.
E allora quale è la differenza, il know how, per chi è figlio di un “eroe per caso” (ma non solo come vedremo), vittima di un atto di terrorismo, di una rappresaglia, di una esecuzione della criminalità organizzata, per fare alcuni esempi?
Che cosa ci si può attendere dalla vita, con la luce degli occhi?
Nessuna certezza, solo imprevisti e comunque ci si atteggi rispetto ad essa.
Peggio, forse se si sta particolarmente attenti a non mettere piede fuori di casa per evitare di scivolare su una buccia di banana o che una tegola cada sulla testa.
Quindi, oltre a quanto di buono ci dà la vita, perché altrimenti nessuno emetterebbe più neanche il primo vagito: incidenti, malattie, guerre, aggressioni, di cui si può essere vittime o figli di vittime. Se si accetta o si desidera il rischio della morte, si accetta anche la morte stessa, o la grave menomazione; i figli, in età idonea, sapranno quale era il relativo contesto.
Puoi aspettarti anche di essere abbandonato, nelle prime settimane di vita, in un parco o vicino ad un portone; si sa, nella vita quotidiana, se ne parla, oltre che nella pubblicità-progresso, nella storia, nelle leggende. Puoi aspettarti (al giorno d’oggi, per la verità un po’, anzi molto, meno) che una donna muoia di parto o, a seguito di complicazioni connesse.
Che cosa, invece, non ci si aspetta? E, come si è visto, a torto o a ragione; fin qui più a torto che a ragione. Ma si deve lottare, si deve fare in modo che sia “a ragione”!
Per dirlo bisogna esserci dentro; bisogna avere il know how; si deve poter dire: “io non mi aspettavo” e, oserei dire, “avevo il diritto” o “avrei dovuto avere il diritto” di non aspettarmi.
Dovrei avere il diritto di non aspettarmi.
Non ci si aspetta di finire davanti ad un plotone di esecuzione, non per aver commesso qualcosa di male, o in quanto vittima di un errore giudiziario, o di truci leggi di un paese straniero nel quale ci si trovi, ma perché qualcuno ha deciso così in modo imperscrutabile: Uomo divenuto Dio.
Non ci si aspetta di venire ucciso per strada, non per rapina, per vendetta, per scontro armato, ma perché col tuo stile di vita, la tua serenità, fiducia nelle umane possibilità, dai fastidio, trasmetti un ottimismo contagioso.
Non ci si aspetta di saltare per aria, non perché ci si trova in zona di operazioni militari, si fa parte di un commando, di uno schieramento esposto ad attacchi nemici, ma per dare un monito, affermare una superiorità verso i cittadini, scongiurando, semmai, contestazioni o ribellioni.
Non ci si aspetta di essere in altre analoghe situazioni.
Conseguentemente non ci si aspetta di essere figli delle vittime dei suddetti efferati atti criminali.
Che cosa cambia?
Ti cambia la vita caro Marco.
Tuo padre, che io ben conoscevo, mai più pensava di “passare alla storia”, mai più pensava di dare un significativo contributo al potenziamento della vita democratica in questo Paese; lui pensava di passare belle vacanze con gli amici, serate allegre, avere le gioie della famiglia, vederti crescere, giocare con te, e tante altre cose. Invece: commemorazioni, ricorrenze, intitolazioni e così via.
Conseguentemente è cambiata la tua vita, in tutti sensi: tanto per cominciare probabilmente oggi saresti un rompiscatole milanese anziché un valente e un po’ annoiato pescarese, e tutte le altre cose che puoi immaginare e che, comunque, fanno parte del tuo stretto privato.
Mio padre non mirava a guadagnarsi una medaglia conquistando una base nemica, non era votato all’amor di Patria; era ingegnere, amava dipingere, scolpire e sognava, probabilmente, tranquille domeniche di picnic, con me, mia madre (non parliamo qui della morte di lei, se non per sottolineare l’evidente collegamento con la morte di mio padre; anche questo è un capitolo a parte). Ci sono, poi stati cerimoniali e riconoscimenti ai quali ho partecipato, e ancora oggi, sia pure con la patina che inesorabilmente il tempo stende, partecipo, con un diverso cognome, gravato da una certa inquietudine, da giovane, poi uomo di legge campano; laddove, probabilmente non avrei mai partecipato a nessun memoriale, da torinese, forse un po’ snob, e tutto il resto che fa parte del mio stretto privato.
Io e te forse non ci saremmo mai conosciuti, ma non ce ne saremmo accorti e, almeno di questo, non avremmo sofferto.
Attenzione la vita cambia anche per gli altri! Per i figli dei morti rientranti nella “normalità” dell’esistenza, diciamo così, però… però… però… c’è un grande PERO’.
Nei nostri cambiamenti, caro Marco, te lo leggo addosso, me lo leggo addosso, C’E’ UNA PERVERSIONE; qualcosa di più, qualcosa di diverso, che ci ha accompagnato e, probabilmente, ci accompagnerà per tutta la vita; qualcosa di indefinibile, per questo parlavo di un nuovo batterio osservato al microscopio.
E’ qualcosa che ci fa essere diversi, ci rende più sensibili, ci espone di più alle tempeste che ci circondano, ma ce le fa anche capire di più.
Una sensibilità, questa, che può manifestarsi in vari modi; nel mio caso, ad esempio, c’è quel forte senso di distacco ricorrente dalle persone care, dalle cose, dai luoghi cari, i tempi lieti, e con forte accentuazione, via via che il tempo passa; una sensazione di vuoto improvviso, quel precipitare da un grattacielo, che è come se mi attanagliasse il cuore, accelerandone i battiti. Qualcosa che fa male, ma c’è anche una ricerca di essa; un vano istinto, potrebbe dirsi, di andare a cercare a ritroso il tempo e il distacco, fino a quel suo iniziale manifestarsi; un caparbio, irrazionale, ricominciare sempre da capo, un bisogno di sostituire la realtà con una finzione: la speranza che, ricominciando da capo, vada tutto bene.
Non ti parlo di quel contare il tempo per poi subito dimenticarsene che tu ancora non conosci, per legge di natura, che è qualcosa di diverso, potenzialmente di tutti, essendo di tutti il proustiano “tempo perduto”; una abitudine o, meglio, una mania incalzante, quanto più si accavallano le stagioni, che sa anche di rimpianto. Così è vedere la gioventù che sempre più si allontana. Un altro distacco, qualcosa di diverso, come dicevo, o forse la stessa cosa con una motivazione, un’impronta diversa; nel nostro caso, quando sarà lo vedrai, c’è un po’ anche di quella rimasta impressa o, comunque, risalente proprio a quello che immagini, a quello di cui stiamo parlando.
E’ il nostro know how, e di quelli come noi, ma non solo, ad un più attento esame.
E’ con tutta probabilità il know how, non solo dei figli degli ”eroi per caso”, ma di tutti coloro che sono orfani di persone, semmai semisconosciute o del tutto sconosciute, che nessuno mai ricorderà o commemorerà, ma che sono morte in condizioni assolutamente ed estremamente abnormi.
Penso al figlio di una persona che la mattina prende il treno per andare a lavorare; si può temere che muoia in un incidente ferroviario, che muoia attraversando la strada, che gli venga improvvisamente un infarto, che sia vittima di un infortunio sul lavoro. Ma si può temere che qualcuno metta una bomba sul treno, così, a scopo dimostrativo, provocando decine se non centinaia di morti, tra cui quella persona?
Si può morire per mano di un vicino di casa solo perché si tiene la radio troppo alta? Per mano di un depravato, catturato e poi rilasciato per scadenza termini (pigrizia, iattanza, assoluta strafottenza, come in altri casi, in definitiva equiparabili, di morti, ad es. in ospedale, sul posto di lavoro, ecc.) mentre si sta tranquillamente in un campo a coltivare, in una giornata di sole, o seduti in giardino, sotto un patio a leggere un libro, a passeggio in un viottolo di campagna e così via?
Al di fuori di un incubo o un sortilegio che riporti indietro l’Umanità, nella barbarie di tempi remoti, si può accettare senza sentirsi sanguinare il cuore e scoppiare il cervello, di essere in una nuova, originale, fantasiosa barbarie che prevede migliaia e migliaia di morti nei forni crematori o scaraventati in profonde fenditure di altipiani, per prendersi il gusto di “togliere” una razza, un’etnia, dalla faccia della Terra, o “depurare” un fazzoletto di Terra da una tradizione, un linguaggio, un gruppo omogeneo, e quindi considerare l’eventualità di essere tra le vittime? O che prevede la sparizione definitiva di centinaia di persone, semplicemente perché pensano ed, essendo per sua natura libero il pensiero, si trovano occasionalmente a pensare in modo diverso, inaccettabile per chi “decide il modo di pensare”?
Ecco: un buon parametro può essere, emblematicamente, quello delle “morti inutili”.
Morire per nulla. Questo non deve essere. Questo non può essere.
Si può dire, in senso convenzionale, che esiste in proposito un confine ideale, al di sopra del quale i figli (o altre persone care, come detto) dei morti, riescono, prima o poi, in qualche modo a farsi una ragione dell’accaduto. Al di sotto di esso, invece, c’è la particolarità, la “perversione”, di cui si è detto e si può comprendere, ma non si riesce mai a farsi una ragione del cambiamento della propria vita. Si può solo portare l’accaduto nel proprio animo, come una componente, una caratteristica spirituale, come, nell’assetto fisico, avere i capelli biondi o scuri, essere alti o bassi, robusti o magri.
Il fissare l’attenzione sul CAMBIAMENTO, questa è l’essenza della perversione.
Andando oltre si può addirittura ipotizzare che, nell’originaria vita, se non ci fosse stato alcun cambiamento, magari, per vicissitudini varie, si sarebbe già morti, o si sarebbero patite gravi sofferenze, problemi o diminuzioni. Si dovrebbe, forse, per questo essere lieti e grati del cambiamento? No, c’è poco da fare, in ogni caso era quella la nostra vita originaria. Non se ne deve neanche parlare per il comune senso del pudore, della decenza e, in definitiva per il buon senso delle cose. Questa sarebbe una perversione nella perversione che non aiuterebbe, ma ancora di più punirebbe noi portatori del know how e chi ritiene che sia giusto e un arricchimento della vita e della coscienza sociale, starci a sentire, cercare di comprenderci.
Ora che noi orfani di padre o di madre, o di ambedue, abbiamo definito questo know how, abbiamo constatato come siamo bravi a portarci dentro una vita non vissuta, accanto a quella vissuta, come siamo, indubbiamente proprio per questo, sensibili, anzi sottilmente, profondamente sensibili, e come tutto questo si sostanzi in una tenacia, una persistenza che non può che definirsi “perversione”, nel rivedere sempre i nostri momenti, fare lo spelling delle possibilità, alternative, potenzialità, virtualità, ripercorrerle incessantemente, febbrilmente con le perplessità e gli interrogativi che affiorano muti, inespressi, senza risposte, dentro le nostre menti, il tutto in dipendenza delle modalità della morte dei nostri genitori, alle quali, in una remota dimensione interiore, più o meno costantemente e caparbiamente pensiamo e ripensiamo, senza potercene distaccare mai; ora che abbiamo visto come è che non ci possiamo passare e, contemporaneamente, non ne possiamo fare a meno; che NON POSSIAMO DIMENTICARE per definizione, mettendoci anche la particolare sottolineatura delle MORTI INUTILI, facciamo una scoperta: Nella categoria dei know how questo è, forse, l’unico che non serve a nulla. E’, a sua volta, INUTILE.
E’ triste questo? No, è semplicemente un dato di fatto.
Mi spiego meglio.
Il know how, lo sfruttamento dell’esperienza, la tecnologia, serve (in genere, per la verità, non proprio sempre) a produrre qualcosa di nuovo o di maggiore definizione, a vendere meglio ecc. il nostro know how, invece, per sua natura non serve assolutamente a nulla; non fa vendere e non fa produrre nulla.
Ma occorre una precisazione.
Esso serve a noi, caro Marco, a comprendere che cosa abbiamo dentro, e solo dopo averlo capito, solo allora, noi abbiamo inquadrato, ingoiato, assorbito senza condizioni, quella differenza che ci portiamo dentro; e questa comprensione, questa COSCIENZA, ci fa essere uguali agli altri.
Facci caso: noi non solo siamo diversi, ma siamo considerati “diversi” dagli altri.
Immaginati questa scena, in ambito di simulazione (ma non troppo) del vero: tu arrivi, magari sei adolescente, se non appena bambino uscito dalla prima infanzia, e tutti bisbigliano qualcosa tra loro che al tuo arrivo svanisce. Anche se non è vero, chi ti toglie dalla testa che stanno parlando di te, della sciagura a te capitata? Questa è la tua diversità che non puoi fronteggiare.
Ma se sai, se hai capito (purtroppo ahimé, in genere sei, a questo punto, ormai adulto) non ci fai neanche caso, o magari sei in grado di dire la tua, raccontare tu stesso la tua storia.
Se ciò accade (come spesso è per motivi collegati ai tempi della crescita) quando sei adulto, non esito a dire che puoi recuperare e dare una connotazione ed un tono, addirittura alla tua trascorsa infanzia (ti parla uno che solo tardissimo si è sentito di parlare liberamente e apertamente della propria storia, e forse, ancora oggi ha delle remore, delle paure di essere frainteso, che si possa credere che, in qualche modo, voglia farsene un vanto o una bandiera, se non un biglietto di presentazione per qualche vantaggio sociale o professionale). In ogni caso non è mai troppo tardi per riallacciare i fili con se stesso, per sentirsi uguale, come è giusto che sia, in quanto corrispondente alla realtà dei fatti, agli altri.
Nell’esempio di prima ti troveresti nelle stesse condizioni di qualsiasi tuo coetaneo che si trovasse in quel contesto, dove oggetto della curiosità o dell’attenzione sono i riferimenti di tutti: lo studio, le ragazze o i ragazzi, il lavoro, il rapporto con gli altri, più giovani, più anziani, magari professori, persone dotate di autorità ecc.
Questo ti rende uguale, non essendoci nulla di diverso nel parlare di quella che è una tua peculiarità, ma da te resa evidente, portata alla luce del sole: l’essere tu orfano di un “eroe per caso”.
Conoscere bene la nostra differenza ci fa essere uguale agli altri.
Ecco a che cosa serve il nostro know how; e, in questa chiave, ha anche una funzione sociale, come vedi.
Che cosa crea la diversità immotivata, oscura, irrisolta, se non scompensi, scontento, disagio diffuso?
A questo punto ti lascio, caro Marco, non ho da dirti altro. Non c’era nulla di didattico o di imbonitorio in quello che ti ho detto, ma semplicemente di spontaneo; come sai, non ho mai voluto, in qualche modo, fare della mia figura un simulacro di quella di tuo padre, perché penso che bisogna vivere senza trucchi o mezzi trucchi, e non intendo iniziare adesso. Quindi ci lasciamo così con l’affetto di sempre, l’affetto degli amici, ma attenzione: cari, carissimi amici.
Riprendo il mio discorso con te, caro Ennio per dirti varie cose… mi si affolla la mente, ma, come da buona regola antica, che sia una cosa alla volta.
Questo mio scritto, derivato direttamente dal nostro ultimo incontro e da altri incontri personali, epistolari, telefonici, con te e Marco, è la prova provata di quanto spesso si afferma con decisione, ma si trova poi difficoltà ad esemplificare, e cioè che stando da soli su un’isola deserta, con tutto il tempo che si vuole a disposizione, non si riesce a far affiorare nulla nella mente, che valga poi la pena di tradurre in scritto; mentre invece stando con gli altri, confrontandosi, dialogando, rimescolando e rivangando i concetti, le idee, le riflessioni, pur con il tempo a spezzoni, stracciato, tiranno e risicato, si riempie da solo il foglio bianco.
Esso non è, quindi, solo opera mia, ma anche tua e di Marco in modo particolare, e di altri ancora, anche inconsciamente, anche se vengono dimenticati, ma conservati in piccole particelle del proprio essere.
Come vedi ho colto il tuo suggerimento e il tuo invito, fattomi quando hai ascoltato la mia storia, ma non posso andare oltre. Tu premevi per qualcosa di più, poi ho capito perché. Hai ragione, non lo nascondo, però, scusami ed abbi pazienza, devo fare il mio percorso, perché lo sento come qualcosa di irrazionale e irresistibile, di metafisico quasi, dettato dai morti.
La realtà, però, forse è un’altra, alla quale, più o meno inconsciamente, ancora sfuggo.
Tu sai che io scrivo romanzi, poesie, ma non ho mai potuto, e con tutta probabilità, mai potrò scrivere compiutamente della morte dei miei genitori naturali e della mia infanzia perché per mio carattere, forse per mia limitatezza, mi manca il necessario distacco (neanche della morte di un figlio o di un nipote, per la verità, sarei capace di scrivere; ci ho provato, anzi non ci ho neanche provato, essendomi sempre fermato al primo rigo. Credo che sarà sempre così. Possono esserci più tabù in una sola vita). Ne ho anche parlato in un pubblico consesso in occasione della presentazione di un libro di una scrittrice che ha avuto, invece, la forza d’animo di addentrarsi in tali argomenti.
Il mio modo di scrivere, che nel mio particolare caso è, poi, come dire “la mia vita” (un po’ magistrato, un po’ avvocato, giornalista, romanziere, poeta, lasciando stare l’ambito strettamente privato), dove da una parte mi soffermo, mi dilungo, approfondisco, e da un’altra parte vado di fretta, appaio sfuggente e restio è questo e, con tutta probabilità lo sarà per sempre: un tutt’uno in cui si mescolano determinismo e libero arbitrio, alcuni errori, il rifiuto che portavo dentro di me nel passato, e, probabilmente, la fuga da esso.
Quindi, anche dopo le cose chi ci siamo detti, le tue parole, solo in questi termini posso parlare di tutto quanto sopra (ho scritto, a dire il vero, sporadicamente qualcosa, ma poche cose, voglio qui fare cenno, in particolare, ad una poesia indirettamente dedicata anche a mio padre, un’altra poesia dedicata direttamente a mia madre, peraltro in modo alquanto sfumato, e poco di più).
Fuggo e probabilmente fuggirò sempre? Può darsi. Vedi come tutto quello che s’è detto mi ha cambiato la vita? E come, c’è da credere, l’ha cambiata a Marco e ad altri, più di quanto ci si accorge o di quanto essi stessi si accorgano.
Se non del tutto inevitabile, questo è solo in parte evitabile. Ma si può certo capire, conoscere, interpretare, e quindi, portarsi dentro un bagaglio, o meglio scartabellare, mettere in ordine, guardare che cosa contiene il bagaglio che si ha dentro, una caratteristica dell’animo, come dicevo.
Questa è la “nostra” storia. E in questo senso io, paradossalmente, mi sento più vicino a Marco che non ad Emilio, fin dai primissimi tempi, quando iniziai a raccontare storie immaginarie, per distrarlo da quella dirompente e tragica sciagura, poi durate anni, nelle quali, forse neanche me ne rendevo conto, noi vivevamo come se si trattasse di vita reale.
Noi siamo il nuovo cinema Paradiso della Morte, che, a differenza della Vita, che principia sempre dall’anno zero e allinea le età, e le stagioni in ogni età, non ha inizio né fine, non ha età né stagioni, né differenza alcuna di sesso, razza, religione, latitudine, cultura, potere, ricchezza.
Lo vedo bene ora che ho 64 anni, o forse già qualche anno fa; ma se avessi capito che volevano dire quando, da ragazzo, mi dicevano “sei saggio come un vecchio”! Allora ero ragazzo e, probabilmente mi avrebbe fatto bene, forse, ulteriormente, mi avrebbe cambiato la vita ristabilendo l’equilibrio, forse non sarebbe accaduto nulla, o forse sì. L’ignorante, nel senso di chi ignora, non potrà saperlo mai; chi invece cerca di sapere, si adopera per sapere, almeno qualcosa sì. Tutto questo è, certo, più di una piccola differenza.
Ed è proprio per questo, caro Ennio, che ora mi rivolgo a te che sei sempre stato molto vicino a tutto quanto sopra, e non solo con quello che scrivi o dici, ma col tuo operato, il tuo lavoro, il tuo impegno. Quale uomo di lettere, ti sarai certamente accorto che tutto è scritto praticamente di getto, in tempo breve e senza alcun corposo e approfondito ampliamento, e non può essere altrimenti.
Ma io ho capito, non sono un ignorante qui, ho capito perché così insistentemente mi inducevi a parlare, in modo ampio e compiuto, della mia storia. Era per aiutarmi a trovare il coraggio di scriverne e così uscirne, non fuggire da essa e, quindi, non uscirne mai. Un atto di bontà d’animo e di affetto il tuo. Hai probabilmente notato la mia apertura e schiettezza, pur nell’odissea della vita che a volte, come nel nostro caso, separa in modo abissale, per poi riunire in modo imprevedibile e incontrollabile. Un segno, forse, della Divinità.
Finisce, dunque, qui, questo mio scritto, con un “grazie” a te, per quello che mi hai comunicato; grazie Ennio, anche della partecipazione e dell’attenzione con cui mi hai ascoltato (e che desidererai mettere nel leggere).
Finisce qui, questo mio scritto, così, mentre intorno è tutto fermo, non si muove una foglia, la natura sembra bloccata in un pomeriggio immobile. Si sente solo lo scandire i secondi di un orologio da tavolo.
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