martedì 3 novembre 2009

SUICIDIO SENZA MISTERI


La brigatista Diana Blefari Melazzi stava male In cella la lista della spesa per il giorno dopo
di Enrico Fierro


Aveva deciso di collaborare con la giustizia, Diana Blefari Melazzi, la brigatista che sabato scorso si è suicidata nella sua cella del carcere di Rebibbia. Lo rivela uno dei suo legali, l’avvocato Valerio Spigarelli. “Era in procinto di farlo. Del resto non era più ritenuta organica alle Br, non era più sottoposta al 41 bis, non aveva rapporti con detenuti ritenuti br o con altri, parlava solo con Massimo Papini (il 1 ottobre arrestato per banda armata, ndr). In questo periodo sembrava meno chiusa, e negli ultimi tempi aveva accettato di avere potenzialmente degli scambi con gli investigatori, facendo leva sul fatto che le era divenuto intollerabile il carcere. Ma stiamo parlando di una disponibilità del tutto iniziale”. Diana Blefari, la “compagna Maria”, la “staffetta” delle nuove Brigate Rosse, stava male da tempo. Non sopportava il carcere, piuttosto che rimanere rinchiusa in una cella a vita, avrebbe preferito morire. E lo aveva detto a Massimiliano Papini, suo amico del cuore, durante una visita che lui le aveva fatto in carcere. “Aiutami a morire in modo indolore”. Parole agghiaccianti, intercettate e impresse su un nastro agli atti dell'inchiesta del pm Erminio Amelio. “Diana stava male e tutta la discussione sul fatto se avesse deciso o meno di collaborare non sposta la sostanza delle cose”. Parla l’avvocato Caterina Calia, legale della Blefari. “Stiamo parlando di una persona che non era in sé, maturava delle cose per disperazione, ed era stata indotta a maturare decisioni, anche quella di scrivere delle lettere. Ma stiamo parlando di un soggetto malato da almeno quattro anni e mezzo, nessuno, nessuna autorità si è mai fatta carico di quella che si presentava come una vera e propria emergenza”. L'avvocato ricorda le “istanze presentate al Dap (il Dipartimento penitenziario), e le risposte ricevute. Sempre le stesse: Diana Blefari è ben assistita. Non era così, come dimostra la relazione del dottor Marasco, psichiatra d'ufficio e non di parte, che suggeriva di far intrattenere alla detenuta maggiori rapporti con i familiari. Diana non era una persona equilibrata, soffriva di un disturbo bipolare della personalità, vedeva fantasmi attorno a sé, pensava che tutto il mondo, anche le altre detenute, tutto fosse contro di lei. La condanna all’ergastolo, quel fine pena mai, l’ha fatta definitivamente crollare”. Eppure nella sua cella, insieme ai fogli con la sentenza della Cassazione, è stata trovata una lista per la spesa del giorno dopo. “Nessun mistero – è la risposta dell'avvocato Calia – era l’effetto più evidente del suo stato: programmare il futuro, quello che si può concepire in carcere, e all’improvviso decidere di farla finita”. Suicidio, quindi, senza misteri, senza retroscena. Suicidio come conseguenza degli allarmi che nessuno ha voluto raccogliere. Anche quando erano scritti nero su bianco in relazioni e perizie ufficiali. Quella redatta il 29 gennaio 2007 dalla dottoressa Francesca Porcari, ad esempio. La Blefari, scriveva la specialista, “si presenta vigile, lucida, orientata spazio-temporalmente, ma rifiuta in modo categorico e minaccioso il colloquio psichiatrico”. Per questo la dottoressa Porcari ammetteva di “non poter disporre di elementi utili per la valutazione delle condizioni psichiche” e suggeriva “il trasferimento in istituto con annessa sezione per espletamento osservazione psichiatrica finalizzata a conoscere l'orientamento diagnostico e il rischio suicidiario”. Rischio che evidentemente esisteva ed era forte.
Quello di Diana Blefari è il suicidio numero 61 dall'inizio dell’anno nei penitenziari italiani. E questo deve far riflettere “sul degrado delle nostre carceri”, dice Renato Borzone, vicepresidente dell'Unione Camere penali italiane. “Il fatto che la detenuta Blefari Melazzi fosse stata condannata per reati gravissimi non esime affatto dal denunciare il grave e tragico episodio, come avvenuto alcuni giorni fa per il caso Cucchi. Entrambi mostrano come il clima di emergenza che sembra diffondersi nella nostra giustizia possa provocare effetti perversi nella politica giudiziaria e carceraria".

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