sabato 21 novembre 2009

Schifani e la mafia, il palazzo tace


di Furio Colombo


Parliamo del presidente del Senato Renato Schifani. Del suo passato professionale si è occupato ieri questo giornale con l’incontrovertibile narrazione di Marco Lillo: storia di un legame professionale dell’avvocato siciliano con personaggi mafiosi che risale a quindici anni fa. Quella narrazione – che dovrebbe provocare scandalo – incontra però due serie obiezioni. La prima. Schifani è un avvocato. Tipico di un avvocato è difendere chi chiede difesa. La seconda. Quindici anni sono tanti. In quel lungo periodo di tempo l’avvocato Schifani è cresciuto in un modo, i suo vecchi clienti in un altro. Lui è diventato la seconda carica dello Stato. Loro, i difesi di allora, la prima fila della mafia.
Propongo a mia volta una obiezione alle obiezioni. Renato Schifani non è oggi in discussione come avvocato. Di lui si può dire, per esempio, che è un lottatore deciso a tutto nel suo lavoro e a favore dei clienti. L’articolo di Marco Lillo racconta in modo accurato e preciso, lo stile forte con cui il combattivo legale palermitano ha condotto il suo impegno professionale a favore di un gruppo deciso a conquistare un terreno e costruire un palazzo nella piena (e purtroppo frequente) illegalità italiana. Va bene, direte, non tutti i professionisti, specialmente se bravi (Schifani vince) devono essere giudicati in base agli scrupoli. Ci sono però un paio di fatti da considerare. Uno è che tutti i protagonisti del folto gruppo che conta sull’avv. Schifani sono mafiosi. Non lo si sapeva a Milano. Ma a Palermo, vigili urbani, prefettura, polizia, già a quel tempo si tenevano alla larga dal cantiere controverso del palazzo che ospiterà Giovanni Brusca, già noto fra altri destinati a diventare celebri un po’ più avanti, ai tempi di Falcone, Borsellino e del bambino Di Matteo dissolto nell’acido.
E poi il punto più difficilmente eliminabile dalla discussione. Renato Schifani oggi è la seconda carica dello Stato. Così influente, sul destino di questo Stato, da suscitare sorpresa quando minaccia di sua iniziativa, elezioni anticipate, impossessandosi di una prerogativa che spetta solo al capo dello Stato. Dunque un uomo importante.
Un esempio fuori dall’Italia. Il celebre costruttore di New York Donald Trump non ha mai potuto candidarsi a sindaco perché, da giovane costruttore rampante, aveva minacciato un’anziana signora che non voleva cedere la sua casetta (61esima strada angolo Lexington) dove Trump voleva un grattacielo. La civiltà di New York è rappresentata da quell’evento. La casetta c’è ancora. E Trump non può entrare in politica nonostante i miliardi. In altri paesi (tutti quelli che noi chiamiamo democrazie) la reputazione ha un valore altissimo e il passato un peso che non si scioglie nell’acido del giornalismo compiacente e dell’opposizione conciliante.

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