martedì 22 dicembre 2009

Il Partito democratico e l'elogio dalemiano dell'inciucio


Perchè ho appena strappato la tessera del Pd”.
Lettera aperta a Ignazio Marino

Caro senatore Ignazio Marino,

Ho appena strappato la tessera del Partito democratico, tessera che avevo preso la scorsa estate per sostenere la sua candidatura alla segreteria del partito. Il dissenso con le ultime dichiarazioni di Massimo D’Alema non mi consente di restare all’interno del Pd un minuto di più. La classica goccia che fa traboccare il vaso, come si dice.

Per giustificare la sua linea politica, D’Alema ha ricordato Togliatti e l’articolo 7 della Costituzione, quello che accoglie i Patti Lateranensi di Mussolini all’interno della Carta repubblicana. A voler prendere le dichiarazioni di D’Alema seriamente, basterebbe ricordare le parole di Piero Calamandrei che nel 1947 scrisse che quei Patti Lateranensi “sono in contrasto (anche i ciechi lo vedono) colla costituzione della Repubblica”, e che quella “capitolazione” fu il risultato del “voltafaccia” dei comunisti.

Per prendere le dichiarazioni di Massimo D’Alema seriamente però si dovrebbe ignorare la storia di questi ultimi quindici anni, una storia tormentata ma che non può essere ignorata. Già nel 2001 l’economista Paolo Sylos Labini scriveva a proposito della Bicamerale (1997-1998) presieduta da D’Alema:

"La legittimazione politica scattò automaticamente quando fu varata la Bicamerale: non era possibile combattere Berlusconi avendolo come partner per riformare, niente meno, che la Costituzione, con l’aggravante che l’agenda fu surrettiziamente allargata includendo la riforma della giustizia, all’inizio non prevista. E la responsabilità dei leader dei Ds è gravissima."

Qualche giorno fa il britannico Guardian – non un foglio bolscevico, esattamente – scriveva a proposito di Berlusconi: “i leader mondiali dovrebbero iniziare a prendere le distanze da un uomo come questo”. E tuttavia sarebbe ingeneroso e disonesto addossare la responsabilità politica per le drammatiche condizioni in cui versa oggi l’Italia solamente all’attuale capo del governo. In questi ultimi, tormentatissimi quindici anni, Massimo D’Alema è stato l’alleato principale di Silvio Berlusconi; dalla (fallita) Bicamerale alla (fallita) scalata alle vette della diplomazia europea, i due nemici inseparabili, di fallimento in fallimento, hanno lasciato dietro di sè solo macerie.

So che all’interno del Pd ci sono moltissime cittadine e cittadini moralmente e intellettualmente onesti, capaci e di buona volontà. Sono convinto che queste persone siano la stragrande maggioranza, sia tra gli iscritti sia tra i dirigenti del partito. Ma al punto in cui si è arrivati – e nel partito e nel paese – restare all’interno del Partito democratico significherebbe regalare un’immeritata foglia di fico a chi condivide le pesanti responsabilità politiche per la morte della Repubblica.

Mentre le scrivo, sto leggendo sulla stampa che ci sarebbero forti polemiche all’interno del Pd per le dichiarazioni di D’Alema (e di Latorre). Lo spettacolo non è certo edificante e le polemiche sono ormai davvero stanche e inutili e riflettono solo l’eutanasia del partito che avrebbe voluto essere democratico. Scriveva Bertrand Russell un secolo fa, “Il nocciolo dell’atteggiamento scientifico sta nel rifiuto di considerare i nostri desideri, gusti e interessi come la chiave per la comprensione del mondo”. Da uomo di scienza, non le sfuggirà l’importanza del metodo scientifico, anche in politica.

Le faccio i migliori auguri per il Natale e per il nuovo anno e chiudo questa lettera con le parole con cui Piero Calamandrei chiudeva quel suo articolo.
Lo spirito del Natale passato.
Il realismo degli «ultimi mohicani»
"Difficile dunque dire quale parte sia stata vittoriosa. Ma forse la vera sconfitta è stata, insieme colla sovranità italiana, la democrazia parlamentare.
Alla base della democrazia e del sistema parlamentare sta un principio di lealtà e di buona fede: le discussioni devono servire a difendere le proprie opinioni e a farle prevalere con argomenti scoperti, e i voti devono essere espressione di convinzioni maturate attraverso i pubblici dibattiti. Quando i voti si danno non più per fedeltà alle proprie opinioni, ma per calcoli di corridoio in contrasto colla propria coscienza, il sistema parlamentare degenera in parlamentarismo e la democrazia è in pericolo.
Proprio per questo il voto sull’art. 7 lasciò alla fine, in tutti i sinceri amici della democrazia, un senso di disagio e di mortificazione. L’on. Togliatti, in un articolo dedicato al partito di azione (sull’«Unità» del 2 aprile), ha espresso l’opinione che la fondamentale debolezza di questi «ultimi mohicani» consista nella mancanza del «senso delle cose reali, che dovrebbe invece essere ed è la qualità prima di chi vuole impostare e dirigere un’azione politica». Ma quali sono le «cose reali?». Qualcuno pensa che anche certe forze sentimentali e morali, che hanno sempre diretto e sempre dirigeranno gli atti degli uomini migliori, come potrebb’essere la lealtà, la fedeltà a certi principi, la coerenza, il rispetto della parola data e così via, siano «cose reali» di cui il politico deve tener conto se non vuole, a lunga scadenza, ingannarsi nei suoi calcoli.
Potrebbe darsi che i comunisti, quando hanno compiuto con estremo virtuosismo quell’abilissimo esercizio di acrobazia parlamentare che è stato il voto sull’art.7, non abbiano calcolato abbastanza l’impressione di disorientamento e di delusione ch’esso avrebbe prodotto sulla coscienza del popolo ingenuo, che continua a credere nella democrazia. E non abbiano pensato che anche la delusione e il disgusto sono stati d’animo idonei a produrre nel mondo certe conseguenze pratiche, dei quali il politico, se non vuole andare incontro ad acerbi disinganni, deve tener conto come di «cose reali»." [da: ART. 7: STORIA QUASI SEGRETA DI UNA DISCUSSIONE E DI UN VOTO, «Il Ponte», anno III, n. 4, aprile 1947]

Molto cordialmente,

Gabriele Zamparini, Londra

(19 dicembre 2009)

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